Sermig: una storia di pace

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Quando la nostra avventura è iniziata, nel 1964, eravamo un piccolo gruppo di ventenni: molto giovani, inesperti, ma con un ideale pulito nel cuore. Il nostro sogno era quello di abbattere la fame nel mondo. Non combatterla, ma proprio sradicarla. A chi ci considerava ingenui o esagerati, dicevo e dico che un ideale grande è vero solo quando ti supera. Proprio come l’amore, perché due innamorati non amano a tempo, non amano «per un po’», ma totalmente. E, soprattutto, vogliono e provano ad amare in grande.

Partendo da questa logica, la sete di giustizia è stato il nostro primo sogno di pace. I campi di lavoro, le raccolte di denaro, le iniziative di sensibilizzazione furono i primi strumenti per aiutare missionari e volontari di ogni congregazione, gruppo, provenienza, religione. Parole come sobrietà, semplicità, disponibilità, condivisione diventarono presto il nostro pane, la chiave di un impegno in favore di chi operava nel Terzo mondo.

Era il nostro modo per sconfiggere la fame, un “programma” che entrò senza troppi pensieri anche nel nome che scegliemmo per noi, Sermig – Servizio missionario giovani. Volevamo servire, le missioni erano al centro dei nostri pensieri, eravamo giovani: da qui, Sermig: Servizio missionario giovani. Senza rendercene conto, mettemmo nero su bianco la sintesi di una storia che, negli anni, si sarebbe arricchita di molte altre sfumature.

Semplicemente cristiani

La contestazione, a volte anche violenta, degli anni settanta ci ha trovati determinati a non protestare e basta, ma a proseguire il nostro impegno. Non volevamo essere semplici cartelli stradali per indicare la strada agli altri, volevamo scegliere in prima persona la strada di un impegno personale che fosse testimonianza.

Era normale in quegli anni schierarsi a destra o a sinistra: se non ti schieravi, era come non contassi nulla, come non avessi idee per la testa. Era normale puntare il dito sempre e comunque contro qualcuno che la pensava in modo diverso da te e dunque era il nemico da combattere. E purtroppo questo stile aveva contagiato anche tanti gruppi nella Chiesa.

Noi avevamo le nostre idee, le nostre convinzioni, la voglia di cambiare le cose; avevamo anche una certa vivacità tipica dei giovani, ma volevamo stare nel Vangelo, essere semplicemente cristiani, semplicemente uomini e donne di buona volontà, perché le etichette ci stavano strette: erano troppo piccole per contenere i nostri ideali.

Eravamo convinti che si potesse dialogare con ogni schieramento politico, con ogni ideologia ma nel rispetto reciproco e su obiettivi precisi legati a scelte di pace, di giustizia a favore dei più deboli. La chiamavamo “linea dei trattini”: la disponibilità a fare tratti di strada insieme ad altri attraverso interventi su singoli problemi e singole situazioni, alla luce dei segni dei tempi. Negli anni questa “linea dei trattini” ha maturato alcune costanti di intervento: il rispetto per la vita del bimbo come dell’anziano; dell’affamato come del carcerato; il rispetto per la terra che l’intelligenza dell’uomo può soggiogare senza distruggere; l’impegno per la pace e il disarmo.

Sin dai primi tempi, pensavamo fosse giusto parlare con chiarezza, ma credevamo ancora più importante testimoniare con la vita. Soprattutto, avevamo capito che non bastava lamentarsi o contestare le disuguaglianze: avremmo dovuto iniziare noi a cambiare, a metterci in gioco.

Muovevamo i primi passi e, con mio grande stupore, ci sentivamo osservati e guidati da persone che consideravamo maestri: uomini e donne di Dio e di buona volontà, giganti del Novecento. Eravamo ragazzi, ma loro vedevano in noi quello che ancora noi non capivamo, una scintilla di bene che sarebbe esplosa solo dopo molti anni. Ci diedero fiducia, coraggio, forza. Penso a padre Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, a papa Paolo VI, a Madre Teresa di Calcutta, a dom Helder Camara, a frère Roger della comunità di Taizé, a Giovanni Paolo II e a tanti altri.

