Una singolare ed efficace intuizione teologica alimenta l’impostazione di AL: attraverso un’accurata riflessione sulla delicatezza del rapporto tra “legge generale” e “caso particolare”, si riscopre la centralità del “discernimento”, che richiede l’arte dell’incontrare, dell’accompagnare, ma anche la lucidità del distinguere e dell’integrare.
Tutto questo, si deve notare, non riguarda semplicemente i “casi particolari”, o i “casi limite” sui quali si affigge l’attenzione dei più, ma ambisce ad essere principio generale di vita cristiana, ossia di “ascolto della Parola”, di “esperienza sacramentale” di “testimonianza ecclesiale” e di “rapporto con il mondo”. Tutto intero lo spettro della esperienza cristiana – che il Concilio Vaticano II ha raccolto nelle sue 4 grandi costituzioni – appare riscoperto nella sua importanza dal riemergere chiarissimo nel testo di Francesco di questo “criterio fondamentale”. Né la Parola di Dio, né il sacramento celebrato, né la vita ecclesiale, né il rapporto con il mondo si lasciano comprendere semplicemente sulla base di una “oggettività” che si impone sul soggetto, di una “autorità” che si impone sulla libertà.
Come ha detto bene il Padre H. Legrand, esperto ecclesiologo francese, questo documento è espressione non solo del papa, ma del Sinodo dei vescovi e per questo attesta una svolta ancora più significativa: «Vi si ritrova, come nel Vaticano II, il primato del Vangelo sulle norme».
Ora, queste acquisizioni, di grande rilievo, e che rappresentano un “conversione e autolimitazione del magistero papale”, con una ripresa potente del magistero episcopale, conducono a una serie di conseguenze pastorali e canoniche di assoluto rilievo e sulle quali dovremo lavorare nei prossimi mesi ed anni. Provo qui ad elencarle:
a) Dare forma “esterna” al “foro interno”
Nella recezione del dettato di AL occorre chiarire un primo punto delicato: la sottolineatura del “foro interno” – che è essenzialmente “per differenza” dal “foro esterno”, ossia dal giudizio mediato da una procedura giudiziaria – non significa affatto definire una sua marginalità rispetto alla “forma” pastorale e canonica. Se leggiamo il testo che risulta più esplicito al proposito nella esortazione apostolica, possiamo trarne una serie di caratteristiche preziose:
«Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che “orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. Familiaris consortio 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa”» (AL 300)
È evidente che “foro interno” non nega, ma anzi afferma:
- il carattere di “itinerario” che la conversione assume, con elementi di ascolto della Parola, di riscoperta della preghiera, di partecipazione alla celebrazione (a parti e progressivamente alla sua integralità), di recupero di logiche gratuite, caritative, generose;
- i “passi” che fanno crescere la partecipazione alla vita della Chiesa;
- la accresciuta coscienza delle esigenze di verità, ma anche le forme del comportamento che la comunione richiede (umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa…).
b) Ridare spessore al primato del tempo sullo spazio: necessità di itinerari e accompagnamento
Bisogna considerare che il grande principio che brilla già in Evangelii gaudium e che ora è ripreso in AL (il primato del tempo sullo spazio) introduce una “variabile temporale della comunione” che rappresenta non solo una grande risorsa per la pastorale (b), ma anche un principio ermeneutico decisivo per la rilettura della tradizione canonica (c). Iniziamo a considerare qui il primo di questi due “effetti”.
La pastorale diviene “luogo di elaborazione della comunione”. Questo, ovviamente, non è nulla di nuovo. Ma la novità consiste nell’aver liberato la pastorale dalla “ossessione di una conformità immediata alla comunione”. Con una mentalità giuridica tardo-moderna, la verifica della comunione veniva pensata e concepita solo “nello spazio”, e quindi “fuori dal tempo”. Questo procedimento aveva due conseguenze deleterie:
- paralizzava la pastorale, che non aveva più alcun margine di movimento autorevole rispetto alla “legge generale e astratta”;
- trasformava facilmente la dottrina in pietra, e non in pane, perché non solo poteva, ma doveva prescindere dalla relazione.
Dietro a questo sviluppo opportuno promosso da AL possiamo scoprire anche il trasformarsi della comprensione del valore della norma rispetto alla vita. La lettura “soltanto pedagogica” della norma era divenuta principio di incomprensione dell’esperienza. Le norme mantengono sempre un innegabile valore pedagogico, ma non si esauriscono in esso: esse sono sempre anche forme di “riconoscimento della realtà”, della sua “meravigliosa complicatezza”, sempre più complessa e ricca del valore che al suo interno occorre incoraggiare e difendere in modo oggettivo.
