Relazione tenuta al Colloquio internazionale «La devozione al Sacro Cuore. Memoria-Corpo-Immagine-Testo: continuità e discontinuità», organizzato dal Centro studi della Congregazione dehoniana in collaborazione con la Pädagogische Hochschule di Lucerna. Antonio Viola, dehoniano, lavora nell’ambito della pastorale universitaria a Trento e insegna presso l’ISSR Romano Guardini della diocesi.
La storiografia più avveduta, già da molto tempo, ha indagato i rapporti esistenti tra immagini, funzione della memoria e rapporti con il sacro[1]. Nel corso del Cinquecento sembra cristallizzarsi in maniera evidente una situazione che aveva trovato i suoi primi sviluppi in epoca medievale e in particolare attorno alla diffusione della spiritualità francescana e degli altri ordini mendicanti: l’uso di rievocare alla memoria i differenti momenti storici della vita e soprattutto della morte di Cristo, diventerà una costante tipica della pratica religiosa del Quattrocento ma soprattutto del Cinquecento.
Testo e immagine
La meditazione sulla figura di Cristo e in particolare sul suo aspetto corporeo riacquista una centralità indiscutibile: a partire dagli stimoli offerti dalla devotio moderna e da quel testo straordinario che eserciterà un influsso innegabile su gran parte delle forme devozionali del tempo, e cioè il De imitatione Christi, si diffonderà in tutta Europa una religiosità basata sulla necessità di trovare strumenti capaci di materializzare e concretizzare in immagini vive il tema della propria meditazione.
I francescani in particolare, diventarono maestri nel favorire, attraverso le pratiche delle confraternite da loro ispirate e le ritualità da loro stessi condotte, una spiritualità destinata ad una ampio pubblico, ma capace di richiedere, prima di ogni altra cosa, un coinvolgimento individuale ed emotivo. Questo tipo di meditazione richiedeva un’ampia frequentazione del patrimonio figurativo corrente: con grande chiarezza Ottavia Niccoli ci descrive le modalità abituali proprie della pratica di fede degli anni tra Quattrocento e Cinquecento: «L’orante doveva immaginarsi nella loro concretezza i luoghi e le persone della passione, aiutandosi con figurazioni a lui familiari: la preghiera si impiantava quindi su un continuo processo di visualizzazione interiore delle circostanze della vita di Cristo e dei santi, processo che era reso possibile proprio da una lunga consuetudine con le immagini e che, a sua volta, veniva tenuto presente dal pittore che si atteneva d’abitudine agli stereotipi che esso generava».[2]
Numerosi testi di spiritualità, tra i quali sicuramente il più famoso il Zardin de oration fruttuoso, ma anche le notevoli pagine di diario, lettere e riflessioni delle principali mistiche italiane[3] del tempo, confermano questo quadro complessivo, sostenendoci nell’idea che al centro della pratica devota, vi fosse soprattutto la continua riflessione attorno alle immagini della Passione.
A titolo d’esempio possiamo prendere un quadro di Lorenzo Lotto, autore scelto non a caso, proprio perché rappresentativo di quanto veniamo dicendo, ma soprattutto perché già portatore di quelle nuove istanze che segneranno il delicato passaggio tra gli anni immediatamente precedenti il Concilio di Trento e quelli successivi della sua ricezione.
Nel Ritratto di fra Gregorio Belo del 1546-1547 (fig. 1) ritroviamo tutti gli elementi di cui stiamo trattando a partire dalla relazione intensa tra lettura, meditazione, capacità immaginativa, funzione della memoria e rapporto con il tema della Passione di Cristo[4], dove il tema della redenzione mediante il sacrificio di Cristo diventerà sempre più sospetto proprio a partire da questi anni nel contesto della risposta della Chiesa di Roma ai movimenti della Riforma e a quelli esplicitamente ereticali.
