A proposito della giustizia riparativa

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salute mentale

Punire. Un verbo drammatico che da sempre cerchiamo di reinventare. Un fenomeno diffuso nei contesti più svariati (giuridico, morale, religioso ecc.). Un tema controverso che oggi più che mai è caratterizzato da incertezze e contraddizioni. Poiché la punizione è una pratica presente quasi ovunque, con forme di manifestazione variegate, ciascuno di noi quasi certamente – in qualche fase della nostra vita – ne ha fatto esperienza.

Punire è ancora efficace?

Se negli ultimi decenni ha prevalso una tendenza antiautoritaria e anti-repressiva, incline a contestarne l’utilità anche in campo educativo, il populismo politico contemporaneo ha alimentato pulsioni collettive, favorevoli a una concezione emotiva della punizione come vendetta pubblica. Ciò in totale contraddizione con quella «crisi della pena» che i giuristi non si stancano di ricordare, e con quella finalità educativa che ne connota la visione costituzionale.

L’urgenza di modalità alternative alla punizione è uno dei nodi più drammatici del vivere morale e civile. Diamo per scontate le prassi punitive, anche se non sempre siamo in condizione di comprendere con facilità se certe reazioni abbiano un significato punitivo. Questa incertezza può affiorare tanto nella dimensione giuridica, quanto extragiuridica della punizione. Del resto, il punire è un fenomeno socio-giuridico così complesso e polivalente da richiedere, per una sua comprensione non superficiale, un approccio a carattere multidisciplinare.

Nell’attuale momento storico, si registrano due opposte tendenze di fondo:

  • una contingente deriva punitivista, figlia del populismo politico che tende a canalizzare in chiave repressivo-ritorsiva sentimenti di rabbia, indignazione, risentimento e frustrazione diffusi nei diversi settori sociali. Così parla il sentimento nella sua forma primitiva, quando è lasciato allo stato puro, nell’assoluta assenza di quel regolatore delle passioni che si chiama ragione. Al regime della ragione l’umanità è giunta con molto ritardo nel corso della sua storia, dopo aver visto nelle culture più avanzate, la greca e l’ebraica, gli effetti devastanti della vendetta, così ben illustrati nella cultura greca dalla tragedia e nella cultura ebraica da quell’occhio per occhio, dente per dente, vita per vita, che non faceva fare un solo passo avanti verso la pacificazione;
  • un’accresciuta consapevolezza che le forme di tradizionali di pena forniscono una risposta sempre meno adeguata e soddisfacente in termini sia di giustizia sia di efficace contrasto alla criminalità. Proprio la sopravvenuta sfiducia derivante dall’attuale disincanto verso le consuete modalità punitive (in particolare la pena carceraria), contribuiscono a spiegare il rinnovato interesse – rinnovato perché la dimensione riparatoria è tutt’altro che inedita – che su più versanti (scientifico, dottrinale, socioculturale, politico-legislativo e giurisprudenziale), suscita, oggi, la prospettiva della riparazione, sia secondo approcci che tendono a combinare insieme punizione e riparazione, così da orientare in senso riparatorio anche la pena, sia secondo quel modello di «giustizia riparativa» in senso stretto (restorative justice), di cui costituisce principale strumento la mediazione.
La restorative justice

Da qui, l’attuale ricerca da parte di giuristi e legislatori di tipi di risposte al reato diverse dalle pene in senso stretto. Non si tratta però di novità. Anzi, a nostro avviso, inizialmente, prima che si affermasse lo Stato in senso moderno (creatura ottocentesca), prevalevano modelli di giustizia di comunità.

Ciò è evidente nelle realtà americane (del Nord e del Sudamerica) dove le popolazioni indigene sopravvissute si affidano tuttora a una giustizia di comunità per regolare i loro conflitti. È l’avvento dello Stato moderno ad aver imposto la prevalenza della giustizia amministrata in suo nome (specie nel campo penale).

Già nelle Scritture veterotestamentarie erano previste, per il ristabilimento della giustizia, due procedure: il giudizio (mishpat), che tende alla condanna del trasgressore, e la la lite bilaterale (riv), che mira alla riconciliazione tra colpevole e offeso e può, nella sostanza, essere considerata una delle anticipazioni più risalenti della mediazione penale[1].

