Quanto sangue nella storia degli uomini. E quanto sangue in nome della religione. Tantum religio potuit suadere malorum.[1] La narrazione del sacrificio di Ifigenia nel De rerum natura di Lucrezio (I sec. a.C.) si chiude con questo verso lucido e perentorio: a quanti mali poté persuadere la religione! Ifigenia era la giovane figlia di Agamennone, sovrano di Argo, e di Clitemnestra.
La sua sorte si lega indissolubilmente alla vicenda della prima grande guerra della storia letteraria d’Occidente: la guerra di Troia. Il mito racconta che la causa scatenante di tale guerra fu il rapimento della bellissima Elena, moglie di Menelao, da parte del troiano Paride Alessandro. Menelao, intenzionato a riprendersi la moglie e a far vendetta dell’affronto subito, organizzò insieme al fratello Agamennone una spedizione militare per condurre i Greci dall’altra parte dell’Egeo, sulle coste settentrionali dell’Anatolia, là dove sorgeva la rocca di Troia.
A causa di una bonaccia che impediva la partenza delle navi greche, ancorate in Aulide, Agamennone, a cui era stato affidato il ruolo di guidare l’intera flotta, accettò il vaticinio dell’indovino Calcante e decise di sacrificare la figlia per ottenere dagli dèi i venti propizi alla partenza. Una versione del mito, seguita anche da Euripide, proponeva una chiusa diversa alla vicenda: la dea Artemide, impietosita, interveniva salvando in extremis la giovane e ponendo al suo posto, sull’altare del sacrificio, una cerva.
In nome della religione
Ma Lucrezio ha in mente la versione tradizionale del mito e negli esametri concentrati ed impietosi del De rerum natura, condanna le azioni scellerate ed empie compiute in nome della religio e mette in scena il momento in cui la giovane, convinta di essere condotta in corteo nuziale alla celebrazione delle nozze, comprende, dalle espressioni del padre, dei sacerdoti e della folla che la circonda, che ben altro è il destino che l’attende.
L’inganno e la violenza vengono poi suggellati dal poeta da quel verso sul tanto male commesso in nome della religione.
Condannando l’uccisione di Ifigenia, Lucrezio condanna i sacrifici umani – retaggio di un tempo anche per lui remoto ormai, certo. Ma egli condanna anche i sacrifici animali: Spesso davanti ai templi fastosi degli dèi / un vitello cade immolato presso gli altari incensati / spirando dal petto un caldo fiume di sangue.[2]
Quanto sangue in nome degli ideali. Seicentoquarantamila soldati per le guerre d’indipendenza d’Italia. E quanti francesi? E quanti austriaci? E quanti milioni di morti nelle trincee e sui campi di battaglia della Prima e della Seconda guerra mondiale? Milioni. E quanto sangue in tutte le guerre di tutti i tempi? Dante ricorda così la sanguinosa battaglia di Montaperti: … lo strazio e ’l grande scempio/che fece l’Arbia colorata in rosso (If. X, 85-86).
Il sangue e il corpo
Perché tutta questa sete di sangue? Perché questo desiderio di trasformare in cruor, cioè in sangue che sgorga da una ferita aperta, il sanguis che circola dentro il corpo? Perché la guerra e la religione hanno avuto per secoli e secoli bisogno di vittime? Perché questo desiderio di far sì che il sangue-dentro diventi sangue-fuori?
Dev’essere qualcosa che ha che fare con il desiderio di controllare la vita. Paradossalmente, nel gesto del mettere a morte c’è proprio il desiderio di tenere in mano la vita. Il desiderio di sentirsi padroni e di poterla così governare. Il desiderio di farne ciò che si vuole. Perfino sperperarla. I greci avevano un nome per indicare il sacrificio che non conosce misura se non nella dis-misura: ecatombe, cento buoi. Il sangue di cento buoi come prezzo di un gesto sacrificale smisurato, nel segno del ringraziamento o della propiziazione, per rendere il divino accessibile, per tenere in mano la vita e sentirsene padroni. Mosè riempie catini e catini di sangue dei giovenchi sacrificati,[3] (un’ecatombe, anche lì…) e con quel sangue lucida gli altari del culto e asperge il popolo riunito. E il sangue diventa suggello di alleanza.
Gesù, invece, si mette su una strada su cui già persone con la sensibilità di un Lucrezio si erano incamminate. Perché tutto quel sangue-fuori? A che scopo tutta quella sofferenza? Hic est sanguis meus. Il sangue di Dio è fatto di natura e di uomo – frutto della terra e del lavoro dell’uomo.
Non c’è bisogno di violenza per tenerlo in mano. Non è manipolabile. È sangue da bere – sangue che deve essere rimesso in circolo “dentro”, dentro il corpo, dentro la vita. Sangue sparso per amore – “con il suo sangue sparso per amore/ha cancellato la condanna della colpa antica”, canta il Preconio pasquale – che si apre a diventare vita, la nostra vita, il nostro sangue.
Il tema del sacrificio richiama quello del sacramento. Ma anche quello del sacerdozio; c’è di mezzo il sacer, parola tremenda nella sua ambivalenza. Sacramentare il mondo – senza spargimenti di sangue. Dev’essere questa la strada.
[1] Lucrezio, De rerum natura I, 101.
[2] Lucrezio, De rerum natura II, 352-354.
[3] Es 24,3-8.
La natura della luce
L’amore nasce come un tramonto – diceva – Un raggio di sole infiamma la rosa… e tutto trasluce, quieto, nel vespro, nella naturale mancanza di senso.
Ma la favilla avvampò nel riposo e ti pensa ogni momento e si stupisce e perdutamente si perde in questo vento.
Tratto da: Piccolo magnificat, un canto di tanti canti