Poi, un uomo di Dio, un politico santo, Giorgio La Pira, ci fece scoprire la profezia di Isaia, le parole che annunciano un tempo in cui le armi non saranno più costruite e i popoli non si eserciteranno più nell’arte della guerra. Non avevo ancora tutto chiaro, ma nel cuore sentivo che Dio ci avrebbe usato per fare qualcosa del genere. Nell’attesa, continuavamo a seguire il nostro cuore, ad aiutare chi potevamo, a pregare insieme, a incontrare tutti. Faceva bene a noi, ma anche a chi ci incontrava, ai tanti che, frequentandoci, sentivano risvegliarsi la speranza.

L’Arsenale

La profezia di Isaia, pronunciata da un uomo credibile come Giorgio La Pira, si incarnò nei sogni del nostro piccolo gruppo che, dopo 20 anni, approdò in un luogo simbolo della città di Torino: l’ex arsenale militare di Borgo Dora. Era la fabbrica da cui erano uscite le armi delle guerre del Risorgimento, ma soprattutto quelle usate dall’esercito italiano nella prima e nella seconda guerra mondiale. L’arsenale era dismesso dagli anni ‘60, era un rudere, un luogo annerito dal tempo e da un passato di morte e di desolazione. Con grande stupore, il nostro sogno mise presto radici lì. Dopo anni di preghiera e di richieste, il 2 agosto 1983, festa del perdono di Assisi, ci veniva assegnato il primo edificio di questo grande complesso.

Fu un patto “sproporzionato”, perché la struttura era fatiscente e ci era posta la condizione di provvedere interamente alla ristrutturazione. Servivano molti miliardi di lire; tanti amici cercarono di distoglierci: «L’arsenale sarà la vostra tomba», dicevano. E, secondo una logica umana, avevano ragione, perché noi non avevamo una lira in tasca. Eppure, come dico sempre, avevamo un sogno, vivo, concreto più che mai. E una grande consapevolezza nel cuore: la sproporzione, quando è vissuta nell’abbandono e nella fede, è il vero campo di Dio.

Ricordo nitidamente il giorno in cui siamo entrati. Non vedevo l’Arsenale come un luogo fatto solo per me e per i miei amici. Sentivo che in quel rudere entravo come Chiesa, ma anche a nome di tutti gli uomini e donne di buona volontà.

Ricordo che quel giorno presi con me la Bibbia che mi aveva regalato il mio arcivescovo, padre Michele Pellegrino, un crocifisso realizzato da alcuni carcerati e dei libri di Luisa Manfredi King, un’amica ex partigiana, non credente. Entrai così, a nome di tutti, con un sogno nel cuore: quell’Arsenale di Pace che vedevo già fatto sarebbe stato una casa sempre aperta, una casa accogliente, con qualcuno sempre pronto ad ascoltare, a fasciare, a consolare, a dare una carezza, a non giudicare mai.

In quel momento, però, avevamo di fronte solo rovine. Avremmo potuto scoraggiarci. E invece abbiamo scelto di non lasciarci spaventare, ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo messi a lavorare. Nel cuore, per me, l’Arsenale era davvero già fatto! Naturalmente eravamo ancora molto lontani dall’obiettivo, ma con emozione ci accorgemmo presto che un grande ideale, se è autentico, può diventare contagioso.

Quel piccolo gruppo di giovani che si erano messi in testa di ricostruire un’ex fabbrica di armi diventò un fatto, una buona notizia che spinse tante altre persone a darsi da fare: centinaia di migliaia di giovani e adulti, credenti e non credenti, gruppi, parrocchie, associazioni, ma anche monache e monaci di clausura, carcerati, professionisti. In questa avventura c’era posto per tutti, per chiunque fosse disponibile a condividere quello che era e quello che aveva: la preghiera, il tempo, le capacità, le risorse.

A volte, guardandomi indietro, trattengo il respiro e mi commuovo a pensare a quanti gesti di bene, spesso nascosti, abbiano trasformato un luogo di morte in un segno di speranza, in un Arsenale di Pace. Nel nome della bontà che disarma, che avvicina, che fa incontrare, che non si fa fermare dalle differenze di religione, cultura, stato sociale. Nessuno era escluso e lo capii subito, quando il cuore di un presidente indimenticabile come Sandro Pertini, non credente, accettò di venire a Torino a inaugurare quello che era ancora un rudere, pur di difenderci e incoraggiarci. E, come lui, figure come Enrico Berlinguer e Giorgio Amendola.