Il rapporto tra vedere e meditazione poteva quindi anche essere indiretto, sollecitato dal ricordo o da un testo scritto, favorendo così lo sviluppo di una visione interiore addirittura più viva ed efficace della presenza stessa di una qualche immagine o di un simulacro.
I sacri monti
Questa constatazione risulta sicuramente vera per chi ha fatto dell’esperienza della preghiera la propria abituale condizione di vita, in particolare nella forma della meditazione e si pensi agli esiti che tale contesto ha generato nella pratica dei più grandi mistici del tempo, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila e Ignazio di Loyola, ma non possiamo dire altrettanto della realtà riguardante la pratica devozionale popolare, che dimostrerà ancora di aver bisogno del continuo sostegno di immagini per favorire l’attivazione della memoria nella gestione dei rapporti con il sacro.
In questo senso la traiettoria indicata dallo sviluppo e diffusione dei grandi gruppi dei compianti in area padana e la nascita dei Sacri monti in area alpina diventa emblematica. In un momento di scambi ancora particolarmente vitali tra elaborazione teologica, liturgia e devozione, gli straordinari compianti di Nicolò dell’Arca, Guido Mazzoni, Alfonso Lombardi, Antonio Begarelli, rappresentano un punto alto di sintesi nella ricerca di equilibrio tra esigenze del culto e manifestazione della sincera pietà popolare.
Questi gruppi, quasi sempre grandi al vero, venivano inaugurati ed impiegati particolarmente durante le celebrazioni della settimana Santa[5], ma trovavano una collocazione spesso centrale rispetto al luogo dove veniva consacrata l’eucarestia in modo da richiamare, anche visivamente, il rapporto immediato esistente tra il sacrificio fisico e storico del Cristo e il suo continuo rinnovarsi nella realtà sacramentale.
Del resto, che lo spirito dentro al quale ci si muova sia proprio quello di una continua riflessione attorno alla realtà del corpo di Cristo, ce lo ricorda molto bene la vicenda della risistemazione del coro di Santa Maria del Fiore a Firenze, dove, nel 1552, in pieno Concilio, Baccio Bandinelli colloca una statua colossale del Cristo morto sull’altare principale[6] con lo scopo di sottolineare, in tutta evidenza, la connessione diretta tra sacrificio di Cristo e presenza reale nell’eucaristia. Nelle città della pianura o all’interno delle chiese, nel contesto della pratica liturgica, ci si accontentò di rivisitare singole scene della passione attraverso la realizzazione di opere fortemente espressive ma che potessero favorire, in maniera credibile, la partecipazione del fedele ad un fatto storico che, richiamato alla memoria, diventava così anche visivamente parte di un eterno presente.
In un contesto particolare come quello dell’area lombardo piemontese ai piedi delle Alpi, dove l’aspetto paesaggistico poteva offrire numerosi spunti, si arrivò a forme di tale simbiosi tra esigenze popolari, istanze istituzionali e predicazione, da realizzare un vero e proprio unicum narrativo attraverso l’incredibile creazione dei Sacri Monti. Troppo complicato e non di nostra competenza sarebbe analizzare la genesi del sistema sacromontano[7]; a noi interessa soltanto sottolineare come una tale creazione sia perfettamente comprensibile all’interno del clima spirituale che stiamo cercando di analizzare, dove la centralità della vicenda che porta al sacrificio di Cristo assume un ruolo sempre più decisivo.
Non ci si accontenta più di richiamare semplicemente alla memoria un momento preciso, si cerca di ricostruire il paesaggio e il contesto generale entro cui collocare un’intera storia, in una sorta di viaggio fisico e mentale attraverso le vicende della Passione: se pensiamo ad una delle prime e più straordinarie realizzazioni sacromontane come quella di Varallo (dove lavorerà un artista geniale del calibro di Gaudenzio Ferrari), possiamo affermare che nasce la possibilità di una nuova forma di pellegrinaggio, un «pellegrinaggio in terra propria»[8] in un momento in cui sembra interrompersi per sempre la possibilità del pellegrinaggio a Gerusalemme, ormai saldamente in mano ai turchi (definitivamente dal 1517). Assistiamo allora a una vera e propria interiorizzazione della pratica di viaggio, corrispondente sempre più in una pratica rituale che sfocerà, in ambiente controriformistico, proprio in questi anni, negli «schemi propri degli esercizi spirituali»[9].
