Dal 4 al 7 marzo si è svolto a Bologna il secondo meeting dell’European Academy of Religion (EuARe), con un programma intenso di panel tematici, lezioni magistrali, incontri informali intorno ai quali costruire progetti internazionali – o anche semplicemente scambiarsi quattro idee sulla situazione politica e culturale del nostro tempo.
Buona la partecipazione, con presenze provenienti anche al di fuori del continente europeo.
Pian piano, la EuARe inizia ad assumere una struttura direttiva chiara, coerente con gli statuti elaborati: un ufficio di presidenza e una segreteria generale che non coincidono più con la struttura organizzativa dell’evento. Anche se una certa commistione, sicuramente comoda ma probabilmente non sempre sana, rimarrà finché il meeting annuale si terrà a Bologna.
Un’accademia della religione in Europa, perché?
Ma cosa è la EuARe? Quali i suoi possibili sviluppi? Perché rappresenta un’iniziativa comunque preziosa per quei settori di accademia che intercettano e si occupano della religione e dei fatti religiosi?
Desunta dall’omologo americano, appunto l’American Academy of Religion (AAR) che vanta una tradizione ben più lunga e condizioni complessive dell’ambiente accademico profondamente diverse da quello europeo, la EuARe è una sorta di corpo ibrido in cerca di una (qualche) identità. Per quanto fosse necessario mettere mano a un luogo europeo in cui convogliare la molteplicità di approcci a ciò che si può genericamente racchiudere nel termine «religione», rimane comunque lo scotto da pagare all’essere il calco del modello americano.
In quest’ottica, la EuARe è sostanzialmente uno luogo espositivo (da noi si usa il termine fieristico), che mette a disposizione degli spazi vuoti che vengono riempiti dai panel, tavole rotonde, presentazione di libri, dibattiti, e così via.
Per i più giovani un’occasione per farsi vedere, per mettersi in mostra e cercare di vendersi sull’esiguo mercato del lavoro accademico europeo (il meeting dell’AAR è un immenso spazio di contrattazione lavorativa: offerta e richiesta, con la prima che eccede sempre più la seconda). Per gli accademici che hanno raggiunto una certa stabilità, la EuARe offre l’occasione di presentare progetti in corso di avanzamento, di costruire reti di collaborazione, di conoscere colleghi e colleghe. In positivo, il meeting dell’EuARe offre lo spazio (il tempo un po’ meno, vista la frenesia con cui si susseguono le sezioni dei lavori) per parlare e per conoscersi – al di fuori degli schemi rigidi dell’accademia europea.
Nell’assumere il modello americano si rischia, tuttavia, di perdere parte dello specifico europeo per quanto concerne la «religione» e i fenomeni di varia matrice legati a essa. In primo luogo, quello di un certo radicamento istituzionale: dove l’università non è il singolo professore o ricercatore; la città non è solo una sala posta in una delle sue piazze più belle; lo spazio pubblico non consiste solo nella società civile, ma vede anche la partecipazione dello stato e dei rappresentanti delle religioni stesse.
Il libro assente
Su questi aspetti, l’effetto (almeno iniziale) di trascinamento del modello americano è evidente; come è evidente la desuetudine delle istituzioni (cittadine, in questo caso) a interloquire con iniziative di questo genere.
Già nella stessa Bologna non mi sembra si sia messa mano a un’elaborazione adeguata di cosa significhi avere in città, per quattro giorni, centinaia tra i migliori esperti di «religione» a livello continentale (tra l’altro in un frangente in cui essa è sulla bocca di tutti).
E anche l’Università cittadina non pare aver messo a tema la questione del sapere religioso e di quello teologico come importanti per la stessa universitas dei saperi. Del tutto irrilevante è stato, poi, l’evento per le altre università statali italiane (fatti salvi, ovviamente, i percorsi biografici dei singoli docenti e studenti, da un lato, e un certo interesse semi-istituzionale della giurisprudenza e del diritto, dall’altro).
Quando il meeting annuale dell’EuARe lascerà l’Italia per svolgersi altrove, le nostre università avranno definitivamente perso un’occasione d’oro per superare il rigetto ideologico (e oramai davvero infantile) della religione e delle teologie dalle loro aule.
Uno dei pezzi forti del meeting annuale dell’AAR oltreoceano è sicuramente l’enorme spazio espositivo per le case editrici di settore (anche europee), dedicato non solo a concludere affari tra di loro (stile Francoforte), ma anche e soprattutto al «lettore» (e potenziale autore). La fiera del libro legata all’AAR si costruisce intorno ai partecipanti al meeting, con tutte le opportunità e facilitazioni connesse.
Per il momento, il meeting dell’EuARe si svolge sostanzialmente senza «libri», stante la presenza sparuta di qualche banchetto espositivo di un pugno di case editrici. Indice sicuramente della profonda crisi di settore dell’editoria italiana, da un lato, e del disinteresse all’iniziativa da parte di quella europea. D’altro lato, il «grande pubblico» sta tutto dall’altra parte dell’Oceano; e gran parte di quello che sta di qua partecipa con una certa regolarità ai meeting dell’AAR, per cui è inutile ripetersi e fare le cose doppie.
L’orto della teologia italiana
Dopo tre anni di EuARe, tra conferenza zero e due meeting annuali, credo si possa iniziare a dire che la teologia italiana sta mancando una grande occasione per de-provincializzarsi (culturalmente e linguisticamente). Abbiamo, a livello qualitativo, una teologia di portata europea e, a livello di mentalità, una da piccolo paesino di mezza collina. Basta guardare i panel del meeting di quest’anno organizzati da istituzioni teologiche italiane. Lo sguardo d’insieme è tendenzialmente sconfortante: la teologia italiana parla di se stessa a se stessa in italiano.
Poi ci sono i singoli, su tutti i fronti e discipline, che saltano di qua e di là e ci fanno fare anche una qualche bella figura. Alcuni li adottiamo, gli affetti permettono sempre di importare eccellenze, altri li consideriamo dei nostri anche quando sono anni che lavorano altrove. Ma a parte queste eccezioni, la teologia italiana come istituzione non riesce proprio a uscire dallo specchio di se stessa: interloquisce unicamente con la teologia, parlando esclusivamente la lingua madre. Con questa forma mentis è difficile diventare appetibili per l’accademia pubblica dei saperi (dei cui limiti abbiamo già detto). E questo non fa bene né alla teologia di casa nostra né alle nostre università.