Da quell’agosto di tanti anni fa, tutto cominciò a sfuggire alle nostre pretese di controllo. L’incontro con le persone, i problemi che ci venivano portati, le situazioni che ci interpellavano ci fecero capire con delicatezza ma anche con estrema lucidità che avremmo dovuto mettere da parte ogni piano o programma. Ad allargare la nostra strada sono stati il campanello e la targa che avevamo messo davanti alla porta: “Casa della Speranza”.

Se fossimo rimasti legati solamente al sogno delle origini, oggi saremmo un gruppo sicuramente rispettabile, ma con un raggio di azione limitato: la lotta alla fame, il sostegno a qualche progetto in giro per il mondo, una grande biblioteca con molti libri sul tema della pace. Niente di più. Invece, l’imprevisto accolto – incarnato in un volto, in una situazione, in un problema – ci ha aperto la mente e il cuore, facendo entrare davvero in casa nostra il mondo così com’è.

Se penso ai nostri inizi, dico con stupore infinito che non avremmo mai immaginato di incontrare ex terroristi che volevano riconciliarsi con la società; malati disperati che chiedevano di non essere lasciati soli a morire, donne che chiedevano un aiuto per non essere costrette ad abortire, giovani inchiodati dal loro scetticismo che con lo sguardo ti consegnavano la loro sete di cambiamento. E ancora, giovani donne di strada, i loro bambini, madri e figli picchiati e allontanati dalle loro case per violenze subite, migliaia e migliaia di profughi perseguitati per le loro idee politiche o religiose costretti a fuggire dalla loro terra a motivo della guerra.

Ma lo stupore più grande per me resta quando giovani innamorati di Dio e dell’ideale di apertura agli altri lasciano tutto per donare la vita a Dio in questa avventura. Con questi giovani il nostro gruppo si è trasformato in una Fraternità nel mondo e nella Chiesa: monaci, monache, sacerdoti, laici nel mondo, coppie di sposi, famiglie che hanno scelto di essere il cuore e il motore del Sermig.

Altrove, nel mondo

È iniziata così una storia incredibile, che ci ha portato in giro per il mondo con migliaia di progetti di sviluppo, decine di missioni di pace, centinaia di aerei carichi di aiuti umanitari. Dalla Polonia alla Somalia, dal Medio Oriente all’India, dall’Africa all’America Latina. Siamo andati lì dove il cuore ci suggeriva per portare un seme di pace in un conflitto, un’azione concreta rivolta al dialogo tra fazioni diverse, un segno di speranza. Perché l’opera della pace cresce attraverso gesti concreti, azioni buone, relazioni buone. Non esistono altre strade.

Accanto all’esperienza di Torino, sono nate presto anche quelle in altri Paesi. Nel 1996, l’amicizia con dom Luciano Mendes de Almeida ci ha portato a San Paolo del Brasile, dove è nato l’Arsenale della Speranza, nell’ex Hospedaria dos Imigrantes. Era la struttura che da fine ’800 sino agli anni ’50 aveva accolto milioni di migranti provenienti da tutto il mondo, quasi un milione anche dall’Italia: sostavano in questa “casa del dolore” per un periodo di quarantena prima di raggiungere le piantagioni di caffè e di cotone, dove andavano a sostituire gli schiavi.

Oggi è una casa che accoglie i più poveri del Brasile, i “sofredores de rua”, che emigrano dalle periferie verso le grandi città alla ricerca di opportunità di lavoro e di vita. L’Arsenale della Speranza offre ogni giorno accoglienza a tantissimi di questi uomini: un letto per la notte, un pasto caldo, la possibilità di provvedere all’igiene personale, corsi di alfabetizzazione e di formazione al lavoro, assistenza medica; l’obiettivo è dare dignità e favorire il reinserimento sociale.

Dal 2003 l’incontro con il Patriarca di Gerusalemme ci ha portato in Giordania, prima ad Amman e poi a Madaba, dove nel 2006 è sorto l’Arsenale dell’Incontro. Accoglie centinaia di bambini e giovani disabili, sia cristiani che musulmani, offrendo loro un percorso educativo: apprendimento scolastico, socializzazione, recupero psico-motorio e riabilitazione fisica, attività occupazionali. Offre sostegno alle famiglie, favorendo l’integrazione dei ragazzi nel tessuto sociale attraverso una rete di solidarietà e di volontariato. L’Arsenale dell’Incontro racchiude la profezia di un giorno normale in cui musulmani e cristiani vivono da fratelli, rispettandosi nella loro diversità, dialogando in vista di un bene comune: i figli, specialmente quelli più in difficoltà.