La Passione e il viaggio
Non è più necessario compiere il lungo viaggio per vedere le terre in cui si è resa manifesta la gloria di Dio: a tutti ora è possibile svolgere devotamente un «pellegrinaggio interiorizzato, cioè inteso come percorso spirituale»[10] meditando di fronte alle scene che rievocano e riattualizzano i momenti differenti della vita di Cristo.
L’impossibilità di raggiungere la vera Gerusalemme fa nascere il desiderio di costruire delle «Gerusalemme nuove», non solo in senso materiale, ma anche e soprattutto in senso spirituale. Il credente era così coinvolto in prima persona nello sviluppo della storia della passione, era chiamato a divenire personaggio stesso degli eventi rappresentati, era emotivamente spronato a prendere posizione rispetto ad una storia che non era chiusa nel passato, ma lo interrogava direttamente circa il suo essere nel presente[11]: educati dalla liturgia, soprattutto dal rapporto con il sacramento dell’eucaristia, a saper guardare oltre le apparenze, i fedeli sono invitati a vedere oltre le mere sembianze raffigurate, per cogliere il senso profondo del sacrificio di Cristo in favore delle loro stesse vite.
I Sacri Monti divennero strumento fondamentale per nutrire lo spirito devozionale di intere popolazioni dell’area alpina occidentale, soprattutto nel momento in cui iniziarono a diffondersi, in maniera sempre più invasiva in quelle zone, le teorie dei principali teologi della Riforma: San Carlo Borromeo e i Gesuiti ne comprenderanno ben presto il valore.
Assistiamo però ad un fenomeno particolare dal momento che ciò che si era sviluppato in relazione alla necessità di approfondire il rapporto con l’aspetto sacrificale della liturgia eucaristica, viene a vivere di vita totalmente autonoma; si realizza cioè una frattura tra pratica liturgica e percezione devozionale dove al centro delle meditazioni di questi straordinari complessi non è più il corpo di Cristo e tutto ciò che ruota attorno alla passione.
Saranno sempre di meno, infatti, i Monti dedicati a Cristo e alla sua storia, se si eccettuano gli episodi tradizionalmente legati alla meditazione della preghiera del rosario e sempre di più quelli dedicati a Maria o ad altre figure di santi[12] o a tutte quelle realtà che venivano messe in discussione dalla Riforma. Tale tendenza trova riscontri in molti altri contesti, compresi quelli di cui ci siamo occupati parlando dei mortori padani: le rappresentazioni dirette del corpo di Cristo diminuiscono e soprattutto finiscono per essere relegate in aree marginali, cappelle laterali, spazi dedicati alla devozione privata.
La scomparsa del corpo
Assistiamo dunque ad una relativizzazione del tema della passione, ma soprattutto sembra diventare secondario un aspetto che invece parrebbe fondamentale per la teologia cattolica, quello del riferimento chiaro al sacramento eucaristico come reale partecipazione al sacrificio unico di Cristo. Perché proprio nel momento in cui si riaffermava con chiarezza la realtà sacrificale dell’eucaristia si veniva a privare l’orizzonte devozionale della possibilità di utilizzare strumenti visivi che potessero chiarire il senso della celebrazione liturgica? Cosa si offrì in cambio?
