Dal 9 all’11 giugno scorsi l’arcivescovo di Napoli, il card. Crescenzio Sepe ha convocato i responsabili dei vari settori della pastorale diocesana per una tre giorni di verifica e di programmazione. «Ognuno si senta investito dell’identità del proprio carisma, della missione di edificare il Corpo di Cristo, che è la Chiesa, in particolare la Chiesa che è a Napoli, di cui siamo parte». Così il porporato ha introdotto i lavori, chiedendo a tutti di vivere questo impegno come «un grande evento di comunione».
Nel 2008, in occasione della ricorrenza di san Gennaro, l’arcivescovo aveva pubblicato piano pastorale “Organizzare la speranza”, declinato successivamente in alcune lettere pastorali: “Non chiudete il cuore alla speranza” (2010), “Per amore del mio popolo” (2011), “Canta e cammina” (2013), “Dar da mangiare agli affamati” (2014) e “Dar da bere agli assetati” (2015).
Sta camminando la Chiesa partenopea? E in quale direzione?
Non sono cadute nel vuote le indicazioni del cardinale. Il segretario del Collegio decani, Giuseppe Carmelo, richiama il buon lavoro che si fa nelle parrocchie per i ragazzi, soprattutto negli oratori, la partecipazione degli adulti negli organismi di comunione parrocchiali e decanali, la valorizzazione degli anziani, l’attenzione alle famiglie in difficoltà, la formazione dei laici. Anche Vincenzo Cafarella, nella sintesi del lavoro di gruppo sul bene comune, rileva come le priorità indicate nelle lettere pastorali più recenti abbiano avuto la giusta attenzione. Basti vedere l’aumento delle mense per i poveri, i pasti per i senza fissa dimora, i doposcuola, gli accordi fra gli istituti alberghieri e le mense. Così come si nota una maggiore attenzione per la cura del creato.
Colpisce una cosa nelle relazioni presentate al convegno: il desiderio di un’attività pastorale più coordinata, di un’azione pastorale più integrata e partecipe. Scrive Giuseppe Carmelo: «Si è ravvisata un’adesione insufficiente di tutto il presbiterio alla dinamica del decanato», con l’inevitabile risultato dell’isolamento dei presbiteri e delle comunità a loro affidate. Forte la sua richiesta: «Occorre dare un rilievo maggiore a questa struttura [il decanato], al fine di promuovere e favorire una cooperazione armonica e sinergica tra le comunità parrocchiali, superando i confini e le chiusure dei singoli e attuando una comune e condivisa attività pastorale». Occorre «rafforzare lo stile comunionale… uscire dalle realtà individuali… aprirsi ad un progetto comune». L’esperienza interdecanale – prosegue il segretario del Collegio decani – potrebbe potenziare alcune realtà come gli sportelli-famiglia, i centri di ascolto, i centri di supporto per bambini violati e famiglie disagiate. Gli fa eco Oreste D’Amore, del Consiglio pastorale diocesano, quando, parlando della famiglia, auspica che nascano «Centri d’ascolto parrocchiali – meglio ancora decanali – non improvvisati, in rete tra loro, che possano servirsi di una serie di professionisti (medici, psicologi, mediatori familiari, avvocati…) per sostenere le persone in difficoltà».
Il vicario episcopale per la cultura, Adolfo Russo, rifacendosi al “giubileo per la città” del 2011, lo reputa «un’idea geniale», perché ha creato un collegamento fra Chiesa e città. Ha contribuito ad allargare gli orizzonti: «Non si trattava – ha affermato – di salvare la Chiesa, si trattava di salvare la città». Ma, per raggiungere questo obiettivo, occorre «formare una coscienza religiosa aperta alla città e responsabile del bene comune», perché «se la città va male, dipende anche dalla Chiesa, perché non ha educato i propri fedeli alla vita pubblica e civile».
Ecco, questo della formazione civica è un punto nevralgico sul quale resta ancora moltissimo da fare. In un gruppo di studio si è parlato di «un forte livello di irresponsabilità civica».
Ma è stata Giuliana Di Fiore dell’università “Federico II” a mettere esplicitamente a tema la delinquenza e l’illegalità. È vero – ha dichiarato la relatrice – che sono tanti i problemi che affliggono Napoli: disoccupazione specie giovanile, povertà e disagio economico, decrescita culturale, emigrazione, bassa scolarizzazione…, ma è anche vero (basta considerare il proliferare della criminalità ambientale, della minidelinquenza e delle baby gang) che «il completo ineluttabile disprezzo per le regole è ormai “socialmente” accettato». La Chiesa – a detta della relatrice – dovrebbe essere come una rabdomante, in grado di “sentire”, captare e finalizzare «quelle risorse di speranza sopita» in grado di ridurre quella frattura tra la gente e le istituzioni che a Napoli segna tristemente uno dei punti più alti.
Sì, cambiare si può, si legge nella sintesi di un gruppo di studio, iniziando «dal cuore delle persone, creando metodi e progetti per un forte annuncio evangelico che spinga le persone ad un vero e proprio cambiamento di vita».