I giovani

Tutti i nostri Arsenali hanno poi una vocazione comune: essere la seconda casa per i giovani che li frequentano, giovani in cerca di senso per la loro vita, di ideali, ma soprattutto di qualcuno che li aiuti a concretizzarli e a viverli. Giovani che desiderano tornare a credere che un mondo diverso, un mondo giusto e in pace, è possibile. La chiave dell’incontro con i giovani è stata credere nel valore di ognuno di loro e dare loro fiducia, mettendoli a contatto con le grandi sfide del nostro tempo. Quando un giovane capisce questo, lavorando fianco a fianco con noi, scopre che può cambiare realmente il metro quadrato attorno a sé e forse anche qualcosa in più. Allora poco per volta si innamora del bene, impara a lottare per ciò in cui crede e diventa disponibile ad assumersi delle responsabilità, non solo dentro il Sermig ma ovunque si trovi.

Giovani così possono essere la chiave per costruire un mondo nuovo, in cui tutti possiamo essere fratelli. Senza retorica. Giovani così accettano prima di tutto nella propria vita la logica della conversione. Dicono no alla corruzione perché alla pace non si arriva senza onestà. Dicono no ai privilegi perché l’unico potere buono è quello che serve. Imparano a dire i sì e i no che contano, cominciando dal no alla droga, leggera o pesante.

Quando saranno adulti, non rimarranno legati alla loro posizione ma faranno un passo indietro per mettere i giovani al primo posto. Se diventeranno economisti, faranno di tutto per trovare soluzioni nuove per costruire un mondo più giusto. Se saranno uomini di cultura, si impegneranno a diffondere concretamente messaggi di vita, di pace e di accoglienza. Se diventeranno educatori, spenderanno la vita a comunicare con passione e semplicità l’amore che Dio ha per ogni suo figlio. Se predicheranno Dio, aboliranno dal loro vocabolario parole come infedele, nemico, vendetta. Se diventeranno genitori, saranno pronti a vivere un amore responsabile verso i figli, fatto di ascolto e di cura, di fermezza e di affetto.

Giovani così sono la chiave per costruire davvero la pace, che non è un sorriso, non è un sentimento zuccheroso, ma un fatto. Non abbiamo alternative: guardando al mondo così com’è, alla fame, alla guerra, alle ingiustizie dobbiamo decidere se cambiarlo o no. Se ci va bene così com’è, significa che preferiamo vivere nel non amore e siamo disposti a pagare le conseguenze delle nostre scelte. Se invece scegliamo di vedere e di capire, allora entriamo in una storia d’amore che si mette in gioco per tante altre storie di esclusione.

Quanto bene si può fare! Dentro di noi abbiamo delle potenzialità immense, siamo fatti per vivere questo amore. E amore è dare da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, accogliere lo straniero. È difficile e faticoso, ma questo è l’amore. È anche la premessa di ogni ragionamento sulla pace. In tutti questi anni, abbiamo capito che l’unica pace possibile è quella che passa da singole opere di giustizia. Vogliamo la pace, ma non ci sentiamo pacifisti. Vorremmo imparare sempre più ad essere operatori di pace, pacificati e pacificatori, persone capaci di gesti concreti di pace ogni giorno, pronti a chiedere e a dare perdono, persone che dentro di loro non lasciano spazio a parole come odio, nemico, infedele; persone che si commuovono di fronte alle sofferenze e alle ingiustizie e subito si danno da fare per cercare rimedi efficaci.

Chi opera per la pace è come una foresta di bene che cresce solida e rigogliosa, senza clamori, senza rumori. È come un pezzo di pane che tutti possono spezzare e mangiare. È come il sole: tutti sanno che c’è, anche quando nuvole tempestose lo nascondono alla vista. Non si tratta di fare cose eccezionali, ma di costellare la nostra vita, la nostra esperienza di costanza e di fedeltà. È la pace di cui parlava anche Giovanni XXIII nella Pacem in terris, una pace possibile, «fondata sulla verità, sulla giustizia, sull’amore, sulla libertà».