La restorative justice rispecchia un modello di giustizia che ambisce differenziarsi dalla giustizia punitiva: nel suo orizzonte, la riparazione non si combina con la punizione e non si combina perché intende essere altra cosa, cioè una reazione al reato priva di significato ed effetti punitivi (quanto meno intesi nell’accezione tradizionale).

Si tratta di un modello di giustizia affascinante e potenzialmente promettente, ma si illuderebbe chi immaginasse di poterne utilizzare gli strumenti (a cominciare della c.d. mediazione penale, il suo principale strumento) come bacchette magiche, rimedi miracolistici atti a curare tutti i mali che da anni attribuiamo alla giustizia penale.

Anche perché ci troviamo dinnanzi a un nodo problematico, nel quale è ravvisabile un paradosso: la possibilità di conciliare senza frizioni l’alterità della giustizia riparativa (rispetto alla giustizia penale) con la tendenza compromissoria a prevederne l’utilizzo non in forma autonoma e indipendente, ma pur sempre in connessione con il processo penale, attribuendo a essa una funzione integrativa o complementare rispetto a quest’ultimo.

Di conseguenza, vi è da chiedersi se questo rapporto di interazione tra i due modelli di giustizia sfoci in un compromesso virtuoso o, al contrario, rischi di snaturare od offuscare l’identità della giustizia riparativa, finendo col conferirle tratti para o cripto punitivi. È un interrogativo, questo, cui può dare risposta soprattutto la concreta prassi applicativa, benché ampi margini di ambiguità siano inevitabili, non fosse altro perché conta in merito anche il tipo di percezione soggettiva delle persone coinvolte nei procedimenti meditativi.

Mediazione penale

Considerata specie in certe sue matrici religioso-comunitariste, la restorative justice persegue un obiettivo che va oltre la mera riparazione delle conseguenze dannose del crimine: tende, infatti, anche al recupero della relazione interpersonale tra offensore e offeso, e/o alla ricostituzione di un legame fiduciario con la comunità.

Da questo punto di vista, si comprende allora come il suo principale strumento sia la mediazione penale, cioè un processo di interazione comunicativa tra autore e vittima, gestito da un terzo imparziale diverso dal giudice e finalizzato a:

1) far dialogare le parti contrapposte, così da mettere ciascuna in condizione di potere comprendere le ragioni dell’altra;

2) dare ascolto alle esigenze della vittima e, allo stesso tempo, responsabilizzare il colpevole[2], inducendolo a rendersi conto delle sofferenze causate con l’atto illecito;

3) promuovere accordi a carattere riparatorio;

4) tendere alla riconciliazione tra offeso e offensore e/o alla ricostruzione dei legami con la comunità[3].

Le principali direttrici

La giustizia riparativa ha fatto il suo ingresso ufficiale nell’ordinamento italiano grazie alla recente riforma Cartabia, nel cui ambito essa è stata fatta oggetto di una disciplina organica (d.lgs. n. 150/2022). Rinviando alla lettura specialistica per un’esposizione particolareggiata di tale disciplina, qui basta accennare le principali direttrici.

Premesso che essa nel contenuto si uniforma ampiamente alle preesistenti fonti normative internazionali e sovranazionali, i primi punti importanti da evidenziare sono i seguenti:

  • l’accesso alla giustizia riparativa è concepito come complementare (e non sostitutivo) rispetto alla giustizia penale convenzionale;
  • il ricorso ai suoi strumenti, definiti «programmi», è potenzialmente ammesso in relazione a ogni tipo di reato, a prescindere dalla sua gravità;
  • la giustizia riparativa è percorribile in ogni stato e grado del procedimento, e nella fase esecutiva della pena.

A informare senza ritardo in merito alla facoltà di accedere alla giustizia riparativa è l’autorità giudiziaria, e gli autori e le vittime interessate a fruirne debbono manifestare in proposito un consenso personale, volontario ed espresso in forma scritta. È previsto pure che possa essere il giudice di sua iniziativa a proporre alle parti un percorso di giustizia riparativa, ma queste devono in ogni caso esprimere un corrispondente assenso.

