Università, il semestre atipico

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Lo stato di sospensione della vita pubblica durerà ancora un po’ di tempo. In ogni caso, non credo sia cosa saggia e opportuna mettere in movimento una massa di giovani per farli rientrare all’università prima dell’estate. Certo, così facendo si creerebbe l’effetto artificiale di avere almeno concluso normalmente un semestre. Quando di normale, in questa condizione di emergenza, c’è ben poco.

Corsi trasferiti online, videoclips dei docenti, qualche antica e sana dispensa, chat di discussione, ci stanno permettendo di attraversare con dignità e professionalità questo tempo sospeso. Che non è tempo perso. Tutto questo permetterà agli studenti di fare esami, credo nelle stesse modalità digitali, e di avere i loro crediti.

Tutti in rete

In tal modo abbiamo garantito un minimo di onesta continuità; e, forse, ci abbiamo guadagnato anche qualcosa in umanità. Conigli che appaiono nei video dei prof, improvvisamente elevati al rango di assistenti; gatti che si piazzano davanti allo schermo del computer mentre registri una lezione, e siccome non hanno alcuna intenzione di spostarsi… voilà ecco che alla voce parlante del prof si sovrappone il musetto del gatto accademico.

Università coronavirus

Gli studenti gettano un occhio nelle case e nelle stanze dei loro docenti, sentono urla di bimbi che corrono per casa: insomma, si accorgono che anche i prof hanno una vita, un’altra vita rispetto a quella che vedono nei corridoi e nelle aule universitarie. Sono umani anche loro, non vanno dal parrucchiere da tre settimane, magari non si mettono su il trucco solo per un video… e lecitamente ti puoi domandare se oltre alla camicia e maglione che vedi nella clip magari non abbiamo su ancora i pantaloni del pigiama.

Certo, c’è il risvolto della medaglia nel passare tutto in rete. In particolare l’ingresso completo del mondo universitario in quella condizione di «sorveglianza totale» che Internet e il digitale hanno portato all’estremo. Tutti i metadati e le conversazioni sono raccolte, salvate e controllate dalla nuova oligarchia digitale che governa il mondo – un misto di potere statale e interessi privati che hanno stretto la grande alleanza per dare forma, con nostro pieno consenso e scienza, alla «società dell’esposizione totale» (il libro è datato, per la velocità dei nostri tempi, ma merita una lettura: B.E. Harcourt, Exposed. Desire and Disobedience in the Digital Age, 2013).

E così quel minimo di libertà accademica che ci garantivano le vetuste aule pre-virus va a farsi benedire; ma facciamo finta che esista ancora una qualche forma di riservatezza, anche se di essa non ve ne è più traccia.

Il desidero dell’analogico

In questi giorni circolano annunci profetici di un futuro imminente in cui, per l’università, tutto continuerà come in questo tempo sospeso. Tutti a casa e tutti in rete. Meno costi, più connettività, nessuna infezione… se non quella dei nostri PC. Senza tenere conto, però, che quando si ammala lo strumento della nostra vita, sia esso il corpo o l’attrezzo digitale, sono cavoli amari. Certo, il corpo quando è finito è un vuoto a rendere e non ti danno indietro nemmeno la caparra che hai versato per portartelo a spasso con te tutta una vita. Mentre il PC che muore è un’inezia, ne compri un altro e torni a vivere come se nulla fosse successo. Ti salvano anche i dati, quindi che problema c’è?

Non so i colleghi e le colleghe, ma la generazione digitale con cui ho a che fare io in questo semestre sospeso termina ogni email della nostra chat con parole che suonano più o meno così: «in attesa di vederci in classe…; nella speranza di vederla prima della fine del semestre…; mi auguro di poter discutere questo anche con gli altri studenti quando riprenderemo le lezioni…». Non mi sembra che i digitals siano così propensi al sacrificio supremo delle relazioni analogiche, almeno per quanto riguarda l’università. Un corpo e la presenza fisica sembrano mantenere il loro fascino, tanto più ora che rischiamo la nausea da saturazione di esistere solo in digitale.

Io a casa, loro sul campo

In tutto ciò, per me personalmente, in questo semestre sospeso si sta ponendo una forte questione etica. Paradossalmente insegno proprio questa materia all’Istituto Superiore di Scienze dell’Educazione e della Formazione «Giuseppe Toniolo» di Modena. Il dilemma è presto detto: gran parte dei miei studenti lavora già in settori della marginalità sociale, della cosiddetta devianza, con tossici e anziani, e così via. Lavora anche adesso, tenendo in piedi un pezzo di paese che è quello più debole e dimenticato.

Questo già in tempi normali, figuratevi adesso. Sono in prima linea, come molti altri in questo periodo, ma di loro si sa poco o nulla. Sottopagati ma appassionati. Con orari di lavoro fasulli, si buca ogni giorno infatti, ma sempre sul pezzo. E a me tocca «parlare» loro di deontologia professionale… non è un paradosso, ma semplicemente una contraddizione di termini. Che senso ha, mi chiedo?

L’unica possibilità è che siano loro a darlo, come fanno con generosità ogni volta che entrano in chat. Hanno voglia di pensare e riflettere anche quando, ogni giorno, si muovono nelle atmosfere dell’intruso invisibile. Gli inviti a uscire dalla pandemia come una società migliore e più forte, un po’ retorici a dire il vero, si sbriciolano davanti a questa parte migliore che già c’è, e c’era anche prima, che sono i miei studenti e le mie studentesse (e molti altri insieme con loro).

Sono loro, in questo momento, che legittimano il mio ruolo accademico. Il mio dovere è non dimenticarlo.

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