Con i piedi nelle forre del presentismo
Il presentismo[1] è una contraffazione dell’esperienza del tempo, particolarmente palese oggi che, nel contesto di un pensiero debole, del tempo si ha un’idea frammentaria e puntiforme. Selezionando un frammento di esistenza, pensando di potersi e doversi dedicare solo ad essa, si scivola in uno strano e contraddittorio vitalismo che, di fatto, blocca la vita che, per sua natura, tende invece ad estendersi e ad allargarsi. Di questo rinchiudersi nello stretto alveo del presentismo ci sono anche le ragioni.
In verità, dopo l’esaltazione del fattore storico fino al vertice mistico, «si comprende il rifiuto del post-moderno per quelle concezioni che, enfatizzando sia il passato che il futuro, hanno finito per fargli sacrificare il solo tempo reale della sua esistenza, il presente in cui la sua vita effettivamente si svolge».[2] Tuttavia, la descrizione dell’uomo irretito nel presente è preoccupante: «L’uomo d’oggi è come un animale da selva braccato, che rifiuta il passato, esorcizzato dal clima neo-illuminista, ed è spaventato dal futuro sempre più sbarrato e minaccioso. […] Si attua quella che sartrianamente possiamo chiamare l’euforia della fattualità, che si esprime come cultura dell’effimero. L’uomo di oggi può risultare così, senza mete e senza radici, cioè senza futuro e senza passato»;[3] il futuro è solo il ricordo del passato e l’espansione del presente, senza nessuna discontinuità; resta, alla fine, solo il presente.
L’incarico della teologia cristiana è di mostrare che il presente, perché non diventi luogo di morte, dev’essere il punto da cui ci si slancia verso la trascendenza e verso la soglia escatologica cui si accede salendo i gradini della scala della parusia e del giudizio.
Potremmo anche accettare l’accento della cultura post-moderna sul presente, se il presente tornasse ad essere considerato come il punto strategico per vivere la pienezza del tempo, come ritiene sant’Agostino: «Non ci sono propriamente parlando tre tempi: il passato, il presente e il futuro, ma soltanto tre presenti: il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro».[4] è la prospettiva del Magnificat: Maria dal presente fa memoria degli acta Dei (cf. Lc 1,49-55 ) e prevede future opere di misericordia divina, oltre alla benedizione che le riserberanno le generazioni future (cf. Lc 1,48.50).
Non bastano i futuri brevi
Nel cuore della Grande guerra del Novecento fiorì una scienza nuova, la Futurologia, che, diversa dalla tradizionale Filosofia della storia, finirà per diventare il simbolo dell’uomo contemporaneo.[5] Evidentemente, era un discorso nettamente intrastorico, anche se – cosa che va detta anche per il pensiero utopico – conteneva e contiene una vicinanza al tema della speranza.[6]
La tensione al futuro ebbe la sua espressione più intensa negli anni 60, ricordati come gli anni della speranza, dell’ideologia del progresso, del rinnovamento, della liberazione. Il vento forte dell’utopia investì le università, il complesso mondo della politica, mentre la teologia si lasciò attirare dal fascino dimenticato della speranza.[7] A questa stagione fervida, nella quale lo sguardo al futuro s’era ridestato, è seguita una crisi del pensiero utopico nel mondo e della speranza.
Siamo dentro l’incerto recinto di una cultura sconnessa; nell’instabile «casa» della cultura contemporanea, abita ormai un inquilino malaticcio: il «pensiero debole»[8]. Lo sappiamo: oggi il pensiero è del tutto volto al racconto del “passato prossimo”, alla descrizione e all’organizzazione del presente, alla progettazione di futuri brevi. In tale contesto di cultura debole (che è in certo senso neosofistica e neoscettica), ciò a cui ci si dedica è la cura dell’opinione e non tanto la ricerca della verità.
Tuttavia, da ultimo, notiamo un sussulto di riscatto o di ripresa dinanzi all’avvilimento predominante che caratterizza la cultura franta e indebolita di oggi. È vero si è lacerata la sua memoria storica, si sono spezzati vincoli spirituali un giorno fortissimi, la sua è la cultura del solo presente, ma c’è un segnale da osservare: si comincia a parlare di una crisi di questo pensiero e del fiorire di un «nuovo realismo» che potrebbe rimediare alla desertificazione di ogni certezza conoscitiva, etica, valoriale e religiosa.
Questo nuovo pensiero, più vicino fra l’altro al sapiente buonsenso, mentre chiede un ripensamento sulla “debolezza” del post-moderno, sulla spinta proprio delle ultime crisi: le necessità reali (la presente crisi economica mondiale), le vite e le morti reali (l’11 settembre americano, le guerre senza termine dell’Estremo Oriente e i sommovimenti non ancora finiti della “primavera araba”, l’insorgere dell’Isis…) non sopportano di essere ridotti a interpretazione e tornano a far valere i loro diritti.
