Scoprite se questo corpo stupendo, strumento complesso che possediamo, non sia in grado di sopportare l’intensità di quel movimento coscienziale in armonia con la Coscienza Universale. Accostiamoci all’arte di osservare. Noi abbiamo paura di essere esposti alla vita in uno stato di innocenza e vulnerabilità al nudo tocco dell’esistenza, stare quietamente con sé stessi. Stare nel silenzio. Sarà necessario passare attraverso un tunnel, quello dell’inconscio, tunnel che ogni ricercatore ha da attraversare. L’esperienza di Gesù di Nazareth, del Buddha in India, di Lao Tse in Cina, conferma questa verità.
Con tale visione la filosofa indiana Vimala Thakar[1] ci introduce nel regno del silenzio, concezione punto d’incontro tra religione e psicoanalisi, fede e umanità. Silenzio inteso da Vimala come frutto del movimento energetico che riguarda l’essere, anziché il fare e incontra la grandiosa energia dell’Universo. La persona diviene allora «consapevolezza», nell’infinito movimento della vita, nello slancio dell’esistere.
Vitalità che si esprime nel vivere profondamente attraverso nascita e morte, dolore e piacere, vita che respira ad ogni istante. E la persona che si realizza nella complessità porta a compimento la propria crescita umana nella maturità della coscienza. In quest’ottica particolare, la divinità è umanità raffinata e purificata.
C’è altro linguaggio che traduce il potenziale divino esistente in ciascuno, quello della dimensione contemplativa dei mistici: silenzio come stato di preghiera.
Sul versante della psicoanalisi focalizzo il silenzio come ascolto interpretante che restituisce all’altro il non-conosciuto, il non-svelato. Silenzio che comunicando con l’inconscio allarga spazi alla coscienza.
Dal silenzio della notte nasce il sogno che narra esperienze del passato e dialoghi interrotti con sé stessi. Interpretato apre nuovi orizzonti ed albe inaspettate. Questo, il Regno del Silenzio.
Nel mio percorso evolutivo articolato tra fede e psicoanalisi alla ricerca di quel Dio Unico che affratella oriente e occidente, cammino che esplicita quello svelamento della verità che è conoscenza in psicoanalisi, ho incontrato Autori che, risvegliando in me echi profondi, ho assunto come referenti della ricerca, divenendone lo snodo dell’incontro con il silenzio.
Con il termine psicoanalisi, che può apparire generico, in quanto numerose teorie sono state proposte nel suo nome, intendo quel processo evolutivo nella conoscenza di sé, della propria profonda e nascosta verità, che libera dalle matrici imprigionanti da cui siamo stati occupati nella nostra origine, per ri-nascere con una propria autentica identità.
Cammino evolutivo definito da Diego Napolitani, antropoanalisi: un andar facendosi uomo o donna, nel senso che uomo e donna si diventi. Rivisitando costantemente ciò che è stato l’istituito del passato, si liberano energie per costruire la vera identità, sempre in movimento e mai definitivamente compiuta.
Il grande Maestro Eckardt incontra inconsapevolmente aspetti psicoanalitici quando, attraversato da illuminazioni spirituali racconta di oscurità che ci appartengono, dove indispensabile entrare, tacendo voci altre, suoni, rumori, immagini, per accedere al silenzio dell’essenzialità.
Nel linguaggio biblico, ciò che è definito “in principio”, si traduce realtà immanente nel profondo degli esseri, nel granello di sabbia, come in coscienze evolute. Presente vitale percepibile da mente sgombra e libera, nello stato silenzioso e contemplante dove prendere coscienza della Presenza Creatrice.[2]
Coltivando la dimensione del silenzio è possibile intravedere consapevolezze emergenti dall’unica Energia Divina fluente in cose, tempi, spazi ed essendo noi parte del flusso, maturando sensibilità al creato, con ascolto profondo, si possa cogliere il divino in tutto ciò che è.[3] Penso al mio silenzio in terrazza sul mare, aspettando l’alba. Il sole si annuncia nella luminosità delle acque, cui segue il disco di fuoco che pare emergere dal mare. I gabbiani ruotano, disegnando una circonferenza attorno al sole, come a cantarne le lodi.
