Quali resistenze e quali segnali sono intuibili dietro l’ultimo motu proprio di papa Francesco in ordine agli abusi del clero e delle figure ecclesiali? «Come una madre amorevole»: il titolo e il tono del documento (pubblicato il 4 giugno) riafferma l’ormai lunga stagione del magistero in ordine alla difesa dei «piccoli e degli indifesi». Oggetto specifico dei cinque articoli che lo compongono sono i pastori, in questo caso i vescovi, gli eparchi e i diversi «ordinari» nella Chiesa (superiori maggiori dei religiosi). Nei loro confronti si prevede la possibilità di rimozione dall’ufficio quando fosse acclarata la negligenza in ordine alla tutela sui minori o adulti vulnerabili.
La disposizione costituisce una specificazione della norma già contenuta nel codice di diritto sia latino sia orientale che prevede la rimozione dei vescovi e ordinari quando abbiano posto o omesso «atti che abbiano provocato un danno grave ad altri, sia che si tratti di persone fisiche, sia che si tratti di una comunità nel suo insieme. Il danno può essere fisico, morale, spirituale o patrimoniale». La mancata diligenza su quanti si macchiano di abusi e a fronte di seri indizi giustifica l’intervento delle congregazioni romane e l’avvio di un’indagine. Poiché non si tratta di “delitti”, ma di negligenza il riferimento non è la Congregazione per la dottrina della fede, ma le rispettive congregazioni di riferimento: cioè quella dei vescovi, quella di Propaganda fide (per i territori di missione), delle Chiese orientali e della vita consacrata.
Possibile il coinvolgimento delle conferenze episcopali o dei sinodi delle Chiese sui iuris, ma l’organo decisionale sono i componenti delle Congregazioni (cardinali e vescovi) riuniti in assemblea ordinaria. Se la rimozione è ritenuta opportuna vi può essere un decreto immediato o l’invito perentorio a presentare le dimissioni. La decisione è in ogni caso sottomessa all’approvazione specifica del papa, assistito da un apposito collegio.
Fra le novità del testo vi è il passaggio dalla mancanza «molto grave» della negligenza (per tutti i casi ricordati) alla «negligenza grave» per gli abusi, il coinvolgimento possibile delle conferenze episcopali e dei sinodi, il collegio di cui si servirà il papa, composto da cardinali e vescovi.
Le disposizioni si collocano in un lungo percorso giuridico e pastorale espresso sin dal Codice del 1917 relativamente alla pratica omosessuale dei chierici, ma, più direttamente, alla discussione avviata nel 1997 sui delitti gravi indicati dal Codice del 1983. Le prime denunce (Canada, Usa) risalgono alla fine degli anni ’80 ed esplodono con crescente violenza negli anni ’90 e nel primo decennio del secolo. Nel motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela del 2001 viene espressamente condannata la violenza sessuale su minori (fino a 18 anni). Fra il 2002 e il 2003 sono concesse facoltà specifiche per trattare i casi di abuso. E nel 2010 un nuovo motu proprio di Benedetto XVI dà forma organica alla legislazione: la prescrizione viene allungata fino a 20 anni e si censura anche l’acquisizione, il possesso e la distribuzione di pornografia minorile, indicando la Congregazione per la dottrina della fede come dicastero di riferimento. Nel frattempo tutti gli episcopati sono sollecitati a stendere linee guida per intervenire in merito, si abbreviano i tempi del giudizio e si promulga una legge per la Città del Vaticano per il reato di abuso sui minori. Le denunce formali raggiungono il loro massimo nel 2004 (800) e poi tendono a stabilizzarsi in circa 5-600 casi all’anno. Fra il 2011 e il 2012 sono 400 i dimessi dallo stato clericale. Si vanno moltiplicando nei vari contesti nazionali le procedure di comportamento, l’indicazione di un’autorità interna o indipendente, la facilitazione per le denunce e i risarcimenti. Nel 2014 prende forma la Commissione per la tutela dei minori il cui compito è di assistere tutti i responsabili «attraverso il reciproco scambio di “prassi virtuose” e di programmi di educazione, formazione e istruzione». Ai vescovi è richiesta una più precisa assunzione di responsabilità di cui il recente motu proprio è l’esito disciplinare e giuridico.
Per quanto riguarda l’Italia le linee guida sono state pubblicate nel 2012 e, due anni dopo, modificate e riedite. I vescovi italiani, in ragione della Codice penale e della tradizione giuridica romana, non hanno mai accettato l’obbligo di denuncia ai tribunali civili, anche se hanno mostrato collaborazione ai processi civili. Così non hanno ritenuto opportuna un’autorità nazionale di riferimento e, tantomeno, un’autorità indipendente. Va detto anche che, per quanto riguarda il nostro paese, le denunce di abusi e violenze sessuali su minori non hanno superato il limite critico come è successo in passato per molti paesi (dagli Usa alla Gran Bretagna, dall’Olanda alla Germania, dall’Austria al Belgio ecc.) e, più recentemente, in Francia.
Le diposizioni normative di papa Francesco mostrano la continuità della “tolleranza zero” avviata con coraggio da Benedetto XVI e mostrano come la Chiesa cattolica sia una delle poche istituzioni internazionali a cambiare registro sulla questione. Le accuse scontate e prevedibili come quelle espresse dal Comitato dei diritti del bambino dell’ONU (febbraio 2015) non hanno fondamento. Ciò non significa che manchino significative resistenze interne. Non solo da parte di una mentalità clericale che si chiude a difesa della “casta”, o di ambienti culturali (come l’Africa) che rimuovono il problema o di altri (come l’Est Europa) che non sono sollecitati dalle opinioni pubbliche ed ecclesiali locali, ma anche da parte dei vescovi che vedono messo in difficoltà l’esercizio di una paternità non facilmente declinabile con il rigore della censura e della condanna. Vi è chi intravede nelle rigidità normative una sorta di cedimento allo spirito del tempo e indica l’apparire di una nuova figura: la vittima delle vittime, cioè la consegna di “non redimibilità” per quanti si macchiano della colpa di abusi.
In ogni caso siamo alla soglia di una svolta di mentalità nella Chiesa. Non solo nella priorità riconosciuta alle vittime, nella denuncia, nell’interpretazione e accompagnamento dei preti e religiosi abusanti, ma anche nello stile e comunicazione e trasparenza da promuovere. Il disagio e l’errore del prete o del religioso non è solo personale, ma è dentro un sistema di relazioni. Esso richiede l’esercizio di una paternità responsabile da parte dei superiori e dei vescovi. Il celibato è comprensibile e vivibile dentro una ricca rete di relazioni umanamente sane e le forme irregolari e abusanti vanno riconosciute prima e comunque non nascoste.