Quando la Chiesa non riaccende la libertà creativa dei credenti diventa un ghetto. È la tragedia di un appassionato attaccamento al cristianesimo che trasforma Cristo in un idolo.
Recentemente in Russia è scoppiato un caso a proposito del portale d’informazione Pravmir – «Ortodossia e mondo» – un coraggioso tentativo di alcuni laici ortodossi di avventurarsi nel campo dell’informazione online con uno sguardo cristiano. Un’iniziativa fatta «senza rete», affrontando quotidianamente il rischio di giudicare fatti inattesi, situazioni nuove e spesso spinose che richiedono un criterio maturo; ed è stata un’iniziativa coronata da successo, visto che il piccolo sito parrocchiale in 15 anni ha raggiunto i 5 milioni di lettori.
Informare in rete in nome dell’Ortodossia
Al tempo stesso, il portale è sempre stato attento a non posizionarsi nel settore grigio del perbenismo ufficiale – civile ed ecclesiastico – e neppure a scivolare nella fronda – civile ed ecclesiale, – che fa della critica demolitrice il proprio stile.
Si è trattato di districarsi nel ginepraio della cronaca senza calpestare i limiti sempre più stretti posti all’informazione dall’autorità civile e anche religiosa.
Pravmir si posiziona esplicitamente come portale «ortodosso» e qui si annida il nodo della contraddizione e delle polemiche. E non si tratta di una polemica banale, fra le tante che scoppiano nel nostro mondo litigioso, che scambia l’astio per sacro fuoco di giustizia e amore della verità; infatti mette in luce un nodo profondo, che riguarda la concezione stessa della fede e della libertà in generale, cristiana e umana che sia, all’Est come all’Ovest.
Molti in Russia ritengono che qualsiasi iniziativa che porti il nome ortodosso debba rispondere formalmente (anche se non è una realtà istituzionale) davanti all’autorità della Chiesa, tramite i vescovi e i loro rappresentanti, nelle vesti di «consiglieri spirituali».
Il caso è scoppiato appunto quando padre Aleksandr Il’jašenko, il sacerdote che all’inizio aveva «benedetto» il progetto e ne era diventato il consigliere spirituale, si è dissociato da alcune scelte dei redattori (ad esempio di pubblicare articoli di personaggi ritenuti immorali dalla Chiesa) ed è uscito dalla redazione.
In particolare, secondo quanto ha scritto per motivare la sua decisione, «è evidente che direttore e redazione spesso non agiscono in sintonia con i miei principi. E la libertà è un principio fondamentale. Per il cristianesimo la libertà è solo libertà dal peccato, e non libertà di fare quello che sembra giusto».
Questa dissociazione personale è stata letta come una «sconfessione» da parte della Chiesa in quanto tale, e questa interpretazione è stata ulteriormente rafforzata dalle dichiarazioni dei vertici del Dipartimento patriarcale per i rapporti con i media e la società; in particolare il vicepresidente Aleksandr Ščipkov, dando una sorta di ufficialità istituzionale alla decisione di padre Il’jašenko, ha scritto esplicitamente che siti come Pravmir contribuiscono alla «deistituzionalizzazione della Chiesa», senza per altro chiarire in cosa consisterebbe il problema.
Una questione non nuova nella Chiesa ortodossa russa
Un chiarimento in questo senso viene poi da quanto ha aggiunto un altro vicepresidente di questo organismo, Vachtang Kipšidze, il quale, riprendendo la questione della moralità e della libertà come libertà dal peccato, ha dichiarato che l’attività della redazione, che «in pratica ha fatto in modo di estromettere dalla redazione il sacerdote, è immorale».
L’episodio in sé ha evidenti limiti, ma il fatto è che questi limiti mettono in luce una logica abbastanza generalizzata che va oltre i personaggi in questione, e ci permette di cogliere per contrasto l’esistenza di una logica completamente diversa.
Per quanto riguarda le debolezze di questa posizione, basterà una semplice annotazione sull’alternativa tra «libertà dal peccato» e «libertà di fare quello che sembra giusto» o, arrivando alle estreme conseguenze, sull’alternativa tra il non peccare (la libertà dal peccato) e l’arbitrio.
Se fosse un’alternativa reale, ciascuno di noi o resterebbe preda dei propri punti di vista arbitrari, o finirebbe per avere la pretesa di essere senza peccato, finendo così col credere che la moralità sia questo perfettismo, di cui Berdjaev diceva che è il vero padre del nichilismo.
E se poi viene meno la pretesa di essere sempre nel giusto, agli uomini reali, coscienti dei propri limiti e della possibilità di sbagliare, resta solo una paralizzante paura di peccare, una irresponsabile rinuncia ad ogni iniziativa o la consegna di ogni iniziativa nelle mani dell’autorità di turno.