Scenario da creazione del mondo. Religiosità del silenzio.
La voce della Bibbia
Nella Scrittura la Presenza silente è rivelata nel Primo Libro dei Re, quando Elia sente il passaggio di Dio: «Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu un mormorio di vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello e uscì dalla caverna» (1Re 19,12).
Altrove, la Scrittura inserisce la dimensione del silenzio nella possibilità di essere saggi: «Questa (la Sapienza) ho amato e ricercato fin dalla mia giovinezza, ho cercato di prenderla come sposa, sapendo mi sarà consigliera di bene. Se tacerò, resteranno in attesa, se parlerò mi presteranno attenzione» (Sap 8,2.11).
Sul rapporto parola-silenzio,[4] se il silenzio propaga la sua eco, le parole rivelano tutta la loro usura. Parole-quantità si accumulano, ma la loro verità è altrove. Parole attraversate da estraneità, mancanti di comunicazione, necessitano inversioni di rotta, un progressivo assentarsi dal dire al tacere che propaghi la sua risonanza in quell’udire che non sia semplice non dire, ma diventi ascolto; un ascoltare che lasci l’altro nella sua alterità.
Silenzio inteso come scavo che consenta alla parola di emergere nella sua verità e possa diventare luogo del nostro nuovo abitare, dove dato conoscersi nella dimensione straniera, a noi stessi estranea.
Nel silenzio, le cose non più immobili, iniziano a far confluire l’esterno al nostro interno con effetti di instabilità per ciò cui siamo ostinatamente avvinghiati.
Il rapporto Dio-Mosè viene focalizzato con l’immagine stupenda del Roveto Ardente, impregnato di simbologie relazionali: «Mosè mosse alcuni passi per carpirne il segreto. Ma dal Roveto un grido: non avvicinarti oltre. Togliti i sandali» (Es 3,5a). Il segreto personale esige silenzio, fermarsi sulla soglia. L’incontro esclude che l’altro debba esserci staccato di dosso.[5] All’incontro si sostituisce rumore, occupazione: «Togliti i sandali perché il luogo sul Quale stai è suolo santo» (Es 3,5b).
Rispetto della distanza è rispetto del silenzio. In amore, perché non si generi paura, dovremmo consumare di venerazione la soglia, guardandoci da parole e gesti che suonino anche lontanamente come invasioni di intimità, del territorio che sta oltre; al di là è terra sacra. Terra sacra di silenzio.
Jean-Luc Nancy nel suo scritto Noli me tangere[6] definisce la fede come occhi capaci di vedere nella notte dell’invisibile; altro è credenza. Interpreto l’invisibile un aspetto del silenzio. E gli occhi che bucano l’invisibile li ritroviamo nel Vangelo, quando si parla di Giovanni. Giovanni vede e crede dinnanzi al sepolcro vuoto e il sudario abbandonato, comprende nel silenzio, nella sua fiducia in un silenzio colmo di Presenza.
In quella assenza silente, Gesù non è presente con le alterazioni che recano l’impronta della morte. È il silenzio momentaneo di chi si presenterà mutato. Infatti, la Maddalena che da tempo gli è vicina, non lo riconoscerà. Sarà solo la sua parola, il suo sentirsi chiamata, a svelarlo.
Ancora una volta, parola e silenzio si relazionano.
Il riconoscimento dubbioso chiama in causa la fede, perché essa non consiste nel riconoscere il noto, ma l’affidarsi ad un ignoto silenzioso. Silenzio e assenza.
Il non mi toccare significa anche: non tenere; rispetta la distanza, ama colui che se ne va, che si allontana, ama che se ne vada. L’amore e la verità, oltre il limite, respingono perché rivelano un contatto fuori portata. Non puoi trattenere niente, questo hai da amare.
