Riportiamo integralmente l’omelia pronunciata da Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, durante la messa crismale del Giovedì Santo (29 marzo 2018) nella chiesa cattedrale in occasione dell’Anno giubilare gaudenziano.
La celebrazione della messa crismale del Giovedì Santo di quest’anno ci porta in modo naturale a considerare un tratto essenziale dei riti che celebriamo. È la messa nella quale vengono consacrati dal vescovo con i sacerdoti gli oli che fanno parte dei segni che donano la vita cristiana: l’olio dei catecumeni che corona il cammino d’iniziazione nel battesimo per passare dall’uomo vecchio all’uomo nuovo; il sacro crisma per il battesimo e la cresima, per l’ordinazione dei sacerdoti e dei vescovi e per la consacrazione di una chiesa; l’olio degli infermi per soccorrere le persone nel momento della sofferenza e della malattia.
La consacrazione degli oli avviene nel giorno in cui si fa il memoriale dell’ultima cena del Signore, anticipo reale nel sacramento della morte e risurrezione di Gesù. In modo sintetico, possiamo dire che sono tutti segni che curano la vita dei cristiani, segnandone la nascita e accompagnandone la crescita. Per questo il tema di cui voglio parlarvi è la cura del popolo di Dio.
La parola di Dio che abbiamo ascoltato ci indirizza facilmente a ricuperare questa sottolineatura.
La profezia di Isaia ci parla dell’unzione messianica del profeta futuro, che è «mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2a). Gesù nel vangelo di Luca si ferma a questo punto nella lettura del rotolo di Isaia, quasi a porre l’accento sull’anno di grazia del Signore, a dichiarare il volto misericordioso del ministero che Egli inaugura a Nazareth (Lc 4,16-21).
Noi siamo sacerdoti della nuova alleanza e dobbiamo essere illuminati dal raggio di luce con cui Gesù inizia il suo ministero. È la prima proclamazione pubblica che contiene i tratti programmatici del ministero di Gesù. La sua missione vuole costruire il popolo sacerdotale come ci ricorda Isaia: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti. Io darò loro fedelmente il salario, concluderò con loro un’alleanza eterna. […] Coloro che li vedranno riconosceranno che essi sono la stirpe benedetta del Signore» (Is 61,6a.9b).
Gli fa eco l’inno dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato come seconda lettura: «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli» (Ap 1,5b-6).
La parola di Dio ci indica chiaramente il fine del nostro ministero di preti: prenderci cura del popolo di Dio, perché sia un popolo sacerdotale.
Che cosa significa questo? Il nostro ministero si chiama “ordinato” perché trova il suo senso radicale nella cura del popolo di Dio, è un ministero ordinato ad altri e vive di questo essere totalmente speso per gli altri. Non è un ministero per noi, ma per gli uomini e le donne di oggi, non è un ministero per realizzarci, ma per realizzare la vita buona del vangelo nel cuore delle persone, non è un ministero per arricchirci, ma per nutrire il popolo santo della Parola, dei sacramenti e della carità, non è un ministero per avere un ruolo di successo, ma per far crescere i buoni legami della vita sociale.
Il primo dono che ci offre la liturgia di oggi è di ricevere la freschezza del nostro essere “ordinati” al popolo di Dio. Non sarà la mancanza di questa coscienza che fa serpeggiare quell’accidia pastorale che trapela nella vita di alcuni preti?
Per questo oggi siamo qui presenti in molti sacerdoti. Siamo venuti per attingere alla sorgente della sua gioia ed è triste pensare come ce ne siano alcuni che, invece, possano avere qualcosa di più importante da fare (si trova sempre qualche alibi), di questo appuntamento, una volta all’anno, fondamentale per la nostra vita!
