La scelta espressa da poco più della metà dei cittadini britannici dovrebbe spingere a una qualche riflessione sulle figure portanti della coesistenza umana nei territori dell’Europa. Figure che non solo appaiono essere indebolite, ma sono oramai in rapida evanescenza. Nella sua risposta letteraria alla folle violenza del nazismo (Giuseppe e i suoi fratelli), Thomas Mann chiude con la riconciliazione della ferita che da sempre abita nel corpo della socialità umana. Quella che apre verso legami effettivamente solidali, gettando così le basi per ciò che la modernità non fu mai in grado di realizzare a causa della sua ipertrofia del soggettivo: ossia la fraternità. Non si tratta di idee, ma di gesti e forme concrete che danno forma al quotidiano vivere insieme fra i molti, fra i diversi – ciascuno con la sua propria storia, con la paura delle sue paure che paralizza ogni apertura capace di travalicare la propria personalissima vicenda e l’individualizzazione degli interessi. Se i germi dell’Unione Europea nacquero anche da una sapiente ragion pragmatica della politica portata avanti dai padri fondatori, non di meno essi contenevano, e contengono tutt’oggi, lo stesso immaginario del vivere-insieme che chiude la tetralogia di Mann, consegnandola alla ripresa della lettura e del vissuto dell’Europa che verrà.
È indubbio che l’Europa, così come la conosciamo e attraversiamo oggi, abbia una sua storia, una storia importante, non scontata, perfino sorprendente se guardiamo ai secoli che l’hanno preceduta (e preparata). Ma questa storia non ha un racconto, non siamo riusciti a farla diventare quella favola da trasmettere ai nostri cuccioli come il sogno di una realtà inaspettatamente divenuta tale. Difficile un vivere-insieme fra i molti, che vuole preservare il da-dove di ciascuno (lingua, cultura, e così via), senza un racconto fondatore – un mito delle origini, nel senso più alto del termine. Invischiata nella ragione illuminata del moderno, proprio quella messa in discussione da Mann nel suo romanzo, l’Europa nel tempo della culla dei suoi nuovi giorni ha pensato di non averne bisogno; e oggi paga il prezzo di quella sua scelta di un tempo che ci lascia tutti senza memoria. Così non ci accorgiamo che il nostro particolarissimo da-dove è stato generato in un grembo più ampio, nel quale le molte separazioni si sono lentamente trasformate nello spazio comune di un’origine condivisa.
Se a quel racconto fondatore si vuole proprio rinunciare, e oggi non possiamo altrimenti, bisognerebbe instillare nei cittadini europei la sapienza di un racconto che nasce dalle pratiche quotidiane che l’Unione Europea ha reso di fatto possibili per tutti noi: abitare, viaggiare, lavorare, studiare. Per dirne solo alcune, perché di pratiche in attesa di una parola, di un racconto e di una favola, l’Europa post-bellica ne ha prodotte molte – nonostante i limiti della sua impresa. Anche quella più apparentemente banale – pagare ovunque con la stessa moneta – dice molto di più di una semplice unione finanziaria fra nazioni che continuano a perseguire logiche e interessi autoctoni. Dentro tutte queste pratiche europee, inimmaginabili solo per la generazione dei padri dei nostri padri fondatori, vi è inscritta la possibilità di un nuovo umanesimo europeo senza che noi ce ne accorgiamo, senza saperlo. Eppure il sentore di questa possibilità si annuncia ogni volta che passiamo quello che resta di un confine fra nazioni come se girassimo nella città in cui siamo nati. Abbiamo un tesoro nelle nostre mani, e ne attingiamo ogni giorno, senza averne la minima consapevolezza. Se la mente illuminata pensò allora di essersi oramai emancipata da ogni racconto fondatore, i gesti della nostra quotidianità non possono più dismettere il compito di dare linguaggio alle pratiche quotidiane di un’Europa unita.
Si tratterebbe, a mio avviso, del gesto a più alto profilo politico da parte dei cittadini dell’Unione davanti alla stasi nazionalista nella quale versa la politica quotidiana dei nostri governanti di casa. Quello che sottrarrebbe loro la legittimazione di ogni retorica che vorrebbe riconquistare il potere sulle pratiche del nostro vivere che si sono visti sottrarre di mano dalla realtà di un sogno che si chiama Unione Europea. Pratiche condivise creano un linguaggio comune trasversale alle lingue e dialetti che, giustamente, continuiamo a parlare. Farlo diventare racconto, con diverse accentuazioni e tonalità, è la via da percorrere per non lasciarci sfuggire di mano la possibilità e il sogno di un nuovo umanesimo europeo. Quello che dà fastidio alle potenze che hanno in mano oggi l’ordinamento del mondo, perché capace di immaginare una storia diversa per tutti, lasciando essere ciascuno se stesso e riconoscendolo proprio in questo. Un modo altro del vivere insieme, che non è semplice omologazione né tollerante indifferenza rispetto alla particolarità di ciascuno.
L’Europa che nasce dal fallimento della ragione moderna, e ognuno di noi che in essa è stato generato, è chiamata a questa generazione di un racconto condiviso intessuto su tutta una serie di pratiche comuni che contrassegnano la nostra quotidianità. Solo così si potrà costruire pian piano la trama di un modo di vivere insieme che si approssima sempre di più a quella fraternità in cui Thomas Mann aveva intuito risiedere il destino di un’Europa capace di raccontare la propria storia.
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