Confermando la centralità del sacramento eucaristico, in chiara opposizione ai dubbi tematizzati dal mondo della Riforma, la Chiesa ne sanciva anche una funzione di elemento catalizzatore per l’identificazione collettiva del mondo cattolico. Chiariti gli aspetti dottrinali circa la presenza reale e sancita l’attualità del ruolo sacrificale dell’eucaristia in relazione all’unico sacrificio di Cristo, diventò però necessario, nella prassi, evitare ogni possibile confusione: tutto ciò che potesse distogliere l’attenzione dalla centralità assoluta del sacramento e dal luogo in cui tale sacramento veniva celebrato, poteva essere giudicato sospetto e quindi eliminabile, foss’anche la rappresentazione del corpo fisico di Cristo.
In effetti, tali rappresentazioni finirono per essere viste con diffidenza, almeno per ciò che concerne la loro funzione di corollario alla liturgia, visto che rischiavano di condurre il credente a focalizzare l’attenzione sull’unico sacrificio di Cristo, quello storico, trascurando così la realtà sacrificale dell’eucaristia. L’utilizzo stesso del termine corpo di Cristo iniziò ad essere limitato il più possibile al solo sacramento dell’altare a scapito di ogni altro impiego. L’unica presenza reale e certa di Cristo doveva essere quella nell’eucaristia. Ricercare altre forme di presenza o dare peso eccessivo al ruolo della memoria o alla funzione immaginativa che non portasse all’incontro sacramentale con Cristo divenne presto giudicato come inaccettabile.
Soprattutto la questione del sacrificio della messa poteva costituire una realtà parecchio problematica se si fosse lasciato adito al fraintendimento che, in effetti, l’unico sacrificio possibile era stato quello di Cristo sulla croce, realtà continuamente richiamata alla memoria dalle produzioni scenografiche dei grandi gruppi fittili padani, ma anche, secondo ben altra prospettiva, dai riformatori e da tutti quei gruppi ereticali che iniziavano ad animare sempre più frequentemente le città italiane, basti pensare alle vicende inerenti alla diffusione rapidissima e incontrollata di un testo emblematico come il Beneficio di Cristo, che ha avuto sicuramente influenze importanti anche sulle produzioni artistiche del tempo[13]. Quello che la devozione, attraverso la produzione di opere d’arte di alto livello culturale, aveva elaborato come possibilità vitale di interazione con la ricerca teologico-liturgica a servizio di una migliore comprensione del senso globale del sacramento eucaristico, venne interpretato come rischioso e di conseguenza fortemente limitato nei suoi possibili sviluppi.
La devozione controllata
Si preferì valorizzare una forma di devozione, non più così libera e creativa, ma più strutturata e controllabile, interamente a servizio di una trasposizione chiara delle dottrine ritenute affidabili. Non si tratta di giudicare negativamente questa scelta, scelta che deve sempre essere collocata nel quadro più ampio e complesso dell’assetto storico e sociale del tempo: si tratta piuttosto di verificare come essa influì sulla percezione credente del dato eucaristico e sulle succesive forme di rappresentazione di aspetti legati al corpo di Cristo. Anche le forme della mistica diventeranno sempre più controllate e se fino alla metà del ‘500 sarà normale il rapporto con immagini che daranno adito a forme di devozione popolare diffusa, con il cambio di paradigma prospettato nelle righe precedenti, si assiste ad una pratica sempre più ridotta allo spazio intimo e personale, dove anche il rapporto con le immagini del Cristo necessita di nuove mediazioni.
Il cuore dello spazio per la manifestazione pubblica della fede si struttura sempre più attorno all’eucaristia sfruttando al massimo anche gli elementi architettonici e iconografici che possano valorizzarla; il tema del mediazione corporea di Cristo viene risolto principalmente attraverso le sempre più diffuse rappresentazioni dell’eucaristia che vengono a scalzare il ruolo fino ad allora mantenuto dalle immagini del corpo morto di Cristo.
Il baricentro della riflessione sulla realtà della Passione si sposta sempre più dalla dimensione storica delle cause a quella trascendente degli effetti.