La cura del popolo di Dio richiede di avere la viva coscienza della Chiesa come popolo di Dio pellegrinante sulla terra. Che cosa questo significhi, ce lo ha splendidamente illustrato la costituzione del Concilio Lumen gentium al n. 9: «Questo popolo messianico ha per capo Cristo “che è stato dato a morte per i nostri peccati, ed è risuscitato per la nostra giustificazione” (Rom 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Questo popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito santo come nel suo tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cf. Gv 13,34). E, finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cf. Col 3,4) e “anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gioiosa libertà dei figli di Dio” (Rom 8,21). Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo di fatto tutti gli uomini, e apparendo talora come il piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo in una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui preso per essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,12-16), è inviato a tutto il mondo» (corsivi miei).
È un testo densissimo: del popolo di Dio viene indicato il capo che è Cristo (e non il prete o il vescovo), la condizione che è la dignità e libertà dei figli, la legge che è il comandamento dell’amore, il fine che è la costruzione del regno, e, per terminare, che è segno e strumento di unità di tutto il genere umano (cf. LG 1).
Meditiamo lungamente questo testo per alimentarci al puro nettare della grande tradizione, contro tutte le tentazioni di ridurre il popolo di Dio a una setta di persone che stanno insieme per affinità elettive o a un vago solidarismo sociale, che enfatizza il popolo ma dimentica che è di Dio!
Potremmo dire in sintesi: la Chiesa è per tutti, anche se non di tutti. Il fatto che stiamo diventando una minoranza, non ci deve far dimenticare che dovremo sempre essere una minoranza “cattolica”.
Siamo un piccolo gregge che si fa carico di tutto il gregge che è senza pastore, che anela alla vita in abbondanza, anche se sovente si abbevera alle cisterne screpolate.
Dobbiamo portare nel cuore la ferita di tutte le persone sofferenti sotto il peso di una vita piena di cose e povera di gesti di amore e di carità.
Dobbiamo sentire la lacerazione che attraversa l’attuale indifferenza per il senso della vita, dove se chiedi a una persona chi sei, donde vieni, dove vai, per che cosa lotti, ti risponde: sono Mario Rossi, vengo da casa, vado al lavoro quando ce l’ho, e torno malvolentieri stanco e sfiduciato a sera.
Dobbiamo lasciarci toccare dai molti giovani che rinviano il loro diventar grandi perché noi adulti rallentiamo il loro accesso al banchetto della vita ed essi si perdono nelle notti desolate dei fumi e della trasgressione.
Siamo pastori a cui brucia il cuore per tutto questo, o siamo anche noi attraversati dal sottile inganno che così va il mondo e non ci si può fare nulla?
Ecco, questo è il senso del popolo di Dio, di quell’innumerevole nube di persone a cui il Signore ci invia, talvolta sentendoci profeti recalcitranti come Giona. Perciò, avendo pregato e chiesto lumi allo Spirito Santo, ho deciso di dirvi queste tre cose, che siano come luce per portare a compimento quest’anno dedicato alle équipes pastorali e sognare i cammini di quello nuovo, che vorrei fosse incentrato su una vasta opera di formazione e di cura del popolo santo di Dio.
Oggi ne delineo solo le tre piste essenziali, che poi svolgeremo ulteriormente nella preparazione al nuovo anno pastorale.
Primo: la cura pastorale del popolo di Dio. Credo che il primo gesto da fare sia una revisione profonda, pacata e coraggiosa del nostro ministero pastorale in favore del popolo di Dio. Il nostro essere preti in mezzo al popolo di Dio è bello, ma insidioso: proponendoci la cura della vita delle persone, il doppio registro che, da un lato, segue lo svolgersi dell’anno liturgico-pastorale e, dall’altro, le attese e le domande della gente, spesso ci toglie il respiro e lo sguardo sintetico per chiederci se non solo stiamo facendo tanto, ma anche bene.
Tutti insieme ci sentiamo chiamati ad una forte revisione del nostro cammino pastorale nel prossimo anno. Iniziamo già prima della fine di quest’anno e poi questa estate, per essere pronti a settembre a pensare una giornata di revisione: occorre dedicare personalmente, con i preti dell’UPM (Unità pastorali missionarie, ndr) e con le équipes pastorali, un tempo disteso per mettere a tema l’insieme del cammino pastorale delle parrocchie nel contesto delle UPM.
Per ora vi indico le domande guida.