È la dialettica del Grande Inquisitore che si affaccia ancora una volta nel nostro mondo, come pretesa di qualche portavoce ecclesiale o come pretesa di tanti politici che si atteggiano a portatori di una nuova moralità e di una nuova capacità progettuale e, in nome di queste pretese, procedono con l’identificazione di sempre nuovi nemici e con la creazione di un clima nel quale la responsabilità personale e il senso di solidarietà non hanno più spazio.
Trasformare Cristo in idolo
Che tragedia questo appassionato attaccamento al cristianesimo che trasforma Cristo in un idolo, questo desiderio di liberarci dall’arbitrio che ci consegna all’arbitrio dei potenti e che, come ha scritto Andrej Desnickij, fa del cristianesimo stesso «una subcultura corporativa», un ghetto.
Neanche a farlo apposta una lettrice di Pravmir ha approvato la condanna del portale affermando che il sito «tralascia di citare l’importanza della preghiera, della confessione e della comunione nei momenti di crisi».
Niente di più lontano dalla necessità di rispondere con creatività alla sfida che il mondo secolarizzato lancia ai cristiani, perché mostrino a tutti l’universale forza salvifica della fede e perché non riducano questa forza al patrimonio geloso di qualche illuminato, che sia un portavoce ecclesiale, un partito, uno Stato o quel che si vuole.
Molto lontane da questo spirito particolaristico e tanto più stimolanti appaiono allora alcune recenti dichiarazioni del metropolita Ilarion che, parlando sul canale Russia-24, ha tagliato corto con i miti risorgenti della Russia teofora, destinata a salvare il cristianesimo mondiale.
La teoria di Mosca Terza Roma è morta e sepolta, ha detto, oggi la maggioranza assoluta della popolazione è lontana dalla Chiesa, per cui agli ortodossi spetta un enorme lavoro missionario: «Penso che questo sia un compito infinitamente più importante che fare discorsi sulla Terza Roma e sul ruolo di Mosca come centro del cristianesimo».
Una Chiesa senza trionfalismo
Nessun trionfalismo può risollevare le sorti della Chiesa; qui non ci può essere spazio per nessuna presunzione, né per alcuna nuova teoria geopolitica o geo-religiosa. Resta solo lo spazio per la libertà dei credenti e per la realtà dei fatti.
Le semplici, e coraggiose, affermazioni del metropolita scaturiscono da un sobrio sguardo sul reale, e per questo hanno in sé una certa forza liberatoria, capace di spazzar via manie di grandezza e sedicenti tradizionalismi.
Le sue parole nello spirito sono molto simili a quelle lanciate in rete da una semplice credente, Svetlana Panič: «Nell’epoca sovietica coloro che facevano parte del “piccolo gregge” si riconoscevano al volo dallo sguardo, dal modo di fare, di pensare, da qualche citazione cifrata, dal coraggio mite. Da quando il “piccolo gregge” ha deciso di diventare maggioranza lo si riconosce da tutt’altri segni: dalla pesante retorica, dalla smania per i pellegrinaggi e le “azioni di massa”, dal disprezzo per “chiunque non siamo noi”, dai cestini con le uova pasquali, i fazzoletti in testa e lo strano eloquio fitto di termini pseudo-ascetici e parapsicologici, dalla lingua piena di ostilità e dai cliché auto-incensatori.
Ora penso sia venuta l’ora di tornare al “piccolo gregge”, che sarà riconoscibile non dal look confessionale o dal numero di parole devote per metro quadrato di discorso, ma dallo sguardo, le azioni, il mite coraggio di essere “diversi” e di non “tenere il passo”. Penso che sarà un bene. La realtà convince per la sua forza intrinseca, e non perché blatera della propria oggettività».
Fede e idea
Per chi avesse dubbi sull’efficacia di questa via, basti ricordare quanto disse Berdjaev, nel pieno della crisi postrivoluzionaria, quando un mondo crollava in maniera certo non meno catastrofica di quella che caratterizza la nostra crisi: «Ai tempi della caduta dell’impero romano e della completa rovina del mondo antico, Diocleziano ha dato prova di grande energia nel tentativo di consolidare l’impero. Ma sant’Agostino fu forse meno attivo di Diocleziano, e non occupa, nella storia mondiale, un posto più considerevole?
La nostra epoca esige innanzitutto opere simili a quelle di sant’Agostino. Abbiamo bisogno della fede e dell’idea. La salvezza delle società che stanno morendo verrà da gruppi animati dalla fede. È la loro trama che formerà il nuovo tessuto della società, sono loro che consolideranno i legami sociali al momento del crollo dei vecchi stati».
Editoriale ripreso dalla rivista La Nuova Europa.