(Alessandra Pozzo)
“A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza” (1 Cor. 12, 8)
Se esiste una versione “laica” dei doni dello Spirito, Umberto Eco ne è stato il beneficiario per eccellenza ed ha impiegato tutte le sue energie per svilupparli con ardore durante tutta la vita.
Uomo leale, curioso, rigoroso ricercatore della verità, intelligente nel vero senso della parola, capace cioè di “legare”, unire, dei concetti, delle immagini, delle teorie per inventare delle nuove possibilità per capire la realtà.
Tenuto conto della sua cultura sterminata e di una memoria degna di Pico della Mirandola, Eco avrebbe potuto umiliare chiunque in un buon numero di campi dello scibile umano. Invece no. Se ne serviva per lavorarci sopra, analizzare, interpretare, confrontare testi, cogliere sensi nascosti e insegnare agli altri come farlo.
Già conquistata come lettrice dei saggi e del primo romanzo di Eco, ho deciso un giorno di seguire le sue lezioni di Semiotica all’Università di Bologna.
Il professore arrivava sempre puntuale in aula e le sue lezioni duravano due ore precise. Mescolato alla folla degli studenti durante l’intervallo, era attento alle richieste di chiunque lo sollecitasse. La semiotica non è cosa semplice, ma Eco la spiegava con una tale dedizione che faceva venir voglia di capire anche le nozioni che sembravano più ostiche. Cosi, la sua aula era sempre piena e gli studenti, affascinati dalle sue lezioni, erano provocati alla conoscenza.
Perfettamente cosciente della complessità degli argomenti trattati, ogni tanto Eco inseriva improvvisamente, tra uno schema e l’altro, una breve battuta ironica, finalizzata a provocare una risata generale. Era per lui il segnale necessario a verificare che gli studenti stavano attenti e non avevano perso il filo.
Ma sono altri i dettagli del modo di esercitare il suo mandato d’insegnante che hanno attirato in modo particolare la mia attenzione e che hanno costituito per me una autentica “scuola di vita”. Talvolta Eco invitava uno dei dottorandi in semiotica a una delle sue lezioni per sviluppare il tema delle sue ricerche. Ci sono professori che ne avrebbero approfittato per lasciare l’aula e fare altre cose. Il Professor Eco invece no, lui saliva nell’anfiteatro e si sedeva in mezzo agli altri studenti, contento di imparare qualcosa su un argomento che padroneggiava meno. Questo modo di trattare il sapere come uno scambio di esperienze orizzontale, paritario, rispettoso delle competenze altrui, si è fissato nel mio ricordo come un atto di autentica umiltà intellettuale.
Lavorare con Umberto Eco non fu sempre cosa semplice. Lui, le tesi le leggeva per davvero e non tralasciava di correggere neanche le virgole. Pare che tutti gli studenti che l’hanno avuto come relatore abbiano avuto diritto a una sfuriata del Professore prima di capire a quale rigore bisognava attenersi.
In questo modo lo statuto di Eco, mentre rimproverava e correggeva, slittava impercettibilmente dal ruolo di insegnante a quello di colui che genera al sapere. Insomma, a una figura paterna. Credo che Eco abbia esercitato il ruolo di colui che trasmette la conoscenza e genera al sapere, alla sapienza, non solo nei confronti dei suoi studenti, ma anche nei confronti dei suoi lettori e dei suoi spettatori. Lo ha fatto con estrema generosità e con un tocco di abile sarcasmo. Ora ci ha passato il testimone, lasciandoci la responsabilità di una ricchissima eredità da far fruttificare.