Rimarrà luogo fondamentale per la riflessione credente ma in una prospettiva sempre più interiore e intimistica, dando adito a forme di spiritualità che lasceranno sempre più spazio alla ricerca di una sorta di identificazione diretta con la realtà di Dio, dando per scontata la mediazione della realtà umana di Cristo, a questo proposito le vicende della così detta scuola astratta francese dei primi anni del ‘600 sono del tutto emblematiche[14].
La nascita di un’iconografia del tutto particolare come quella del Sacro Cuore, si colloca, a nostro modo di vedere, in questo contesto, partendo necessariamente dalle visioni di Margherita Maria Alacoque, ma trovando accoglienza nel palinsesto iconografico approntato dallo spirito del tempo alcuni decenni prima. Riscoprendo sempre più la necessità di non perdere il contatto con l’umanità del Verbo incarnato, per evitare derive di puro astrattismo e ritenendo indispensabile non cedere a visioni di un pessimismo antropologico che avrebbe portato, come di fatto accadde, a forme di rigorismo mortificante la realtà degli affetti, si trattava di individuare nuove immagini capaci di ridare fiato a forme pubbliche del credere e di sostenere la pratica devota personale, senza intaccare le certezze dottrinali[15].
Il lavoro di mediazione fu tutt’altro che facile e privo di rischi, ma il condensato esemplificato e rilanciato dalle visioni di Margherita Maria ebbe un esito sorprendente e di straordinario successo. Il riferimento alla Passione rimaneva elemento ineludibile ma non era più possibile passare attraverso l’immagine sospetta del beneficio del corpo di Cristo se non attraverso una nuova sintesi simbolica: la parte per il tutto garantiva una sufficiente chiarezza, ma si trattava di individuare quella parte che meglio si potesse immediatamente riconnettere all’iconografia dell’eucaristia favorendo, allo stesso tempo, l’intima adesione dell’orante devoto, cioè il suo totale coinvolgimento emotivo. Il cuore di Gesù «presentato come in un trono di fiamme, più sfolgorante di un sole e trasparente come un cristallo, con la piaga adorabile, circondato da una corona di spine e sormontato da una croce (Fig. 10)» divenne una immagine potente di sintesi capace di sostituire il ruolo mantenuto per secoli, nella storia della devozione, dalle immagini della Passione e in particola da quelle della Pietà e dei Compianti.
Non essendo più disponibile la mediazione del corpo fisico di Cristo nella sua interezza, il cuore rappresentò al meglio la possibilità di garantire il legame con la materia del dato umano; le forme esplicite di glorificazione, trono, fiamme, sole e raggi, richiamano immediatamente la formula rappresentativa ormai canonica della glorificazione della santa eucaristia, mentre la piaga, la corona di spine e la croce, si riconnettono in maniera esplicita alla realtà della Passione: tutto in un unico e potente simbolo con un unico grande rischio, quello di lasciare troppo spazio al dato emotivo, soprattutto in relazione alla ricezione personale della pratica devota.
L’equilibrio raggiunto nel corso del ‘500 attorno alla figura del corpo morto di Cristo, equilibrio formale, ma anche liturgico e devozionale, viene così reinterpretato attorno alla figura del cuore, rischiando però di perdere spessore in relazione alla possibilità di ridurre il dato devozionale essenzialmente alla dimensione emotiva e sentimentale.
A questo proposito l’esito più fortunato dell’iconografia del Sacro Cuore, quello ispirato al celebre quadro del Batoni, ci racconta proprio l’impossibilità di evitare questo rischio: da un lato un cuore materiale che ci richiama la realtà dell’uomo e in particolare quella degli affetti, riconnettendola all’ambito della fede, dall’altro la figura di Gesù sullo sfondo che sembra non avere un corpo perché si tratta già del Gesù della fede che troppo velocemente ha dimenticato la storia e i segni della sua umanità.
L’interpretazione fortemente sbilanciata verso la mozione degli affetti, con tutti i rischi che ne conseguono[16], comporta una spinta verso la risoluzione del dato di fede nella prospettiva futura della vita eterna, rischiando la marginalizzazione della realtà terrena e materiale, proprio quello che la fede cristiana non può permettersi.