Che la Maddalena, altrove, sia considerata donna di vita riprovevole, risponde al paradosso che la buona vita non è quella che si conformi ai buoni costumi, ma quella che in questa vita si tiene anche in prossimità di ciò che non è di questo mondo, il vuoto del sepolcro, silenzio assordante di Dio.
La Maddalena sa congiungere il qui e l’altrove senza mescolarli. Si trattiene in quel punto dove il senso del contatto è identico al suo ritrarsi.
Si abbandona ad una presenza che è anche una partenza, ad una gloria che in quel momento è solo oscurità. Un abbandono che proviene tanto dall’amore che dallo sconforto. Il corpo glorioso è al tempo stesso colui che parte e colui che parla, colui che non parla se non nell’atteggiamento di partire; colui che si eclissa nell’oscurità del sepolcro, così come nell’aspetto di un ortolano.
Ma costui parla, esce dal silenzio, e dice il nome di lei. Dire il nome è nominare ciò che muore e insieme non muore.
Il nome proprio parla senza parlare perché non significa, bensì designa; resta fedele alla mia partenza, a ciò che resta nella mia partenza.
Il silenzio in psicoanalisi
Nel lungo percorso psicoanalitico, il silenzio è struttura fondante dell’ascolto. Propedeutico all’ascolto, crea faticosamente spazi strappati alla colonizzazione di voci altre, a parole-rumore, territori attraversati da intrusioni, intenzioni, bisogni che non ci appartengono. Il silenzio-ascolto ridà autenticità alla parola, reinventandola.
Quando chiesero a Confucio cosa consigliasse per il Regno del Sud, dove la situazione era pessima, rispose che la prima cosa da farsi fosse restituire alle parole il significato originario.
Nei luoghi del silenzio nasce una parola illuminante, perché coniugata con ciò che dà la vita. La violenza della tenebra-rumore partorisce la falsità della parola inaffidabile.[7]
L’inconscio stesso è silenzio e parola, in quanto vive nel silenzio ma si esprime con la voce del sintomo che è disagio. Lo esplicita anche Husserl nel suo scritto Esperienza e giudizio[8] quando dice che l’esperienza vissuta nel passato può venire dimenticata non scomparire senza lasciare traccia: essa sarà latente.
In questo senso io concepisco l’inconscio silente. Ma, aggiunge il filosofo, la stessa esperienza del passato diviene l’istituito con la forma di un habitus, pronto a lasciarsi risvegliare da un atto associativo.
Come analista ho visto il passato esprimere la sua voce con modalità difficilmente riconoscibili.
Corrado Pensa,[9] psicoanalista junghiano, professore di Storia delle Religioni all’Università di Roma, Maestro di Meditazione, considera il silenzio risultato di ricerche nel laboratorio della mente, un cantiere in atto per conquistare luoghi di silenzio; esperienze elaborative del conflitto che portano oltre, schiudendo spazi silenziosi e di pace.
Sono percorsi evolutivi che attribuiscono valore al cammino interiore, assegnandoli posto privilegiato nella vita. La densità della consapevolezza alleggerisce lo spessore negativo che ci possiede, aprendoci al silenzio con le vibrazioni positive che contiene. Nel laboratorio-ricerca è possibile osservare quanto il germe del silenzio conviva con i conflitti disturbanti e quanto, per nascere debba essere strappato alla guerra radicata in noi.
