Sembra davvero impossibile riuscire a dimostrare dove termina la natura e comincia la cultura: infatti non ci sono confini, né dogane, né definizioni che abbiano un senso; né ontologie universali. Perché i confini sono ponti, sono quantici relazionali e non permettono identità fisse e inossidabili.
E oggi, per fare un esempio tra tanti, l’arbitraria separazione tra natura e cultura si rivela come responsabile della crisi che vede contrapposti tradizionalisti e progressisti sulla questione di genere. Ambedue i contendenti difendono uno dei supposti poli, in una dialettica falsificata dalle equivoche premesse, che suppongono opposizioni, come se natura e cultura fossero distinte, separabili, indipendenti.
Ragionando secondo il prospettivismo antropologico, in compagnia di Eduardo Viveiros de Castro, non possiamo ignorare come gli indigeni dell’Amazzonia intendono la relazione natura-cultura. È una comprensione radicalmente alternativa alle filosofie e teologie occidentali.
Generalmente, a un occidentale di matrice tomista, la natura si presente come istanza primaria, unico universale, contrapposta alla cultura, che è il particolare. Agli occidentali laici, fautori di diverse omologazioni ideologiche, è la cultura che si presenta come il polo universalizzante, mentre la natura rappresenterebbe ciò che deve essere permanentemente vinto, dominato, trasformato.
Il tutto giocato in un contesto mercantile-nostalgico, in cui si vende il mito del ritorno alla natura, nelle diete, nei cosmetici, in luoghi e stili naturali. Il tutto riassunto nell’ipocrisia ecocida dei leaders politici mondiali, alleati nella divulgazione dell’ossimoro dello sviluppo sostenibile, dove il sostantivo condanna senza appello ogni sostenibilità ecologica e una qualunque sopravvivenza della natura.
La prospettiva indigena è radicalmente alternativa al concetto tomista: la cultura è l’universale e la natura è il particolare. Insomma, tutti gli animali, inclusi gli umani, si percepiscono come esseri che possiedono la stessa visione e interpretazione della realtà e sono diversi solamente per il loro aspetto naturale, come se la natura fosse solo un vestito, un travestimento. Una natura che permette che ci siano esseri vivi ridotti al ruolo di cacciagione.
Ma anche gli umani sono oggetto della caccia da parte della cacciagione. Uccidere per sopravvivere è compito quotidiano, che non appartiene alla logica della catena alimentare, ma al sacro di esseri vivi che appartengono allo stesso mondo, alla stessa cultura. E così, per poter uccidere un animale bisogna ritualmente chiedere il permesso agli spiriti della foresta, dichiarando che questa violenza è giustificata solo dalla necessità.
L’universalismo culturale indigeno, però, non si assomiglia per niente all’universalismo capitalista, che nega la natura, riducendola a cosa, e ripropone questa logica di dominazione nelle corrispondenti omologazioni dei comportamenti e delle abitudini, perché l’indigeno non ha una relazione gerarchica con la natura, con gli esseri vivi, con il mondo.
Insomma, gli indigeni non sono greci, metafisici negatori della materia e dei corpi, servi di una lettura binaria della realtà, in cui prevalgono i teoremi della superiorità e dell´inferiorizzazione: essere-divenire; unicità-molteplicità; spirito-materia; anima-corpo; uomo-donna; adulto-bambino; colto-ignorante; ricco-povero; padrone-schiavo; umano-animale; stato-società civile; umano-ambiente…
Non dimentichiamo che gli indigeni non sono semiti, quando, da noi, il letale dualismo greco firmò una velenosa alleanza con il dualismo del tempio: sacro-profano; puro-impuro.
I dualismi sono assenti nelle spiritualità indigene, ove, però, in un altro contesto di limiti, violenza e difficoltà – che ci impediscono di mitizzare il buon selvaggio – riposa un desiderio, una possibilità, non illusoria, di armonia, di comunione, di vera universalità.
Che è quella, mi pare, che ispira anche l’ecologia integrale di Papa Francesco.