Tutto quello che facciamo serve veramente alla cura del popolo di Dio?
Quali sono le cose da togliere e quelle da far crescere?
Quali sono i (troppo) pieni e i (molti) vuoti, perché ci sia un’armonica vita cristiana? Se osserviamo le proposte spirituali di un anno pastorale che tipo di comunità cristiana ne deriva?
Abbiamo una pastorale ancora molto sacramentalista, ci riempiano di messe da dire, c’è troppo poca parola di Dio che nutre la coscienza e l’insignificanza di oggi?
Quanto tempo dedichiamo alle famiglie per far crescere quelle nuove e accompagnare quelle dal cuore ferito? Quanto spazio dedichiamo alla cura dei giovani e alla loro crescita?
Com’è la qualità fraterna della vita delle nostre comunità e dei gruppi e movimenti che la compongono?
La carità non è ancora troppo periferica, faticando ad entrare nella normale coscienza della vita pastorale?
Proviamo a comporre un’ideale puzzle per vedere ciò che v’è di troppo e i vuoti che rimangono.
La questione di fondo è semplice: occorre tornare all’essenziale ma, per sapere che cosa è essenziale, bisogna prima vivere dell’essenziale. Io vi do un piccolo contributo: sto riscrivendo da capo il mio Liber pastoralis, facilitandolo il più possibile, per metterlo in mano a tutti coloro che vorranno vivere e sceglieranno di scommettere sul rinnovamento della vita del popolo di Dio.
Secondo: la formazione dei cristiani testimoni. Immagino che questa prima sosta presso il cuore del popolo di Dio ci suggerirà un secondo passo. È ciò che il vescovo sente di proporvi come l’unica scelta pastorale per il prossimo anno. Dobbiamo iniziare una corale opera di formazione dei cristiani perché siano testimoni! L’unica cosa straordinaria da fare – potremmo dire con uno slogan – è quella di “rifare in modo straordinario l’ordinario”. Si tratta di credere e di aprirci al vigore della vita cristiana, perché la freschezza del vangelo incontri la vita degli uomini, perché scocchi la scintilla della vita buona del testimone di Gesù.
Non abbiamo bisogno di cristiani “padroni della fede” o “gestori della parrocchia”. Abbiamo uno straordinario bisogno di credenti (e preti) umili, coraggiosi, tenaci, appassionati, liberi di cuore, testimoni credibili che giungano fino a dimenticare se stessi, perché gli altri incontrino il Signore vivente e risorto.
Come fare a realizzare questo? Per ora vi indico tre linee guida, che siano come le tre grandi stanze del nuovo “Seminario dei laici e con i laici”: seminario – come indica la parola – richiama ad una nuova primavera, in cui si seminano i semi per far crescere nuove piante, rigogliose e feconde.
La prima stanza è la parrocchia nell’UPM, che deve tornare ad essere luogo che privilegia la formazione e tutti i gesti pastorali che la promuovono: lo strumento pratico sarà quello di una coraggiosa riforma della vita pastorale con l’obiettivo di far crescere il cristiano testimone.
La seconda sarà il vicariato: prevedo di stendere un percorso triennale di crescita spirituale e pastorale per tutti i membri dei Consigli pastorali parrocchiali e dei Consigli affari economici, che vi potranno partecipare ciascuno almeno per un anno.
La terza stanza consiste in un tempo e un luogo per i membri delle équipes pastorali, perché nel triennio ciascuno possa partecipare almeno per un anno a un percorso di formazione specifica.
La meta di questo cammino sarà quella di mettere tutta la Chiesa diocesana in “stato di formazione”, per educarci ad una più alta coscienza del sensus ecclesiae. Il “senso della Chiesa” non è altro che formare la capacità per ogni cristiano di essere adulto nella fede e ecclesiale per la sua testimonianza nel mondo.
Terzo: la riforma spirituale della vita del clero. Infine, non c’è nessuna cura del popolo di Dio che non s’accompagni insieme alla cura di sé, del prete e del presbiterio.