L’educazione al silenzio urge nell’attuale società: psicoanalisi e religiosità costantemente rivisitata, possono offrire significativi contributi
Osservando da un’altra angolatura il silenzio, cioè nel rapporto madre-figlio, la mia esperienza psicoanalitica della parte infantile che ci abita, rende visibile quanto il bambino sia espropriato degli spazi silenziosi. Relazioni con madri immature, inadeguate nel prendersi cura di fragilità nascenti in vite che sbocciano, inquinano di bisogni propri, frustrazioni, attese che diverranno «humus» negativo nel territorio silenzioso del bambino. Matrice che nutrirà nel figlio il personaggio deformato, alternativo alla persona, processo inverso ad una crescita equilibrata.[10]
E ancora Corrado Pensa che narra della difficile conquista del silenzio, quando evidenziando il «piccolo risveglio» di colui che è in ricerca, si sperimenti diverso modo di essere, rapportandosi alla propria vita con modalità nuove, minore frammentazione e diminuite insoddisfazioni.
Atteggiamento silente e attento, che si esplicita come frequentazione della mente, assai difficile, in quanto genera contatto con noi stessi, ma da cui può emergere vista più chiara, quasi un miracolo. Lo stupore che accompagna la nascita del nuovo scopre sorgenti di forza interna mai immaginate.
Nel processo psicoanalitico, una modalità può essere vivere il silenzio come contenitore del conflitto. Alcuni pazienti non tollerando il silenzio, si sentono costretti a riempirlo di parole. In altri il silenzio è muto e rivela incapacità a verbalizzare con relativo isolamento.
Una paziente in raro momento di comunicazione, disse che i propri pensieri vacillavano come fiammella di candela, pronti a spegnersi all’istante. In altra occasione, sentiva nel silenzio mani gigantesche chiudersi in una morsa.[11] Nelle sue molteplici espressioni, il silenzio può rappresentare resistenza al dolore, oppure rabbia, quando interpretazioni in contrasto con il Super-Io, mettano in atto il: non parlo, non vedo, non sento.
Tipologia di silenzio che evoca la metafora di Leon Bloy: il silenzio è la mia parola.
Il luogo del silenzio offre anche possibilità di riflessione ed elaborazione quando le interpretazioni orientino la persona verso inaspettate prese di coscienza.
Durante l’analisi, attirare[12] l’attenzione del paziente sul modo con cui ha trattato i suoi sentimenti e bisogni perché da ciò dipendeva la sua sopravvivenza, produce un notevole alleggerimento.
Ritraduco l’esperienza della Miller in questi termini: il paziente sente percepite e considerate seriamente le proprie emozioni dall’ascolto silente e attento della psicoanalista, sentimenti che fino a quel momento era abituato a soffocare. La liberazione dal divieto di comunicare con il proprio dolore, passa attraverso quell’ascolto silente di sé, che la persona scopre attraverso la relazione analitica.
Winnicot[13] parla dell’incapacità di ascolto delle madri, che produce l’adattamento del bambino ai bisogni parentali, costruendo un falso Sé. Il vero Sé, non può essere vissuto e neppure svilupparsi ed affinarsi. Si crea quello stato che Winnicot definisce della «non comunicazione”».
Il soffocamento della vitalità crea impoverimento e mortificazione delle potenzialità espressive. La mancanza di quell’ascolto originato dal silenzio toglie al bambino il riconoscimento essenziale al proprio armonico sviluppo, toglie rispetto e priva di quell’identità che rende unica la persona. Sul versante della mancanza, incontriamo ciò che scrive Benedetti.[14]
L’origine più evidente del dolore è una mancanza che sta alla base della nostra vita, l’esistenza tutta è una mancanza perché ha un limite inesorabile che separa ogni soggetto dall’infinito delle sue possibili realizzazioni. La psicoterapia è arrivata a comprendere nel concetto di mancanza, il fondo dell’esistenza umana, in maniera altrettanto profonda e collaterale di quanto hanno fatto in diversi millenni di storia, le religioni universali.
Il concetto di mancanza alla luce della psicoanalisi ci permette di capire il Male, la distruttività, il fondo metafisico dell’esistenza. Nella sua funzione di analista, Benedetti individua una risposta di presenza, come coscienza di responsabilità e amore. Interrogandosi sull’essenza della psicoterapia Benedetti offre questa risposta: l’identificazione parziale con il sofferente, cioè il movimento psichico che può essere avvertito come interesse, attenzione, empatia, osservazione partecipe, vicinanza alla sofferenza. Quella stupenda qualità umana diviene nello psicoanalista una passione esistenziale.
