In merito alla dimenticanza evidenziata con libertà e intelligenza dall’articolo di Giuseppe Lorizio (Fra culto e solidarietà: ci sarà spazio per la cultura?), mi piacerebbe rilevare il ruolo insostituibile della cultura nell’assecondare “i tempi dei processi” (EG 223).
Quella cultura vissuta con spirito umile alla ricerca di una giusta tensione tra fede e ragione, umanità e spiritualità. È proprio la cultura vissuta come impegno di ricerca di Dio e dell’umanità concreta che libera il cristiano dalla tentazione di vivere il culto come un rifugio e la solidarietà come un attivismo sfrenato.
Innanzitutto la ricerca teologica accompagnata da un fondato e proficuo dialogo con le scienze umane favorisce la consapevolezza di una realtà innegabile: la povertà culturale e formativa genera la povertà materiale e sociale. In tale direzione risulta illuminante il ministero profetico di don Lorenzo Milani il quale scriveva in Esperienze pastorali: “La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”.
La solidarietà della Chiesa – volendo superare il mero assistenzialismo – si lascia interrogare dalle esigenti richieste culturali che il mondo di oggi reclama per animare uno spazio di cura a partire da solidi progetti volti alla formazione integrale delle persone come unica via di affrancamento dai sistemi corrotti. Le mafie e il clientelismo infatti sanno come sfruttare la povertà culturale per servirsi maggiormente della libertà e della dignità delle persone.
Una audace formazione teologica e culturale si nutre poi della libertà interiore che dà luogo ad un costruttivo spirito critico innanzitutto verso le forme dell’annuncio evangelico. La teologia interroga la fede non soltanto in merito agli errori dottrinali o ai pericoli del ritualismo, ma anche sulla reale libertà che la Chiesa vive nello spazio pubblico. Una solidarietà ecclesiale che si limita alle forme più o meno evolute di assistenzialismo rischia di cedere alla subdola logica della rassegnazione e del pressapochismo.
Il pericolo più volte ricordato da papa Francesco di un neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico sembra essere accovacciato dietro alcune scelte e programmi ecclesiali che rincorrono forme riduttive di cristianesimo (modelli di Chiesa vicini ad una ONG). La formazione teologica e culturale abilita i battezzati e le battezzate – come autentici soggetti-protagonisti – a praticare una profezia capace di denunciare i meccanismi che generano le nuove schiavitù: interessi di parte, collusioni di ogni genere, sfruttamento dei lavoratori, evasione fiscale, discriminazioni sociali e culturali, corruzioni di vario tipo.
Per chiudere vorrei condividere pochi esempi in merito al recente dibattito:
- Sono note le ricerche emerse in questi ultimi giorni sui disagi psichici dei presbiteri (aspettavamo questi studi per renderci conto che anche loro – in un certo senso – possono diventare fragili?). Sia una forma di prete rinchiusa nell’alveo sacro del culto sia un’altra spesa unicamente in attività caritative e sociali, evade dalla possibilità di confrontarsi in maniera costante con le scienze psicologiche, prima e durante l’itinerario presbiterale. Una formazione che dialoga in senso interdisciplinare non isola il presbitero in spiritualità senza corpo, senza mente e senza carne: apre invece a percorsi di crescita perenne sia in direzione psicologica che teologica.
- Anche in merito alle chiare dichiarazioni di papa Francesco sulla necessità di un Sinodo per la Chiesa italiana ci sembra opportuno valorizzare le prospettive e le istanze culturali che sorgono dal basso e non assecondare un programma celebrativo o convegnistico. Un percorso sinodale che sia in grado di accogliere le autentiche voci del pluralismo culturale carico di possibilità da esplorare e non giudicare, perché anche la Chiesa italiana possa annunciare con il linguaggio adatto ai tempi odierni il Vangelo di Cristo. Affinché questo Sinodo si apra con queste motivazioni sarà opportuno esplorare ad intra i limiti delle resistenze culturali e aprirci con libertà alla profezia di ciò che tutte le soggettualità credenti esprimeranno senza diplomazie clericali.