Ridare corpo al cuore
La conclusione di questo breve e parziale percorso alle origini del contesto culturale che ha fornito lo sfondo alla nascita dell’iconografia del Sacro Cuore, percorso che avrebbe bisogno di ben altri approfondimenti, porta in sé una domanda per l’oggi e una sfida per i credenti del nostro tempo.
Prima di formularla ci lasciamo stimolare dalle parole di Giuliano Zanchi: «Scaturita dalla solenne e innovatrice scoperta dell’ «interiorità» da parte del cristianesimo moderno, la devozione al Sacro Cuore ha finito per iconizzare perfettamente tutta l’introversione di un cattolicesimo a disagio con le transizioni culturali del tempo. Salvo quelle eccezioni che non spostano di un millimetro la linea di tendenza. La statua di gesso colorata del Sacro Cuore, appena scrostata e avvolta nella penombra, resta dunque, nel comune riflesso mentale, l’emblema di un mondo cattolico attardato, ormai socialmente consacrato alla propria connaturale inattualità»[17].
Restituire il cuore alla dimensione piena del corpo di cui fa parte non vuol dire restituire attualità ad una devozione che può ancora aiutare l’uomo contemporaneo ad ottenere la chiave di accesso ad una vera e profonda conoscenza di Cristo nella sua interezza?
[1] Circa alcune importanti annotazioni metodologiche inerenti al modo di interpretare questi rapporti v. B. Toscano, “Storia dell’arte e forme della vita religiosa”, in AAVV, Storia dell’arte italiana, I parte, III vol., Einaudi, Torino 1979.
[2] O. Niccoli, Vedere con gli occhi del cuore. Alle origini del potere delle immagini, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 94.
[3] Tra le figure più importanti della mistica della prima metà del secolo ricordiamo Stefania Quinzani, Osanna Andreasi, Camilla Battista Varano, Caterina Fieschi, Domenica del Paradiso, Battistina Vernazza. Per alcuni dati sulla vita di queste donne e soprattutto per una ricca carrellata dei testi principali a loro riconducibili si veda utilmente il già ricordato G. Pozzi, C. Leonardi (a cura di), Scrittrici mistiche italiane, Marietti, Genova 1988, pp. 287-381. Vale la pena qui annotare come l’esperienza spirituale e mistica di tali donne prenda spesso piede dalla pratica dell’orazione figurata, proprio a partire da una approfondita meditazione dei misteri della Passione di Cristo.
[4] Per l’interpretazione di questo quadro e di alcune opere del Lotto si veda utilmente O. Niccoli, op. cit., pp. 90-96.
[5] Per questa ed altre notizie sul Compianto di Niccolò cfr. G. Agostini, L. Ciamitti (a cura di), “Niccolò dell’Arca. Il compianto sul Cristo di Santa Maria della Vita”, in AAVV, Tre artisti nella Bologna dei Bentivoglio, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1985, pp. 229-362.
[6] Per le vicende inerenti al programma di risistemazione della Cattedrale fiorentina voluto da Cosimo I cfr. T. Verdon, L’arte sacra in Italia. L’immagine religiosa dal paleocristiano al postmoderno, Mondadori, Milano 2001, pp. 257-269.
[7] A questo proposito cfr. L. Zanzi, “Il «sistema» dei Sacri Monti prealpini”, in L. Zanzi, P. Zanzi (a cura di), Gerusalemme nelle Alpi. Per un Atlante dei Sacri Monti prealpini, Skira, Milano 2002, pp. 17-71, oppure più in generale sulla cultura religiosa e il contesto sociale dentro al quale questo sistema si svilupperà fino al suo massimo splendore in piena Controriforma cfr. Idem, Sacri Monti e dintorni. Studi sulla cultura religiosa ed artistica della Controriforma, Jaca Book, Milano 1990, pp. 49-152.