Pare crollino, così, due dogmi laici del post-moderno: il primo, l’idea che la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile; il secondo, che la verità e l’oggettività siano inutili.[9] Sui materiali sconnessi di questi due crolli potrebbe rinascere la fiducia di poter pensare e dire il futuro ultimo con la connessa esigenza di ricreare spazio al discorso di una storia pensata alla luce del giudizio.
Per questo tipo di risposta non ci si può accontentare, perciò, di futuri brevi: oggi al futuro, prossimo e remoto, ci si può affidare meglio utilizzando le risorse informatiche di cui si dispone, ma resta del tutto intatta la domanda sul futuro ultimo. Dire spirito previsionale non equivale a dire spirito escatologico: interessarsi in modo radicale al futuro è interessarsi al futuro ultimo e non semplicemente al futuro delle progettazioni e delle programmazioni.
Il problema escatologico, da un certo punto di vista, è del tutto diverso: nell’esperienza dei “futuri brevi” tutto consiste nell’andare verso il futuro, mentre nell’esperienza escatologica il futuro è misteriosamente anticipato e in esso si vive «la contemporaneità verso il futuro».[10] Questo il cristianesimo ritiene e propone a pensare e a credere: il futuro ultimo e il giudizio sono già in atto, ma non ancora compiuti e consumati.
Riaprirsi al mistero del futuro di Dio
Anche per i cristiani si riapre un varco al discorso della speranza: pur dentro una cultura debole e frammentaria che si disimpegna verso i grandi temi del futuro ultimo, è ai piedi del Crocifisso che per il cristiano si apre il varco di un possibile dialogo fra cristianesimo e cultura d’oggi, di là della caduta del senso provocata dalla crisi dei mondi ideologici della modernità.
La domanda sulla verità, specie quella che riguarda il futuro ultimo (e in esso anche il giudizio), il cristiano la rivolge alla Scrittura, nel convincimento di fede che essa contenga la giusta risposta ad essa. Ma a quale condizione il testo sacro risponde a tale domanda capitale? Alla condizione che la risposta non sia astratta, ma concreta, personale: la verità non è qualcosa, ma Qualcuno.
Questa risposta ci si attende e si riceve dalla Scrittura, perché il credente riesce a interpretarla come una realtà presente, sentendo che dalle sue pagine parla un soggetto vivo e presente che si distingue da tutti gli altri soggetti della storia per il fatto di stare in contatto con la verità e di poterla così manifestare in parole umane: questo Qualcuno, per il cristiano, è il Cristo, colui che può decifrare il crittogramma umano, nel suo senso esteso, dalla creazione al giudizio e alla risurrezione.
[1] Cf. S. Palumbieri, L’uomo e il futuro. È possibile il futuro per l’uomo?, I, Dehoniane, Roma 1991, 8-13.
[2] G. Savagnone, Evangelizzare nella post-modernità, Elledici, Torino-Leumann 2002, 40.
[3] S. Palumbieri, L’uomo e il futuro, I, 11-12.
[4] S. Agostino, Confessioni, XI, 20, 26.
[5] Cf. R. Panico, Il Primato 1909-2009, Futuro, Futurismo, Futurologia: i cento anni dell’avanguardia italiana, previsione e archeologia politica in Europa per un pensiero futuribile, Università La Sapienza, Roma 2010.
[6] Cf. A. Negri, Futurologia scienza della speranza, Pan Editrice, Milano 1978.
[7] Quasi nello stesso periodo in cui in America esplodeva il movimento della morte di Dio, in Germania nasceva quello della teologia della speranza, che accomunava cattolici e protestanti. J. Moltmann, W. Pannemberg, H. Cox, J.B. Metz, E. Schillebeeckx, F. Kerstiens, H. Berkhof, E. Brunner cercano di riscoprire la forza dell’escatologia in rapporto soprattutto alla trasformazione del mondo in senso umanamente promuovente (cf. B. Mondin, I teologi della speranza, Borla, Roma 1974).
[8] Si è entrati nel circolo perverso del convincimento che non c’è un filo conduttore della storia, né un sapere globale che riesca a coordinare i saperi particolari entro una visione “vera” del mondo. Ciò che viene chiamato «pensiero debole», è un pensiero radicale: è il tentativo di sfondare, chiamando in causa Nietzsche e Heidegger, le resistenze che le immagini “forti” della ragione continuano a innalzare. Viene coltivato il convincimento che, solo se ci liberiamo dai fantasmi dell’irrazionalità, potremo cominciare a scorgere un’idea di verità più frastagliata, più mobile, più tollerante e più utile: cf. Aa.Vv., Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.A. Rossetti, Feltrinelli, Milano 1988; J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1991. Per alcune osservazioni critiche su questa filosofia della crisi, dal punto di vista del pensiero cattolico, cf. V. Messori, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1992, 302-309.
[9] Cf. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012. Tuttavia continua la difesa del «pensiero debole», ad esempio, da parte di uno dei suoi iniziatori in Italia, Pier Aldo Rovatti: Inattualità del pensiero debole, Forum, Udine 2001.
[10] Cf. P. Prini, Cristianesimo e ideologia, Ed. Esperienze, Fossano (CN) 1973, 55.