Pace

Oggi questa pace è minacciata anche vicino a noi, nel cuore dell’Europa, nel bacino del Mediterraneo come in tante altre nazioni del Medio Oriente, dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina. Una nuova guerra mondiale, combattuta a pezzi, in Paesi e regioni diverse come ha detto papa Francesco. Il non senso è sotto i nostri occhi.

Qualche mese fa ero in Medio Oriente in un campo profughi e ciò che ho vissuto nel silenzio di quegli incontri lo porterò con me per sempre. Intere famiglie, nonni e nipoti, giovani, mamme e papà con i loro figli strappati alla loro vita, al loro lavoro, ai loro sogni. Nel cuore di una notte un altoparlante li ha svegliati: «O conversione, o andarsene, subito, con i vestiti che avete addosso e niente di più». In appena una notte, la vita di centinaia di migliaia di persone, figli di popolazioni che abitavano quelle terre da migliaia di anni, è cambiata per sempre. Vivevano come noi e, in una notte, i loro amori, le loro amicizie, i loro sogni sono stati spezzati via.

Ed è paradossale pensare che tanti di loro oggi si sentono fortunati per essere riusciti a fuggire ed per essere ancora vivi pur non sapendo cosa li attende, dove vivranno, cosa faranno. Incontrandoli, ho visto con i miei occhi la rassegnazione, ho sentito il freddo di chi viene schiacciato dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dal male. Ho avvertito tutta la paura di chi è scappato sotto la minaccia delle armi e ho capito che la radice di ogni male è lì.
Fino a quando continueremo a costruire armi, il mondo non avrà futuro. Questo perché le armi uccidono cinque volte.

La prima, perché, per essere costruite, sottraggono investimenti di miliardi di dollari che potrebbero essere destinati allo sviluppo, a costruire scuole, ospedali, case.

La seconda, perché, per essere progettate, distolgono intelligenze che potrebbero essere applicate ad altri progetti di bene.

La terza, perché, quando sparano, uccidono veramente.

La quarta, perché alimentano la vendetta e preparano la prossima guerra.

La quinta, perché producono ferite inimmaginabili e squilibri atroci nei tanti reduci.

È un ragionamento che faccio spesso e mi rafforza nella convinzione che, anche se non possiamo orientare diversamente scelte di intere nazioni e di potentati economici, abbiamo il dovere morale di tenere vivi forti ideali di pace e custodire con altrettanta forza le nostre convinzioni più profonde, a costo di passare per visionari o idealisti.

Credere che la pace è possibile, nutrire speranza che si realizzi, in un mondo e in un tempo complesso come quello che viviamo, è difficile, difficilissimo. Anch’io come tutti spesso mi chiedo: «Dov’è la pace, dov’è l’opera della pace?» e la risposta non arriva, la risposta non è scontata. Ma non mi arrendo. Continuo a pensare che l’oggi sia ancora nelle nostre mani e che tutto ciò che non è stato, finalmente potrà essere.

Qualche anno fa mi è stato consegnato un riconoscimento in memoria di Giovanni XXIII. Un papa che ha creduto nella pace ad oltranza, che si è frapposto ai blocchi, che ha lottato senza mai perdere la speranza. Oggi ricordarlo mi fa bene al cuore, perché mi dice che è possibile avere una fede incrollabile in Dio e nell’uomo. E oggi ne ho, ne abbiamo davvero bisogno!

Dire sì alla pace, qui e ora, significa decidere con la ragione e il cuore di non cadere nella trappola dell’odio. Siamo avvolti da una coltre d’odio fatta di intolleranza, razzismo, diffidenza, chiusura, disattenzione per l’altro, non rispetto, maleducazione… E sono sentimenti che ci avvelenano l’anima e ci snaturano. Eppure, ci entrano dentro senza che ce ne accorgiamo allontanandoci da noi stessi, da quello che siamo.

L’odio distrugge e ci distrugge. Perché gli abbiamo permesso di avanzare così tanto? Se fossimo stati più accorti e saggi avremmo potuto controllarlo meglio, avremmo potuto fermarlo rendendo operative istituzioni internazionali credibili, autorevoli, indipendenti, capaci di fermare il dittatore di turno, il gruppo terroristico di turno… Fino ad oggi non l’abbiamo fatto e ogni tentativo sembra cadere nel vuoto.