[8] L. Zanzi, “Il «sistema» dei Sacri Monti prealpini”, cit. , p. 46.
[9] Ibidem.
[10] L. Zanzi, op. cit. , p. 47.
[11] Vale la pena ricordare che i personaggi rappresentati nelle diverse cappelle del Sacro Monte di Varallo hanno i volti tipici della gente del luogo, gli abiti e gli strumenti che solitamente erano impiegati nella vita quotidiana di quelle valli.
[12] Per rendersi conto di questa evidenza basta scorrere l’elenco dei Sacri Monti presentati nel saggio a cura di G. Pacciarotti, S. Colombo, “Per un repertorio di Sacri Monti realizzati (o progettati) nella regione prealpina”, in L. Zanzi, P. Zanzi (a cura di), op. cit. , pp. 77-107.
[13] Sul significato e sull’intenzionalità originaria di questo testo le interpretazioni critiche sono piuttosto diversificate. Cercheremo qui di offrirne una sommaria carrellata, rendendoci conto di effettuare un’operazione al limite della correttezza, ma comunque necessaria per far capire la complessità della situazione storica che fa da sfondo alla nascita di un testo tanto peculiare e caratteristico. Caponetto, a partire dall’edizione critica del 1972, ha inteso sottolineare la particolarità unica del testo del Beneficio difficilmente ascrivibile ad una sola corrente teologica o religiosa: egli ha comunque inteso fin da subito metterne in luce i legami con la spiritualità valdesiana, ma anche con suggestioni direttamente provenienti dal mondo protestante tedesco (Lutero e Melantone in particolare). Altri, già da prima, vi avevano individuato una forte connessione con la teologia calvinista, in virtù del fatto che il testo risulta infarcito di citazioni tratte dall’Istituzione della religione cristiana: cfr. T. Bozza, Il Beneficio di Cristo e la Istituzione della religione cristiana di Calvino, Roma 1961 e per più ampi riferimenti bibliografici Idem, Nuovi studi sulla Riforma in Italia. Il beneficio di Cristo, Roma 1976. C. Ginzburg, A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino 1975, hanno invece meritoriamente messo in luce la presenza di uno specifico filone prettamente benedettino addirittura nutrito di possibili istanze neopelagiane di matrice umanistica e di sorprendenti visioni profetiche, temi ripresi ed approfonditi in A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000. L’eccessivo sbilanciamento sulla matrice benedettina viene riequilibrato, crediamo giustamente, da chi come Firpo non può fare a meno di evidenziare i chiari e indiscutibili nessi esistenti tra spiritualità benedettina e teologia valdesiana; a questo proposito si vedano utilmente due interessanti articoli che possono anche fungere da sintesi sullo stato della questione: M. Firpo, “Giorgio Siculo. Discussione del volume di Adriano Prosperi”, in Storica, 18, VI, 2000, pp. 143-152. O. Niccoli, “Cinquecento religioso italiano: discutendo di un recente volume di Adriano Prosperi”, in Storica, 18, VI, 2000, pp. 153-160.
[14] Cfr. L. Cognet, La scuola francese (1500-1650), “Storia della spiritualità” 9, EDB, Bologna 2014.
[15] Per un utile e agile quadro di riferimento sul contesto culturale che ha prodotto l’iconografia nata dalla visione di Margherita Maria Alacoque v. G. Zanchi, Le migrazioni del cuore. Variazioni di un’immagine tra devozione e street art, EDB, Bologna 2017, pp. 5-15.
[16] Ibidem, pp. 22-24.
[17] G. Zanchi, Op. cit., p. 33.
Non camminare col pilota automatico, ascoltare gli altri, le culture, discernere sempre dal vivo (nel cuore divino e umano di Gesù, per noi cristiani), in ogni situazione, andando oltre ogni schema è un rinnovamento continuo. Di noi stessi, della Chiesa, della società. Cerchiamo di pregare, di camminare con Maria e Gesù e vediamo dove ci portano.