In tal modo possiamo scoprire che il dischiudersi di uno “spazio di ricostruzione di una possibile comunione” mette in gioco non solo le coscienze, ma le forme dell’ascolto reciproco, della mediazione, della elaborazione del lutto e della memoria. Sono, di fatto, “itinerari” in cui si esercita l’esame di coscienza, la penitenza e la ripresa delle virtù. Cammini temporali di nuova iniziazione alla comunione, mediati dalla parola ascoltata, pregata, meditata, praticata.
c) Recuperare la distinzione tra “seconde nozze” e “adulterio”
Il secondo versante interessato da questo sviluppo è precisamente il versante strettamente “canonico”. È evidente, infatti, che la nuova “abnegazione pastorale”, se deve superare la tentazione di “auto-negazione pastorale”, alla quale spesso ci eravamo ormai rassegnati, deve trovare “sponda” in una nuova coscienza giuridica e canonica, che non preveda di “sequestrare l’intero orizzonte” della questione. Si noti che proprio questo era formalmente – e rimane praticamente – un ostacolo di non piccola entità. Cerco di presentarlo nel modo più chiaro possibile, in tre passi:
Dove eravamo rimasti fermi?
La disciplina anche successiva a Familiaris consortio continuava a proporre una identificazione immediata e diretta tra “seconde nozze” e “adulterio”. La condizione di “scomunica sacramentale” poteva essere superata solo o dalla “nullità delle prime nozze” o dalla “riduzione al nulla delle seconde”. Il criterio della “oggettività” costituiva il criterio decisivo, di fronte al quale la “coscienza” e il “tempo” non avevano alcuna autorità, né secondo Familiaris consortio, né secondo la lettera Annus internationalis familiae, della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1994, né secondo la Dichiarazione circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati che il Pontificio consiglio per i testi legislativi aveva pubblicato il 24 giugno 2000. Mentre FC e la lettera della Congregazione sono di fatto superate dalla approvazione di AL, occorre aggiornare quest’ultima autorevole dichiarazione, che dal 19 marzo si trova in aperto contrasto con il dettato di AL. Essa infatti proponeva una interpretazione del can. 915 del Codice di diritto canonico. Detto canone recita: «Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto».
L’interpretazione fornita dalla Dichiarazione intendeva spiegare che il canone, nella sua seconda parte, doveva essere applicato alla condizione dei “divorziati risposati” e che, se di discernimento si doveva parlare, lo si doveva applicare non per integrare, ma per escludere. Si parlava infatti – letteralmente – di «discernimento dei casi di esclusione dalla comunione eucaristica dei fedeli, che si trovino nella descritta condizione».
D’altra parte la condizione dei divorziati risposati è compresa con queste parole pesantissime: «Ricevere il corpo di Cristo essendo pubblicamente indegno costituisce un danno oggettivo per la comunione ecclesiale; è un comportamento che attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli a vivere in coerenza con le esigenze di quella comunione. Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra comunione dei fedeli divorziati risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male, riguarda nel contempo il sacramento dell’eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio. Tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli».
Il testo permetteva soltanto le eccezioni previste, quasi 20 anni prima, da Familiaris consortio, ma era evidente come continuasse a pensare i “divorziati risposati” con la categoria classica di “infami”. Si deve notare, inoltre, che la argomentazione messa in campo utilizzava il “luogo comune” della “mancanza di autorità” della Chiesa di fronte ad una “legge divina”: «La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa».
Dove sta la novità?
In AL leggiamo, a chiare lettere, una comprensione nuova e una prospettiva che si libera da una concezione “solo pedagogica” della legge. Il testo di papa Francesco, infatti, esercita l’autorità, con piena coscienza e con grande equilibrio, intervenendo sull’interpretazione della tradizione e – a fortiori – del canone 915. Si legge, infatti, in AL 310: «Per comprendere in modo adeguato perché è possibile e necessario un discernimento speciale in alcune situazioni dette irregolari, c’è una questione di cui si deve sempre tenere conto, in modo che mai si pensi che si pretenda di ridurre le esigenze del Vangelo. La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta irregolare vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”».
Questa formulazione fa saltare l’automatismo oggettivo e normativo, che identifica “situazione irregolare” e “peccato mortale”. In qualche modo non identifica più – in generale e necessariamente – il “divorziato risposato” con l’“adultero”. Ma questo, per di più, corrisponde a un “principio generale” che viene espresso così: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l‘agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (AL 304).
