Nel cristianesimo accogliere gli stranieri e condividere la sorte degli emarginati «rappresenta un’indicazione centrale, avvertita come uno specifico dovere dal discepolo di Gesù che, nell’ospite, accoglie il suo stesso Maestro». Così scrive l’arcivescovo di Napoli, card. Crescenzio Sepe, nella lettera pastorale dal titolo Accogliere i pellegrini, pubblicata come supplemento al settimanale diocesano Nuova Stagione (10 settembre 2017).
Il cardinale osserva che, in antico, i pellegrini e gli ospiti «avevano qualcosa di sacro…, una particolare tutela divina, che fondava un vero e proprio diritto all’accoglienza».
Oggi però, annota realisticamente l’arcivescovo, l’accoglienza è divenuta una questione molto discussa e il fenomeno migratorio appare «sovraccarico di complesse implicanze sociali e disturbato da approcci politici spesso faziosi e demagogici, se non proprio razzisti», tanto che «accogliere uno sconosciuto in casa è percepito come una rischiosa avventatezza».
Anche i “senza fissa dimora” (si calcola che a Napoli siano circa 2.000) – ricorda la lettera – rientrano nel numero delle persone da accogliere. Essi sono chiamati “invisibili” da chi «è intollerante, prova fastidio e non vuole vederli», magari girandosi dall’altra parte o cambiando marciapiede.
Ma è il fenomeno migratorio a destare le maggiori preoccupazioni, perché è divenuto «una vera e propria emergenza sociale», perché «sono in tanti» e li percepiamo come «un’insopportabile minaccia».
Vera la valutazione dell’arcivescovo: «A molti [i migranti] appaiono strani, ostili, nemici, un pericolo per il nostro precario benessere; un rischio inaccettabile per la nostra incolumità, per l’illusoria tranquillità nella quale siamo adagiati», tanto che «c’è chi vorrebbe respingerli, o mandarli altrove».
Dato che «non si tratta di un fenomeno contingente», scrive con forza il cardinale, «dalle classi dirigenti – spesso spaventate dalla perdita del consenso – dobbiamo pretendere una strategia politica capace di accogliere e integrare quanti vivono sulla propria pelle il disagio dell’emarginazione e dell’esclusione».
Attenzione, però – ammonisce il porporato: «accogliere i pellegrini non è solo moltiplicare il numero delle mense e dei dormitori», perché un’azione caritativa attenta solo a tamponare le emergenze, anche se necessaria, «può rischiare di perpetuare indefinitamente situazioni di degrado sociale». Scopo ultimo di questa azione caritativa deve rimanere quello di restituire queste persone «ad una vita dignitosa».
Il terzo paragrafo della lettera si sofferma sullo stile con il quale la Chiesa partenopea intende attuare la quarta opera di misericordia corporale.
Da evitare, in primo luogo, la tentazione del proselitismo. Piuttosto, per entrare nel mondo spirituale degli ospiti, è bene percorrere altre strade, come «condividere la responsabilità per il proprio territorio, organizzare insieme momenti di spiritualità interreligiosa, far festa per una comune ricorrenza, offrire il doposcuola ai ragazzi scolasticamente più fragili». Anche il gioco e la musica possono incentivare le relazioni. Scopo a cui tendere è sempre l’inclusione.
Semplici e ricche di umanità le parole con le quali l’arcivescovo conclude il paragrafo: «Un giorno Dio non ci chiederà se abbiamo battezzato tutti i forestieri giunti a noi e se ne abbiamo fatto dei cattolici osservanti: ci chiederà piuttosto se li abbiamo amati davvero, se li abbiamo protetti, sostenuti, serviti…, se li abbiamo abbracciati, se abbiamo letto nei loro occhi il dolore, la solitudine, la loro sete di vita e di amore».
Senza dimenticare le povertà “vicine”, come «il marito separato della famiglia che vive alla porta accanto; chi ha perso il lavoro o si sente tradito negli affetti più cari; un ammalato abbandonato nel suo letto di dolore; un giovane solo e scoraggiato».
Tre le indicazioni finali:
- sviluppare un’etica dell’accoglienza, rasserenando gli animi e disinnescando i meccanismi della paura;
- ogni comunità parrocchiale adotti un barbone o uno straniero, circondandolo di ogni premura, avendo cura di inserirlo in un progetto di recupero e di integrazione nel tessuto sociale. C’è un obiettivo da raggiungere a Napoli: ridurre ogni anno del 10% il numero dei “senzatetto”;
- in sintonia con il prossimo Sinodo dei vescovi, in ogni decanato si elabori un progetto di pastorale giovanile territoriale con obiettivi concreti e verificabili. E ciò allo scopo di incontrare i ragazzi e i giovani, di conoscerli, di affiancarsi alle loro fragilità per renderli consapevoli protagonisti del loro destino.
Un programma fattibile, a patto che – conclude l’arcivescovo – non si parta con «un cuore ingombro».