È giunto alla fine (7 luglio) il processo avviato dalla Città del Vaticano contro tre suoi dipendenti e due giornalisti: E. Fittipaldi e G. Nuzzi. Condannati mons. A. L. Vallejo Balda a 18 mesi e F. I. Chaouqui a 10 mesi; prosciolto N. Maio e i due giornalisti. Una sentenza “mite” per i due dipendenti vaticani che hanno trasmesso i documenti riservati della Santa Sede e giusta nei confronti della libertà di informazione, con i due libri degli interessati: Avarizia e Via crucis. I documenti sono autentici, semmai malati quanto a interpretazione, visto che fotografano una situazione già superata dai fatti e dalle decisioni.
L’interesse mediatico, assai vivace all’inizio è via via scemato. Il principio della libertà di informazione, variamente evocato, non ha trovato un grande riscontro nel dibattito pubblico e il paragone coi processi sovietici appartiene alla retorica non ai dati di fatto. Assai fragile è anche l’interpretazione che contrappone il grigiore della curia (tribunale) alla volontà riformatrice di Francesco. I giudici hanno interpretato al meglio il codice penale vaticano, con le variazioni a suo tempo introdotte dal papa. Poco plausibile l’invocazione al governo italiano per un intervento a difesa di due cittadini (giornalisti), visto che il “delitto” si è consumato dentro le mura del Vaticano. Più semplicemente, come ha notato p. Lombardi, direttore della Sala stampa, si è trattato di applicare una legge interna che ha per mira di contrastare le fughe improprie di notizie riservate.
Le “anomalie” percepite (difensori designati, conoscenza limitata del fascicolo ecc.) mostrano una differenza difficile da negare: la Santa Sede non è una democrazia, ma non è neppure il suo contrario e tantomeno la sua negazione. È altra cosa. Nella forma democratica i media dovrebbero rappresentare il “quarto potere”, a verifica dei tre riconosciuti (legislativo, esecutivo, giudiziario). Anche se oggi la realtà pervasiva dei media esercita un condizionamento che giunge a rovesciare il principio di realtà: vero è ciò che si narra o si mostra non quello che si esperimenta e succede.
Per chi vive l’appartenenza ecclesiale il tema spinoso è semmai quello delle indagini alle quali sono stati e sono talora soggetti i teologi e, soprattutto, la questione più generale di un’opinione pubblica nella Chiesa. Non nella forma contrappositiva (alla responsabilità pastorale), o servile (rispetto all’istituzione ecclesiastica), o, addirittura, alternativa a questa, ma piuttosto capace di esprime il sensus fidei del popolo di Dio. Anche nella sua forma più impegnativa, quella di andare oltre i limiti canonici o di governo o di insegnamento quando lo Spirito e la testimonianza cristiana lo richiedano. In un momento critico per i media di proprietà e appartenenza ecclesiale si tratta di trovare i modi per esprime al meglio la dimensione sinodale delle comunità cristiane. Non si tratta di scontri di potere, ma di qualità del discernimento spirituale.