Dopo Dar da mangiare agli affamati (2014) e Dar da bere agli assetati (2015), è arrivata la terza lettera pastorale dell’arcivescovo di Napoli, il card. Crescenzio Sepe, sulle opere di misericordia, dal titolo Vestire gli ignudi – Avvolgerli di tenerezza e dignità (16 luglio 2016).
Prima di affrontare specificamente il tema, il cardinale effettua un monitoraggio su quanto è avvenuto dopo la pubblicazione delle due precedenti lettere pastorali. Annota con soddisfazione che «sta prendendo sempre più piede la convinzione che nell’attività pastorale non possiamo non “pensare insieme, progettare insieme, agire insieme”». E l’elenco delle iniziative che hanno trovato buona condivisione sono davvero tante, dai centri di ascolto alla “farmacia solidale, dal servizio pasti e docce al sostegno alle famiglie dei detenuti, fino al progetto di un pozzo in Africa dopo la pubblicazione di Dar da bere agli assetati.
Cosa può significare oggi vestire chi è nudo? Significa imitare Dio che, fin dall’inizio, manifesta la sua «premurosa tenerezza… verso la creatura, che si scopre ignuda, confusa, minacciata di morte». Significa anche «entrare in contatto con il corpo dell’altro per poterlo decorosamente vestire» e con quella «interiorità personale, che necessita più di ogni altra cosa di custodia e difesa». Così una raccolta di abiti dismessi può trasformarsi «in una narrazione autentica di carità, in una celebrazione di pura gratuità».
“La famiglia è il vero abito, il primo tessuto di relazioni umane” è un titoletto della lettera pastorale sotto il quale si raccolgono interessanti riflessioni.
«Come Dio si è preoccupato di fasciare la nudità dei nostri progenitori nel giardino delle origini – scrive l’arcivescovo –, così la famiglia umana… si prende cura delle nostre nudità, delle nostre carenze, delle quotidiane fragilità. Chi non ha alle sue spalle la tenerezza e le premure di una famiglia, porta con sé una ferita non facilmente rimarginabile; è esposto ad una vulnerabilità maggiore degli altri; rimane in alcuni casi nudo per tutta la vita». Ecco perché le relazioni familiari autentiche sono «i fili di quel tessuto che indossiamo quotidianamente, più indispensabile di qualsiasi altro vestito, più utile di ogni stoffa preziosa».
«Conosciamo tutti – continua la lettera – le attuali criticità della famiglia. Essa stessa appare spesso “nuda” per la mancanza d’autorevolezza dei genitori; per difficoltà economiche che non mancano nel vivere quotidiano; per il prevalere di una logica individualista; spesso per una debolezza della stessa fede che dovrebbe sostenerla».
Anche alla città partenopea si rivolge il card. Sepe, perché non cada nel torpore dell’indifferenza e dell’individualismo. È vero che vestire l’altro «è un impegno delicato e gravoso». Ma il cristiano non deve dimenticare che, nel battesimo, è stato avvolto dalla misericordia di Dio. Vestendo chi è provato dalla nudità e dalla miseria, si diventa testimoni della misericordia divina: «È opera di misericordia cedere un vestito a chi ne è privo, una coperta a chi ha freddo». Spesso il disagio ha radici profonde che vanno intaccate: «Vestire gli ignudi non è una prassi per tranquillizzare le coscienze; al contrario, essa deve scuotere il nostro torpore e farci riflettere sulle cause della nudità, molte delle quali sono il frutto di una società poco umana e poco attenta ai bisogni dell’altro. Per risolverle non bastano gli abiti».
L’ultima parte della lettera segnala le priorità per questo anno pastorale.
- Sobrietà e condivisione. Quanto alla sobrietà, l’arcivescovo di Napoli scrive: «Abbiamo sempre più vestiti di quanti ce ne occorrono. A partire da questo, si potranno proporre stili di vita improntati alla sobrietà, favorire la cultura del riuso e del riciclo, coinvolgere negozianti disponibili in una rete di solidarietà. Nel nostro contesto sociale vestire gli ignudi comporta talvolta porre un freno all’ostentazione, esercitare il senso della misura che è proprio della vera eleganza e non è mai irriverente».
Quanto alla condivisione, egli richiama che «in tutte le parrocchie ci sono anziani, soli o malati, che hanno meno bisogno dell’abito, quanto di qualcuno che li aiuti a vestirsi e magari a lavarsi. Il volontariato trova qui un vasto campo di solidarietà e di vicinanza umana. Non tutti possono permettersi delle badanti». - Rivestire i poveri della loro dignità. Qui il tema principale sono gli immigrati: «Dobbiamo considerare che le nostre città oggi sono abitate da numerosi immigrati, scampati il più delle volte a situazioni di guerra e di estrema indigenza. È gente spogliata di tutto! Si tratta spesso di donne sfruttate, violentate, umiliate, che chiedono vestiti, pane e lavoro, ma necessitano soprattutto di essere protette nella loro inviolabile fierezza di donne, di essere rispettate come tutti noi. Qui si annida la nudità più terribile. Sappiamo che pure loro sono carne di Cristo, una carne che chiede di essere rivestita di vita e di bellezza, come un fiore colto tra gli scarti».
- Cittadinanza responsabile. In questo passaggio il porporato fa appello alla responsabilità di tutti, rivendicando alla Chiesa partenopea un costante impegno nel far fronte al disagio sociale, tanto da affermare che la storia della Chiesa di Napoli «è una vera “storia della carità”». Ma ora – aggiunge l’arcivescovo – «è necessario puntare ad una forma più alta di carità, quella che, attraverso l’impegno sociopolitico, mira ad intervenire sulle cause del degrado e mira al bene comune, agli interessi generali della città».
- Attenzione al lavoro. «Una delle più tragiche nudità del nostro popolo è, oggi, quella derivante dalla mancanza di lavoro». Il card. Sepe annuncia che «nel prossimo anno pastorale, sulla carenza del lavoro e sulle sue gravi conseguenze di ordine morale e sociale, intendiamo accendere i riflettori di tutte le Chiese del Sud», perché questa emergenza «rischia di affossare ogni tentativo di riscatto sociale».
Chiaro, corposo e coraggioso questo programma pastorale. Fattibili e concrete le proposte suggerite a tutte le comunità cristiane e ai cittadini più sensibili e responsabili.