Quali conseguenze “canoniche”?
Se AL supera sul piano formale l’autorità di pronunciamenti precedenti – e sarebbe contraddittorio pensare che debba essere AL ad essere corretta da FC e non viceversa – occorre oggi adeguare anche i principi di una “ermeneutica giuridica” che potrebbe, da oggi, ostacolare la traduzione pastorale del nuovo principio. Mi riferisco, in modo particolare, alla citata “interpretazione autorevole” che il Pontificio consiglio per la interpretazione dei testi legislativi aveva dato del canone 915.
Dal 19 marzo il criterio di interpretazione del canone 915 è mutato, almeno per quanto riguarda la sua applicabilità al caso di “seconde nozze”. Tale caso deve essere valutato con una forma nuova di discernimento. Mentre prima il discernimento era inteso solo “ad excludendum”, ora, invece, il discernimento sta nell’orizzonte di una scelta complessiva ispirata alla luce della misericordia e alla via caritatis: «due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione» (AL 295).
Di qui discende un compito urgente: occorre quanto prima offrire un’interpretazione aggiornata e illuminata del can 915 e della sua applicabilità al caso dei “divorziati risposati”. L’applicabilità sussiste ovviamente anche oggi, come ribadisce anche AL, ma a condizioni profondamente rinnovate e con uno stile e un linguaggio da adeguare alla nuova visione, che non può più autorizzare le espressioni inadeguate, rozze e irrispettose del testo interpretativo del 2000.
d) La profezia del Vescovo-avvocato J.-P. Vesco, allievo di S. Tommaso
S. Tommaso si chiedeva se fosse giusto che la legge civile dovesse perseguire tutti i vizi. E rispondeva di no. Una certa “differenza” tra diritto e morale era percepita, nella Chiesa medievale, come una felice necessità. La Chiesa moderna, per diverse ragioni, ha potuto trasformare la propria visione, inclinando, non di rado, verso un certo massimalismo. Che ha assunto, soprattutto nell’ultimo secolo, un volto ufficiale, soprattutto a partire dal Codex del 1917. Se non esiste alcuna “distinzione possibile” tra contratto e sacramento, questa sovrapposizione immediata uccide ogni possibile discernimento, preclude lo stesso ragionamento sia sul “male minore”, sia sul “bene possibile”. La estensione del concetto di “intrinsece malum” – che ha assunto un ruolo assai forte a partire da Veritatis splendor (1993) – permette di ridurre il potere della Chiesa e quindi di escludere tutte le mediazioni possibili. Trasforma ogni mediazione concreta in “disobbedienza alla legge universale e astratta”, ma in tal modo ottiene l’effetto di assolutizzare le mediazioni classiche, pretendendo così di renderle immutabili. E confonde la fedeltà con la rigidità.
Ora Francesco – non da solo, ma in comunione con il Sinodo dei vescovi – ci riconduce ad una logica più complessa e più ricca: non accetta più che la logica massimalistica – per la quale vale solo il bene massimo garantito dalla norma generale e astratta – sia l’unica via coerente con la fede e con la comunione ecclesiale. Anzi, mostra quanto rischiosa sia questa convinzione.
La strada intrapresa era stata additata, sia pure con linguaggio diverso, dal Vescovo di Oran, J.-P. Vesco. Egli aveva sollecitato la Chiesa a «rivedere la categoria del reato di adulterio». Egli sosteneva che da reato continuato l’adulterio dovesse essere considerato reato istantaneo. Di fatto, con AL, possiamo dire che la “svolta pastorale” ha operato, indirettamente, questa nuova ermeneutica del concetto giuridico. Nel suo bel testo – Ogni amore vero è indissolubile – Vesco sosteneva che un serio confronto tra la tradizione cristiana e le forme di vita contemporanee imponeva un ripensamento del rapporto tra “seconde nozze” e “adulterio”. Ma questo neppure in Vesco si basava su una nuova descrizione delle patologie bisognosa di cura, quanto su una rinnovata comprensione della fisiologia dell’amore, come esperienza originaria di un “legame per sempre”: anche per Vesco, come per Francesco, è una nuova ermeneutica non giuridica della fisiologia del matrimonio che permette di pensare, con fedele libertà, i rimedi migliori per le sue vecchie e nuove patologie.
Pubblicato il 11 aprile 2016 nel blog: Come se non