Non possiamo scoraggiarci e dobbiamo imparare a contare nel modo giusto. Se la politica deve usare i suoi mezzi e capire come affrontare situazioni complesse, a noi tocca fare la nostra parte nei nostri ambienti, nelle situazioni concrete alla nostra portata. Il mondo ci vorrebbe portare altrove. La guerra bussa alla porta della nostra vita e tutto concorre a farci puntare il dito per dare subito un nome ai cattivi, ai violenti, ai fanatici.

E così, ci ritroviamo a vivere in un’epoca in cui conta solo l’insulto, il puntare il dito, un’epoca in cui è sempre l’altro il ladro, il vigliacco, il cattivo. L’odio è pericoloso perché a tutti i livelli ci porta al qualunquismo che può diventare autoritarismo e poi dittatura. Non scherziamo con il fuoco! La mia generazione la guerra se la ricorda, come il dolore, il male e i guai che ha portato. I giovani di oggi forse non riescono nemmeno a immaginarla, ma stiamo attenti perché quello che abbiamo vissuto in passato e che oggi semina morte altrove può tornare anche da noi. Può uccidere e distruggere! E noi non siamo esclusi!

Dialogo

Cosa possiamo fare concretamente di fronte a un mondo così complicato? Dobbiamo costruire muri, difenderci? La solita trappola dell’odio. Al contrario, dovremmo provare non a giustificare, ma a interrogarci sulle origini di quanto sta avvenendo. L’obiettivo da raggiungere è uno solo. Dobbiamo far sì che torti e ragioni si confrontino per riconoscerci fratelli, figli dell’unico Dio. Non è una questione di belle parole o di dialogo vuoto. Il vero incontro ci sarà quando non saranno gli affari a farci incontrare ma la necessità e il desiderio di conoscerci. Quando concetti come lo Stato di diritto e la reciprocità entreranno davvero nell’agenda dei governi. Quando il rispetto reciproco sarà uno stile di comportamento e non una carta di intenti. Quando la solidarietà e la sofferenza si incontreranno. Quando i responsabili delle diverse fedi e confessioni religiose sapranno dire con chiarezza che uccidere nel nome di Dio è una bestemmia.

Non è un’utopia. Non è utopia pensare che un musulmano possa essere semplicemente un buon credente, una persona di buona volontà. Così un ebreo, così un cristiano, così chi non crede. Oggi mi ripeto che un mondo nuovo è possibile solo se incontrerà la scelta di bene di uomini e donne responsabili, credibili, determinati.

Sono convinto che possa esserci un denominatore comune tra tutti e che questo sia l’opera della pace esercitata attraverso la bontà nelle relazioni. Nella nostra storia lo abbiamo sperimentato più volte. La bontà è l’unica chiave per dialogare con l’uomo. I buoni non sono mai stranieri in nessuna parte del mondo, non sono estranei a nulla e a nessuno. Solo i buoni possono indicare una strada buona, soluzioni buone, economia buona, politica buona, potere buono a servizio del bene, confini buoni, regole buone. Possono essere il sale, possono trasfigurare il mondo perché sanno chiedere perdono a Dio e ai fratelli e accettarlo da Dio e dai fratelli. È vitale che i buoni si riconoscano e si incontrino. I buoni possono dire la verità nella carità, scoprire ciò che unisce, apprezzare il buono degli altri e riconoscere che le divisioni di oggi arrivano da errori, mancanza di carità, incomprensioni, interessi e paure di ieri. I buoni possono l’impossibile, possono desiderare che finalmente pace e giustizia abitino insieme, cementate dal perdono.

I buoni non sono dei superuomini, sono persone normali, a volte debolissime. Succede agli adulti, succede ai giovani che oggi sono all’ultimo posto, esclusi, senza lavoro, non considerati. Siamo debolissimi, ma da quell’ultimo posto possiamo cambiare il mondo. Anche se siamo debolissimi, possiamo scoprire una forza mai sperimentata prima, possiamo essere fortissimi se diciamo un NO mai detto prima. Un no alla morte che arriva anche nei piccoli gesti. Un sì alla vita che abbiamo il potere di far fiorire in noi e intorno a noi. Nelle nostre mani abbiamo un potere trasformante. Crediamoci insieme: l’oggi può davvero diventare un domani in pace.

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Un commento

  1. gerlando 20 dicembre 2022

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