La cura di sé è lo specchio in cui si riflette la cura che abbiamo per la nostra gente. E la gente ama il suo prete, talvolta anche gli perdona le debolezze, talaltra lo ammira, ma è necessario che egli sappia anche proporsi come umile esempio di testimone da imitare.
Non possiamo continuare ad essere preti, senza rimanere profondamente cristiani e uomini. Perciò vi dico fraternamente e paternamente: è necessario aver cura della casa, degli affetti, dei beni, delle relazioni, della bocca e del cuore.
La cura della casa si esprime in una dimora caratterizzata da una sobria dignità, senza inutili spese e ricercatezze, ma soprattutto con una casa ordinata, pulita e accogliente, insieme agli ambienti parrocchiali, in cui nessuno entrando può rimanere imbarazzato perché troppo lussuosa oppure
penosamente sporca e inospitale, prima per il prete che per gli altri. I confratelli vicini dovrebbero venire in soccorso con autentica carità a talune situazioni veramente deprimenti che si trascinano da anni.
La cura degli affetti esige trasparenza del cuore e limpidezza dei gesti e non si possono inventare false giustificazioni o alibi spiritualistici per giustificare atteggiamenti ambigui e pratiche insidiose per la vita propria e altrui. Il nostro ministero è troppo coinvolto nella vita delle persone e può suscitare comportamenti che, a lungo andare, diventano fuorvianti e a cui è difficile riparare, soprattutto nell’attuale cultura permissiva e consumista.
La cura dei beni ci chiede la trasparenza del distacco evangelico dalle cose, che si esprime nella rigorosa distinzione dei beni propri (e della famiglia) da quelli della Chiesa. Fa male vedere anche preti bravi che pasticciano tra risorse proprie e beni della comunità, è inaccettabile sentire di eredità inenarrabili lasciate ai familiari pur provenendo da famiglie dimesse. Il prete non è un investimento per nessuno, ed episodi di tal genere devono ricevere tutta la nostra riprovazione. Così come, di fronte alle crisi di molte famiglie che non arrivano a fine mese, non ci è concesso un atteggiamento borghese con viaggi inutili o una vita sopra le righe. Anche, la cura dei beni della comunità deve farsi con spirito ecclesiale, non per una malcelata malattia di protagonismo edilizio.
La cura delle relazioni nel presbiterio è una condizione essenziale della fecondità della missione. Talvolta ho notato gruppi di opinione e di pressione che mettono in discussione persino la libertà del ministero, la gratuità delle relazioni, la fiducia reciproca, la collaborazione pastorale, per cui si lavora con gli uni e si escludono gli altri in base a orientamenti ideali o pratici, magari anche legittimi, che però diventano inaccettabili, se sono divisivi nel presbiterio e nella missione pastorale dei confratelli. Si può dare un giudizio obiettivo sul tratto pastorale di un confratello, ma esso diventa distruttivo se include o esclude, creando gruppi di pressione.
E, infine, la cura della bocca e del cuore invita a custodire la parola e le intenzioni. Se il popolo di Dio ascoltasse i nostri discorsi a tavola ne rimarrebbe edificato, perché sentirebbe che in essi trapela passione per il vangelo? Oppure ne resterebbe depresso per l’invidia e la gelosia che talvolta li attraversa, quando non proprio la maldicenza che deforma anche le imprese più belle? Non è questa la causa di un ministero deludente e deprimente, che sottrae energia a un ministero entusiasta e tonico?
Carissimi, rendiamo grazie al Signore per la testimonianza di molti preti – e sono la maggioranza – che hanno una vera dedizione al popolo di Dio. La cura della gente ci apre d’innanzi un panorama meraviglioso di formazione dei credenti testimoni e dei ministeri per la Chiesa e per il mondo.
È un compito affascinante che affido soprattutto ai preti della maturità e ai preti giovani, perché la Chiesa del vostro domani sarà quella che costruirete con una grandiosa opera di formazione spirituale e pastorale. Noi non ci saremo più, ma vorremmo essere ricordati come quelli che hanno visto oltre la siepe.
Solo così si sperimenta la maternità della Chiesa che affidiamo a Maria, la madre del coraggio e della gioia!