Non c’è più niente da fare (come cantava Bobby Solo in tempi non sospetti). Anche quest’anno, a dispetto della campagna elettorale in corso, dello snobismo preconcetto e degno di miglior causa di chi persino sui social si è premurato di farci sapere che “non ne vedrò neppure una serata”, e dei tanti grattacapi che in questa stagione affollano le giornate medie di ogni italiano vero, il tormentone del Festival di Sanremo ha occupato militarmente una settimana delle 52 che compongono l’anno, con un successo difficile da contestare, almeno sul piano dei numeri (oltre un telespettatore su due, in media, dicono, per cinque sere si è piantato su Rai1 e su quanto accadeva al teatro Ariston, tradizionale spazio rituale di quella che si autodefinisce nientemeno che la canzone italiana).
In ascolto delle “canzonette”
Come ogni anno, non sono mancate le critiche radicali, appena attenuate dalle scelte del celebrante di turno, lo storico cantautore romano Claudio Baglioni, di incentrare la kermesse rivierasca non tanto sul contorno, come di regola negli ultimi lustri (i super ospiti stranieri, i casi umani, il doveroso gossip, i comici di turno), ma su quello che, almeno in teoria, sarebbe l’oggetto principe dell’evento: la canzone, appunto.
Anzi, la canzonetta, se vogliamo: con un vezzeggiativo sospeso fra il dato oggettivo (la lunghezza massima di tre minuti e mezzo, suppergiù) e la carezza che, almeno in teoria, siamo soliti dare a qualcuno da gratificare, che sentiamo vicino, di casa. Quella canzonetta (kleine Lied) su cui, nei gloriosi anni ’60, spese una riflessione non banale colui che è considerato, in genere, il maggior teologo cattolico del secolo scorso, nientemeno che il tedesco Karl Rahner: «Oggi la gente sente molta musica, perché può attingerla dalla radio come l’acqua dal rubinetto. Basta girare un bottone», scriveva, senza poter immaginare, peraltro, l’odierna onnipresenza della musica. Segnale, comunque lo si voglia leggere, del fatto che un teologo intelligente non può non essere anche un teologo pop, se non vuole confinarsi in uno spazio etereo ma privo di incidenza sulla vita quotidiana delle persone normali…
Le lamentele, peraltro (“Anche quest’anno non c’è una canzone decente…”), sono comprese nel prezzo: come capita quando gioca la nazionale di calcio e tutti ci si trasforma magicamente in potenziali allenatori di grido, così nella settimana di Sanremo tutti siamo intenditori di musica, di arrangiamenti, di tecniche chitarristiche. Anche quando tutto, a dire il vero, è cambiato, e la possibilità di tenere tutta la musica del pianeta a portata di mouse e in tempo reale – tanto per fare un esempio – ha rotto definitivamente, si dice, la corrispondenza che si creava tra un artista e il suo pubblico, tra un autore e ogni suo singolo ascoltatore.
Non si vive più con spasmodica attesa l’uscita di un nuovo disco nei negozi, né ci si sofferma ad ascoltare un intero album per più d’una volta; ci si limita a scaricare, piuttosto, quei brani che sembrano più gradevoli di primo acchito; si creano playlist personali che se, da un lato, danno una libertà inedita all’ascoltatore, dall’altro, frantumano l’integrità dell’opera, destoricizzandola, con conseguente diminuzione della capacità di gustarne il valore. E, da ultimo, si sono ristretti paradossalmente gli spazi per la circolazione delle canzoni…
Eppure, a Sanremo si finge che non sia così, che il tempo si sia fermato.
Perché succede?
Ma perché succede? Ammettiamolo: la questione è che, nel bene e nel male, Sanremo fotografa sempre, con la leggerezza dovuta e da ben 68 anni, in maniera forse sfuocata, non sempre agevole da decifrare, ma mai inutile, quello che è diventato il Paese che lo ospita.
Ha raccontato, nel corso dei decenni, la voglia di lasciarsi alle spalle le macerie della guerra tra fiori regalati con grazia e colombe in volo, l’esplosione del boom che ci ha portati a volare nel blu dipinto di blu, l’invenzione sociale dei giovani e delle loro mode, fra beat e flower power, il riflusso cantautoriale e la stanchezza relativa dopo i fasti sessantotteschi, e così via, fino a quest’anno, in cui – neppure troppo a sorpresa – hanno vinto due cantautori atipici, Ermal Meta e Fabrizio Moro, con un pezzo dedicato al terrorismo jihadista, mentre il premio della critica fra i giovani ha arriso a un altro cantautore dal nome sgraziato (Mirkoeilcane) che ha recitato, più che cantato, un brano intensissimo sul dramma degli sbarchi degli immigrati sulle nostre coste.
Anzi, se Non mi avete fatto niente discorre di imam e preti, di chiese e di moschee, perché non leggerla come una risposta indiretta al brano vincitore del 2017, dove Francesco Gabbani, nella sua trascinante Occidentali’s karma, giocava con tutti gli stereotipi possibili dell’induismo e del buddhismo?
Così, piaccia o no, ancora una volta e fra mille contraddizioni, la verità amara della cronaca e le religioni tornate in pista nello spazio pubblico dopo le illusioni sociologiche della morte di Dio hanno penetrato la liturgia del Festival; e, piaccia o no, alla fine, non possiamo non dirci sanremesi.
Perché ha ragione Rahner: l’idea di fondo che ci spinge a stare fissi sul piccolo schermo è la possibilità di trovare, in uno spazio breve di neppure quattro minuti, qualche ragione per alleviare preoccupazioni, o per riflettere su quanto ci sta accadendo, fingendoci quella comunità che – Mattarella dixit – non siamo più (o non siamo ancora).
Peraltro, è stato il grande Bruce Springsteen ad ammettere coram populo, in No surrender: “We learned more from a 3-minute record, baby/ than we ever learned in school” (Ho imparato più da un disco di tre minuti/ che da tutto quanto ho imparato a scuola).
E non è poco. Del resto, come ha annotato un cantautore meraviglioso come Vinicio Capossela (che a Sanremo non va di certo, beninteso), «si canta per farsi coraggio e il coraggio ha a che fare con la fede. L’esperienza del dolore, il lamento, l’esperienza della gioia… La canzone, come la religione, si occupa dell’uomo, di tutte le sue facce. Si occupa dell’intero spettro di questa esperienza vasta e contraddittoria, unitaria e frammentaria che è la vita».
Chapeau. Perché Sanremo – nonostante tutto – è Sanremo.