Ripetiamo in noi stessi il dolore dell’altro, lo riproduciamo in una cornice psichica diversa, aperta ai modi creativi chiusi al paziente e diventa in noi coscienza, parola, dolore, accogliendo la persona in noi per poter essere accolti da lei e diventare ospiti del suo mondo. In questo modo di esserci egli inserisce esplicitamente la dimensione del silenzio, e scrive che nella relazione psicoanalitica, la risposta terapeutica, cioè l’integrazione di bisogni opposti in una dualità che sempre lascia spazio al Sé del paziente, dà la possibilità di percepirsi nel silenzio dell’analista come l’eremita nel silenzio del mondo, vale a dire sentire la propria solitudine nella presenza silenziosa dell’altro e la possibilità di sentirsi fantasmaticamente unito all’analista in una dualità di paradiso.
La creazione nasce dal silenzio: il Silenzio di Dio. Un Dio che si comprende secondo Benedetti in quanto partecipe dei nostri dolori dal basso del suo farsi uomo, assumendo la conseguenza ultima del suo atto creativo, in quanto vita a creatura limitata e imperfetta; sarebbe stato altrimenti un rispecchiarsi di Dio in sé. La Sua risposta al dolore fu un assumerlo in Gesù Cristo, percorrerlo e andare oltre. Così avviene nella psicoanalisi: assumendo il dolore dell’altro e con lui attraversandolo, gli si offre quell’aiuto indispensabile per affrontare la sofferenza.
E’ da questo incontro silente più volte sperimentato nel mio lavoro che nascono nuove creazioni; creazione di una relazione prima mai intravista né immaginata, creazione del Sé, con lo stupore di una rinascita, esperienza di una creatività nascente che irrora con la propria energia tutta la vita.
Benedetti vede in questo processo trasformativo una corrispondenza fra psicologia umana e «psicologia di Dio». Una scritta su una lamina scoperta presso l’antica Thurii, risalenti ai misteri orfici del VI sec. avanti Cristo, dice: con il sopportare questo patimento, Tu non più oltre hai sofferto, da uomo sei diventato divino.
Il silenzio come eco del Divino
Il grande filosofo e teologo ebreo Buber[15] inserisce il concetto del silenzio nell’ambito della relazione, esplicitando la sua visione del creato e della creatura nel rapporto col divino; crede ogni cosa irradiazione di scintilla divina, scintille dirette all’anima, pronta ad accoglierle.
Ciò chiama ciascuno a consacrare ogni cosa accada, a farsi altare davanti a Dio, sul quale offrire gli eventi della vita; a riconoscere Dio ogni volta che si presenti nella molteplicità delle manifestazioni. È l’Io infinito che fa di ogni cosa un tu e l’uomo corrisponde a Dio quando umanamente abbraccia il pezzo di mondo affidatogli, così come Dio divinamente abbraccia la creazione.
La persona realizza l’immagine di Dio, nella misura che le è umanamente possibile, quando con tutto il suo essere dice tu alla creazione che vive attorno a sé. Vi sono momenti di silenzio nei quali l’ordine del mondo è visto come presente, tanto da cogliere nella sua leggerezza il suono, di cui il mondo è l’inspiegabile partitura. Il processo di relazione trova qui la sua massima attuazione.
Egli vede la tristezza della situazione umana nel tramutare la relazione nell’«esso», irrigidendosi come cosa tra le cose, perdendo la visione dello spirito. L’uomo rassegnato al mondo dell’«esso» non sa penetrarlo con occhio di profondità, né di liberazione, un “esso” spezzato, privato di anima.
Il mistero si svela a me, nel movimento della mia libertà, là dove scopro ciò che allude alla mia esistenza personale. Chi opta per motivi profondi, libero dalla schiavitù di beni e di esteriorità, nudo, si avvicina al Volto.