Tra le vittime potenzialmente incluse nello svolgimento delle procedure riparative rientra anche la vittima «surrogata o aspecifica», vale a dire la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede. Questa inclusione estensiva si spiega considerando che le vittime effettive avvertono, non di rado, forti resistenze a entrare in contatto con gli offensori.

Quanto ai programmi (strumenti) utilizzabili, sono menzionati:

  • la mediazione tra autore e vittima;
  • il dialogo riparativo;
  • ogni altro programma dialogico guidato da mediatori.

Quando un programma si conclude positivamente, cioè con un effettivo risultato riparatorio, quest’ultimo può essere «simbolico» (dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi) o «materiale» (risarcimento del danno, restituzioni, adoperarsi per elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che il reato sia portato a conseguenze ulteriori).

«Riuscito esito riparativo»: cosa si deve intendere con questo lemma? La disciplina organica lo definisce così: «Qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti».

Siamo di fronte a definizioni generiche e che presumono una visione relazionale del reato[4].

La mediazione penale se ben riuscita, potrà risultare idonea a soddisfare le esigenze materiali e morali della vittima, e l’autore del reato potrà beneficiare di una mitigazione del trattamento sanzionatorio.

Un percorso con esito ancora incerto

Rinviando ad altre sedi osservazioni tecniche e rilievi critici, è possibile affermare che l’ascesa della giustizia riparativa appare come riflesso di tendenze politiche neoliberiste e conseguente propensione alla privatizzazione delle strategie di gestione della criminalità. Nondimeno, tendiamo a escludere che la giustizia riparativa abbia una sola identità ideologica o che esista una sua connessione univoca con ben identificabili tendenze generali di fondo del sistema politico e del sistema economico.

È vero che l’iniziale valorizzazione della restorative justice circa un quarantennio fa ha avuto un’ispirazione prevalentemente comunitarista di matrice religiosa, e che ha come obiettivo sottrare i conflitti criminosi alla gestione formale e burocratica dei tribunali per restituirla alla comunità e alle persone concretamente coinvolte dalle azioni criminali.

Ma è altrettanto vero, tuttavia, che a questa originaria ispirazione si sono aggiunte motivazioni di segno diverso (come il ricorso alla mediazione penale su una critica radicale «da sinistra» alla giustizia ufficiale borghese, per cui la mediazione è stata considerata un’opportunità a carattere emancipativo; l’utilizzo della mediazione penale a scopi di deflazione ecc.).

In presenza di tipologie di possibili impieghi così diversamente motivate, quel che dunque emerge è che la giustizia riparativa può risultare funzionale a obiettivi politico-culturali e finalità pratiche polivalenti, per cui da questo punto di vista sembra le sia connaturata una certa ambiguità ideologica.

Pertanto, molto dipenderà:

1) in primo luogo, dalle risorse economiche disponibili per formare e pagare i mediatori. Alcune realtà regionali (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna) sono già attrezzate al riguardo, potendo contare su ampie reti di volontariato ed essendo, di fatto, piuttosto «benestanti»;

2) in secondo luogo, dal modello di disciplina adottato di volta in volta per regolamentarla, dalle caratteristiche identitarie e dallo stato di salute del sistema punitivo col quale essa è destinata a interagire, dal contesto e dalle modalità concrete della sua utilizzazione, dal tipo e livello di competenza professionale dei mediatori, e dalle aspettative e dagli orientamenti personali degli autori e delle vittime disposte a sperimentarle.

Saranno i fatti a svelarci nel tempo se il modello di interazione tra giustizia punitiva e giustizia riparativa concepito dalla riforma Cartabia rifletta un compromesso virtuoso ed efficace o un’altra illusione penologica.

Nondimeno, poiché il contenimento razionale del sentimento è esattamente quel che chiamiamo cultura e civiltà, allora è necessario che la politica investa in strutture che diffondono istruzione e socializzazione: nella scuola, nel cinema, nei luoghi di ritrovo e di socializzazione, nei punti di incontro e di scambio di idee, dove la vendetta non è ospitata, perché da subito appare come il passato remoto di una storia.

