Università: il maestro e l’allievo

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L’umanesimo, sintesi culturale del meglio di Atene, Roma e Gerusalemme, è stato il più grande progetto pedagogico e politico della storia (l’Europa ne è il frutto migliore): progetto oggi esangue avendo tradito le sue fonti vitali in nome dell’autosufficienza (mi costruisco da solo, contro tutti) e dell’utile (tecnico ed economico).

Anche l’università, sebbene lo difenda a parole, ha abbandonato quel progetto umanistico e sposato, a livello strutturale e organizzativo, il dominante pensiero: utilitaristico (eliminazione di materie considerate «inutili», ma fondamentali per coltivare ciò che rende umano l’uomo, accompagnata una paradossale crescita di altri corsi didattici, spesso costruiti su promesse di «sconti sul programma» per agevolare la preparazione agli esami, generando così una pressione crescente verso la frequenza), tecnocratico (più tablet che professori stabili e appassionati), spersonalizzato (programmi uguali per tutti, test ed esami standardizzati) e competitivo basato sull’acquisizione di crediti (esasperato modello aziendale).

I controlli burocratici sull’attività dei docenti si sono moltiplicati fino a sommergerli in una deprimente mole di compiti amministrativi, che li distolgono sia dall’insegnamento sia dalla ricerca. Eppure, i professori sanno bene che quel quotidiano compilare moduli sulle attività svolte, didattiche e scientifiche, è indispensabile per garantire finanziamenti e per migliorare il posizionamento del proprio dipartimento nei ranking.

I ragazzi sono diventati oggetto di aspettative (risorse) e non soggetti di possibilità (creatori di risorse), e infatti dall’università scappano o ne escono senza capire se avesse a che fare con la vita (cf. anche A. Prencipe, Università generativa, Il Mulino, 2024, recentemente recensito: B. Capparelli, Rivista di cultura e di politica, Il Mulino, 11 novembre 2024, ultimo accesso: 20 novembre 2024).

Qualsiasi riforma del sistema accademico rimarrà di superficie se prima non ci sarà una rivoluzione copernicana dello sguardo, riformare significa dare nuova forma e la forma di cui l’università italiana ha bisogno è soprattutto relazionale, dalla disposizione dei banchi alla formazione dei nuovi professori. Non è sentimentalismo, ma necessità professionale: una relazione è reale quando i suoi frutti, detti beni relazionali, sono riscontrabili. La relazione educativa esiste se produce come suo bene la grande dignità dell’uomo: la libertà creativa. Il frutto dell’educazione non è addomesticare e addestrare, ma liberare le energie creative da ciò che le paralizza: la paura e l’ignoranza, che portano quelle energie a distruggere (se stessi e il mondo) anziché a creare, come la violenza a cui si votano molti ragazzi (per chi non crea, la distruzione resta l’unico e necessario modo di relazionarsi con l’altro e il mondo).

Solo chi è toccato dalla bellezza della relazione con la vita, con il bello-vero-buono creato dagli uomini del passato (materie) e narrato da quelli del presente (maestri) si sente chiamato a fare qualcosa di bello della e nella sua vita.

Delle singole tappe degli anni di università non ricordo i contenuti delle lezioni, ma il rapporto con uno o due maestri che mi hanno cambiato la vita mentre facevano lezione: quelle relazioni sono la ri-forma dell’università. Perché non farne un sistema invece di un’eccezione?

Ogni professore dovrebbe possedere tre requisiti: sapienza, cioè amare e conoscere ciò che insegna; empatia, cioè amare e conoscere le persone a cui lo insegna; passione, cioè trovare il modo di adattare ciò che insegna a chi lo insegna (cf. B. Capparelli, I giovani, l’Università, la “meraviglia”, in SettimanaNews, 11 settembre 2024, ultimo accesso: 21 novembre 2024). Qualsiasi contenuto viene privato di valore se un discepolo non percepisce la propria vita come valore negli occhi del maestro: come pretendi di dirmi che la vita di Socrate ha valore se la mia, di studente, non ha per te almeno lo stesso valore?

Se l’educazione ha come fine la libertà e l’istruzione la cultura (che è la somma di tutte le creazioni umane che servono a umanizzare la vita), educazione e istruzione sono inscindibili. La cultura dovrebbe infatti mettere ogni nuovo nato a contatto con il meglio dell’umanità passata e presente, risvegliando «il maestro interiore», cioè la capacità autonoma di portare a compimento la propria vocazione (cf. B. Capparelli, Università, crocevia dei saperi, in SettimanaNews, 4 ottobre 2024, ultimo accesso: 23 novembre 2024), spinti dall’energia che dà l’amore per se stessi, interiorizzato a partire dall’amore ricevuto nelle relazioni significative.

Il futuro non sta dopo né fuori di noi, ma già dentro, come seme che aspetta di fiorire, solo a patto che, chi ne è portatore, ne diventi consapevole scoprendo la sua chiamata, quella per cui Socrate è stato messo a morte con l’accusa di insegnare ai giovani nuove divinità (faceva Università).

La fame di futuro non è altro che fame di destini che possano diventare destinazioni. Solo chi saprà pensare, adesso, fuori dai soliti schemi, sarà pronto ad affrontare le sfide attuali e inventare il futuro che non è fuori, ma in chi sa coltivarlo, dentro di sé, sin da ora (Il concetto è stato approfondito in B. Capparelli, Università e talento, in SettimanaNews, 23 ottobre 2024, ultimo accesso: 22 novembre 2024). Solo questo vince la paura e dà il coraggio di rischiare. Solo chi ha scoperto sé stesso e il mondo attraverso la cultura farà qualcosa per la cultura.

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