Nei discorsi di Praga[16] egli riconduce il silenzio alla profonda conoscenza di sé, come strada che incrocia istanze religiose, psicoanalitiche ed evoluzione umana. Nelle ore silenti in cui riflettiamo sull’inesprimibile, Buber avverte il profondo dissidio della e nella nostra esistenza.
Approfondiamo lo sguardo, osserviamo, capiamo noi stessi. Traiamo la nostra vita dal profondo e prendiamola tra le mani come si radunano semi dispersi. Dalla più profonda conoscenza di sé potremo guardare il passato come la nostra preistoria e intenderne il divenire e le mete a cui siamo chiamati. Vivere e accogliere la propria verità, purificarsi dalle scorie del dominio straniero, redimersi.
Conclude uno dei suoi discorsi con la seguente metafora. Davanti alle porte di Roma siede un mendicante lebbroso e aspetta. È il Messia. Allora io andai da un vecchio saggio e gli chiesi cosa aspettasse. Il vecchio rispose, aspetta te.
Il silenzio vissuto all’interno delle relazioni è evidenziato anche da Carotta,[17] quando lo descrive in questi termini: dobbiamo interrogarci sulla nostra capacità di vivere il silenzio come custodia del fratello.
Talora veniamo a conoscenza di realtà penose del nostro prossimo e ci è chiesto un silenzio di rispetto, che sa custodire e proteggere dalle chiacchiere. All’interno delle nostre relazioni il silenzio è indice di maturità umana e spirituale.
C’è una sintesi straordinaria della preghiera su un crocevia che incontra il silenzio, ascolto, consapevolezza e autenticità esistenziale, come risposta radicale all’esistenza realizzata da M. Fox.[18]
Sullo sfondo del silenzio nasce il termine ebraico «Shemà»: Ascolta Israele.
Ascolto silente contenitore di mondi relazionali, realtà psicologica espressa da processi di crescita personali, di divenire e trasformazione. L’essenza della preghiera è un modificare la propria visione, percependo i misteri della vita dentro a sé e attorno a sé. Processo che prevede trasformazioni: «Non conformatevi alla Mentalità di questo mondo, ma Trasformatevi rinnovando la vostra mente» (Rom. 12,2).
E ancora silenzio come status di preghiera. Preghiera come processo che ci radica nella vita e che si esplicita in consapevolezza e libertà.
Consapevolezza intesa come capacità di essere interi, là dove si è; aperti a tutte le possibilità di godimento e di meraviglia, di stupore e di bellezza, di amore e di pace, là dove si trovano.
Riguarda il qui ed ora. Ancora, essere consapevoli nella preghiera significa sensibilità al «pathos» del momento, aperti a dare risposta al mistero che si presenta. Preghiera come «status».
Ma se consapevolezza è apertura a ciò che è grande nella vita, allora tra i misteri più grandi c’è la nostra capacità di contribuire alla sua nascita, alla sua rinascita nel proprio modo unico e personale. In sostanza essere sé stessi in un mondo che fa del suo meglio per farci diventare qualcun’altro.
Secondo Fox, ricerca in questo senso, significa preghiera, poiché essa nella sua essenza è cercare Dio. Cercare demanda al verbo biblico zeteo del mercante che cerca la perla preziosa. Se diventare consapevoli dei misteri della vita è ciò che ci libera, tale processo di crescita è analogo a quello della preghiera, del crescere nella libertà di essere sé stessi. Il Dio alla cui immagine siamo stati creati è Colui che è; pure noi siamo chiamati ad essere chi siamo. Paolo, nella Seconda Lettera ai Corinti, ricorda che «dove c’è lo spirito del Signore c’è libertà».
Pablo d’Ors,[19] maestro del silenzio, narra il suo percorso in questa straordinaria dimensione che coniuga presa di coscienza con pacificazione, contatto con sé stessi e vista aperta sulla circostante realtà.
Racconta di come si sia concentrato su ciò che riteneva determinante dentro il silenzio, ricavandone un’autentica rivelazione. Il suo maestro interiore lo ha guidato in questo percorso.
Sedersi nella posizione del meditante silenzioso, cercare il contatto con sé stesso, presente al suo presente gli è sembrato di estrema importanza. Perché normalmente viviamo dispersi, fuori di noi, e ciò rende impossibile una vita che si possa qualificare umana e degna.
Quanto più si medita, maggiore è la capacità di percezione e più si affina la sensibilità. Si smette di vivere offuscati e intorpiditi, come trascorriamo solitamente i giorni.
Lo sguardo si ripulisce iniziando a vedere il vero colore delle cose, l’udito inizia ad ascoltare l’autentico suono del mondo. Nasce la compassione per ogni essere vivente e non si vuole recar danno a niente e a nessuno, perché in prima istanza si farebbe male a sé stessi.
Questo è lo spazio che scelgo
come mia dimora e dove
sgorga la saggezza.
Medito perché la mia vita
sia meditazione, vivo perché
la mia meditazione sia vita.
Ogni sensazione anche minima è degna di essere esplorata. L’illuminazione è una luce che ogni tanto si accende dentro di noi e aiuta a comprendere la vita: tutto è mistero e non c’è distinzione tra sacro e profano, per quella attitudine che genera religiosità.
Fermati, guarda e lì
nasce il miracolo.
Risvegliati e scopri che
sei in prigione.
Studia il materiale
delle sbarre imprigionanti
e il processo con cui
fabbrichi le sbarre.
Il percorso all’interno del silenzio meditante è vissuto da Pablo d’Ors come una terapia.
Chiudo questo excursus con due affermazioni, la prima condivisa con Benedetti: la mia passione per la psicoanalisi è passione per la vita, nelle sue varie forme e possibilità.
La seconda attinge a quanto scrive il teologo Tillich, che ciascuno è teologo nella misura in cui decide che il problema di Dio e del mondo di fronte a Lui è il grande, principale problema della sua vita.
Parola e silenzio
due facce di una stessa medaglia.
Parole vere che toccano l’altro
nascono dal silenzio,
dall’intimità con sé stessi.
[1] V. Thakar: Il Mistero del silenzio, Ubaldini Editore Roma, 1998.
[2] G.Vannucci: Pellegrino dell’Assoluto, CENS, Milano 1985.
[3] M. Fox: All’inizio era la gioia. Mancuso e Fazi, Roma 2011.
[4] U. Galimberti: Parole nomadi, Feltrinelli, Milano 2009.
[5] A. Casati: Le paure che ci abitano, Romena, Pratovecchio 2011.
[6] J.-L. Nancy: Noli me tangere, Bollati Boringhieri, Torino 2005.
[7] A. Verdi Vighetti: Riflessioni sulla parola, in Rivista Italiana di Gruppoanalisi (2008/1).
[8] E . Husserl: Esperienza e giudizio, in Rivista di Antropoanalisi (2013/1-2).
[9] C. Pensa: Tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994.
[10] A. Verdi Vighetti: Giuditta e le altre, Pardes, Bologna 2009.
[11] H. Searles: Scritti sulla schizofrenia, Boringhieri, Torino 1974.
[12] A. Miller: Il dramma del bambino dotato, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
[13] D. Winnicot: Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.
[14] G. Benedetti: Riflessioni ed esperienze religiose in psicoterapia, Centro Scientifico Editore, Torino 2005.
[15] M. Buber: La vita come dialogo, La Scuola, Milano 2013.
[16] M. Buber: Rinascimento ebraico, Mondadori, Milano 2013.
[17] S. Carotta: Messa e preghiera quotidiana. Gennaio 2016, EDB, Bologna.
[18] M. Fox: Preghiera, Gabrielli, Verona 2014.
[19] P. d’Ors: Biografica del silenzio, Vita e Pensiero, Milano 2014.