E tutto questo bisogna farlo alla svelta, perché non si migliora il tasso di convivenza cambiando la fontana in piazza Duomo a ogni cambio di giunta comunale, ma offrendo occasioni e strutture concrete di processi educativi e di socializzazione alle periferie che, quando sono lasciate a sé stesse, significa che gli abitanti sono lasciati a sé stessi.

E quando un uomo è lasciato a sé stesso si fida di più dei suoi sentimenti, anche i più primitivi come il sentimento della vendetta, di quanto non si fidi della ragione che può farsi strada solo quando le condizioni minime di convivenza sono garantite.

Bruna Capparelli è professoressa associata di Diritto e procedura penale presso l’Università di Bologna. È membro della Unione Giuristi Cattolici Italiani (sezione di Bologna).


[1] Per approfondire: G. Bella, «Pena e riconciliazione nel mondo biblico», in G. Fiandaca e C. Visconti (a cura di), Punire mediare conciliare. Dalla giustizia penale internazionale all’elaborazione dei conflitti individuali, Giappichelli, 2009, p. 73 s.

[2] A detta della psicanalista francese Catherine Ternynck la rimozione della coscienza del male è una delle cause di maggior sofferenza della psiche contemporanea.  Per questo poi l’uomo contemporaneo è “de-moralizzato”, triste perché privo di un pensiero morale, una coscienza del bene e del male: se il «gesto è negato» come è possibile che mi senta in colpa? L’uomo de-moralizzato vuole una coscienza levigata, senza ferite: un effetto-wow interiore costante. Era quello che pretendeva anche il protagonista di Delitto e castigo, convinto di poter compiere un omicidio senza essere e sentirsi colpevole, salvo poi scoprire che il maggior castigo di un male compiuto è proprio l’averlo compiuto. Il suo “mal-essere” lo porta a confessare, perché confessare è prendere le distanze dal male: in quanto autori dell’atto ci riconosciamo “di più” del male-fatto. I guai cominciano quando pretendiamo di sentirci innocenti, perché il male, privato di oggettività e rimosso, si nasconde e si tramuta in patologie e nevrosi, con il suo fastidioso e persistente sintomo: il senso di colpa, un senso di depressione senza una depressione effettiva. La cancellazione del male non riesce a eliminare anche il senso di colpa che, ci piaccia o no, ha un ruolo centrale nel definire la nostra identità.

[3] Per esemplificare il tipo di possibili motivazioni sottese alla scelta di un percorso riparativo, ricordiamo come l’esigenza riparativa è innanzitutto povertà di appartenenza (qualità delle relazioni). Chi non appartiene a nessuno non può poi essere per nessuno, il vuoto dell’origine impedisce di essere originali, senza radici non può maturare il frutto che solo noi possiamo dare (le dipendenze sono una risposta all’inappartenenza: quando non si appartiene a qualcuno non resta che appartenere a qualcosa).  Si vive più “a lungo” solo quando si vive più “in largo” o “in profondità”.

[4] Nondimeno, non tutti i reati comportano la rottura di relazioni umane preesistenti, ed è verosimile dubitare che un mediatore possa ragionevolmente valutare come esito mancato l’eventuale stipula di seri accordi a contenuto riparatorio, se non accompagnata da un’ulteriore attenzione alla dimensione relazionale. Non è questa la sede adatta per rilievi critiche in merito alla ispirazione umanista della riforma Cartabia, né tanto meno per sollevare dubbi di legittimità costituzionale del decreto (ad esempio, rispetto al principio di rieducazione, nella sua accezione laica, tenuto conto del contemporaneo pluralismo politico-ideologico, culturale e morale: un autore di reato di orientamento ideologico liberale-individualistico potrebbe rimanere indifferente rispetto alla prospettiva di entrare in sintonia con la vittima in carne e ossa, ma potrebbe nondimeno essere disposto a compiere prestazioni riparatorie volte a neutralizzare le conseguenze del reato commesso).

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