Nei giorni scorsi si è svolto a Bologna il II Simposio Internazionale Writers Between Worlds, curato e organizzato dal Centro Studi Sara Valesio. Il Centro Studi si è caratterizzato, fin dagli inizi, per la sua capacità di raccogliere, all’interno delle sue attività, un’attenzione anche esistenziale, del vissuto umano nel senso più ampio, delle molte forme possibili di “testualità”, non solo letteraria, che caratterizzano un vivere (o essere costretti a vivere) tra-mondi. Intesi, a loro volta, in tutta la loro ampiezza semantica: che va da quella immediatamente geografica a quella delle espressioni spirituali dell’animo umano.
La condizione del linguaggio
L’essere tra-mondi, come scelta di vita, come destino violento e indesiderato, come condizione stessa del linguaggio, sembra rappresentare sempre più una situazione del nostro tempo; che trova nelle “biografie” tratti capaci di portare all’espressione esperienze dell’umano che vanno ben oltre di esse. Il simposio ne ha permesso un attraversamento ad ampio respiro, cogliendo le molte sfaccettature che caratterizzano questo movimento di vissuti, storie, parole e immagini tra mondi – talvolta così distanti e ostici fra di loro anche se sono solo a due passi l’uno dagli altri.
Gli spunti che sono emersi nel corso del Simposio sono molti e chiedono un tempo debito di ripresa e riflessione per essere colti nelle loro implicazioni più profonde. Mi limito a indicare alcuni elementi trasversali a esso che mettono in risalto un modo di lavorare e pensare insieme, che a mio avviso è diventato urgente nella nostra cultura europea.
L’interdisciplinarietà, altrimenti…
In primo luogo, la creazione di uno spazio interdisciplinare che si genera a partire da un forte radicamento in competenze specifiche. Il sapere di ogni approccio non ha bisogno di snaturarsi, di annacquarsi, per entrare in contatto fecondo con quello di altri. Nel momento in cui fa seriamente il proprio lavoro si scopre, a partire da esso, intricato con competenze e sensibilità che non gli appartengono immediatamente, ma che possono arricchirlo e aprirne gli orizzonti per scavi ulteriori.
L’abilità del Centro Studi Sara Valesio, nel corso degli anni, è stata quella di coltivare la persuasione che solo l’intreccio di diverse competenze specifiche, svincolate da rancori e sospetti ideologici figli di un’epoca oramai finita, può dare forma a percorsi culturali all’altezza della complessità dei vissuti umani odierni.
In merito il Simposio è stato un chiaro segno non solo della bontà del cammino percorso, ma anche della necessità di affinare con maggiore consapevolezza riflessa uno dei suoi asserti di fondo: non esiste una gerarchia delle “scritture”, delle competenze, delle prospettive – perché è solo nel loro intreccio, nell’incontro reciproco che sovverte il tranquillo adagiarsi sulle proprie tecniche operazionali, che ciascuna giunge alla sua piena maturazione.
L’accademia dei saperi, almeno così come essa si sta pensando in questo momento a livello europeo, è in grado al massimo di produrre percorsi ibridi, dove le varie discipline si giustappongono semplicemente l’una all’altra, rimanendo però quello che erano già in se stesse.
Nessuna trasformazione, nessuna metamorfosi, da questo mero accostamento così di moda nell’università odierna. Davanti a questo stallo, che non fa bene né alla cultura né all’umano, l’eterodossia metodologica del Centro Studi Sara Valesio si distingue per il suo sperimentalismo, per un meticciamento cercato e voluto delle competenze che convoca.
La nuda voce della parola
Infine, vorrei rimarcare la chiara intenzione del Simposio di restituire dignità di sapere al linguaggio non meta-riflessivo: uscire dal dominio della parola-su, tecnica, operazionale, troppo spesso fine a se stessa, per accedere alla ricchezza umanistica della parola che si dice – e niente di più.
Mi riferisco qui alle letture poetiche plurilingue (con lo snodo delicatissimo, e intrigante al tempo stesso, della traduzione, quindi), che hanno scandito ogni sezione del Simposio. Esse sono state esattamente questa liberazione della parola dall’addomesticamento accademico-culturale che finisce per limitarne la forza sovversiva.
Dire, ascoltare, mettere in scena parole, restituendo il linguaggio alla sua genesi interstiziale (fra-mondi, appunto), senza ridurre il tutto a evento commerciale, ma come desiderio di sostare senza protezione nella forza della loro sonorità e del loro silenzio, è stata la trama di fondo che ha concesso allo stesso linguaggio meta-riflessivo di potersi spingere oltre i limiti del proprio discorso. Qualcosa da cui la teologia stessa avrebbe molto da imparare, se ne avesse il coraggio e la finezza.