L’università purtroppo è al centro del dibattito solo per l’emergenza virtuale indotta dall’intelligenza artificiale, mai per quella vitale che la ferisce da decenni.
Il talento (antica unità di misura molto imponente: 34 kg d’argento, cioè un’intera vita di lavoro di un operaio) è proverbiale grazie alla parabola del vangelo di Matteo, in cui Cristo descrive il regno dei cieli, cioè il mondo come Dio lo offre agli uomini. Il racconto narra di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì» (Mt, 25).
Riceviamo la vita in dote e siamo realmente liberi perché a noi è lasciata l’iniziativa «creativa»: per cosa? Lo scritto dice che i talenti non sono «le capacità», ma ciò che viene dato a ciascuno «secondo la sua capacità». Se mescoliamo i talenti con «le capacità», la vita diventa una debilitante competizione, tipica del mondo contemporaneo della performance che infatti genera soggetti stanchi, se non depressi. Nella parabola si narra ben altro: che cosa?
Il talento è la vita che ognuno può ospitare in base “alla” capacità, cioè quanto può contenere un recipiente. Le tazze hanno capacità diverse, ma non sono in contrasto: ciascuna è piena se riceve il liquido di cui è capace. A differenza delle tazze però, la «capacità» umana non è data una volta per tutte: si può espandere. In italiano infatti è tradotto con «capacità» la parola greca dynamis (energia), da cui dinamismo o dinamite. Si potrebbe traslitterale: «A ciascuno diede talenti secondo la sua energia». Accogliamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo accogliere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa attitudine espansiva si chiama desiderio, «a ognuno la vita è data in base al suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace».
Al suo rientro l’uomo infatti chiede «conto dei talenti», cioè «racconto della vita»: come ti è andata? Due dei tre hanno duplicato, la vita è cresciuta in e attorno a loro, è diventata eterna, cioè viva, e infatti la gioia provata è confermata e moltiplicata: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla mia gioia». Quell’uomo che invece ha seppellito il talento ha seppellito la propria vita e si discolpa dicendo Per paura lo nascosi sotterra. Si è rifiutato di «vivere la vita» e si è «lasciato vivere»: sotterrando il talento ha sotterrato sé stesso. Se un solo talento è una quantità tale da esser sinonimo del lavoro di una vita intera, a quell’uomo è stato chiesto ciò che era alla sua portata per essere felice. Ma la pigrizia e la paura sono stati il suo sepolcro in vita.
Non casualmente nella lingua italiana delle origini talento indicava desiderio. Vivere in talento per Dante, infatti, nella famosa poesia per i suoi amici, è aver gli stessi desideri. Dal 1700 in poi la parola si va invece identificando con «capacità», da vita indeterminata (desiderio) a predeterminata (destino).
Un giovane, avvolto nella cultura dell’autoaffermazione, è comprensibilmente angosciato dalla legge del più forte o più fortunato. L’educazione serve a trovare il desiderio che anima ciascuno, per essere «vivo». Aiutarli a scoprire come accogliere la vita (i talenti) è il segreto della gioia: domandare «che talenti hai?» non è chiedere «che capacità hai?» (da cui il pilatesco ritornello: «ha le capacità ma non si applica»), ma «quanta vita puoi/vuoi creare?». E ciò dipende da una domanda più radicale: «Qual è il tuo desiderio? Che cosa puoi essere e fare solo tu?».
Un’educazione che conforta (dà forza a) questa «energia», dà vita alla vita, ma per far questo serve un percorso serio che negli anni aiuti i giovani a distinguere i desideri indotti da condizionamenti esterni, mode e ferite della vita, che generano dipendenza, e «il desiderio» autentico, che invece libera e moltiplica la vita. Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a identificarlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo?