La recente sentenza della Corte di Cassazione sul ricorso di un sikh condannato dal tribunale di Mantova a una pena pecuniaria di 2 mila euro per non motivato porto del kirpan in luogo pubblico, ha fatto discutere ma soprattutto applaudire (cf. Da noi il “kirpan” è proibito).
I più hanno manifestato particolare gradimento per la seconda parte della sentenza in cui si afferma che «in una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere», per poi precisare che è «essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina».
È da notare che in realtà la sentenza si compone di due distinti e non confondibili ordini di motivazioni: uno strettamente legale, l’altro orientato al ben più complesso e variegato mondo valoriale.
Il rispetto della legge
1. Riguardo alla questione del rispetto della legge vigente è cosa risaputa che, quanto al giudizio sul kirpan, la giurisprudenza italiana è apparsa sinora estremamente ondivaga. Rifacendosi all’articolo 4 della legge 110/1975 sul «porto di armi od oggetti atti ad offendere», alcune sentenze hanno ravvisato nel kirpan una vera e propria arma (cf., ad esempio, il tribunale di Vicenza nel 2014), altre hanno invece escluso questa identificazione (cf., ad esempio, sempre il tribunale di Vicenza nel 2009 e il tribunale di Cremona nello stesso anno).
A tale riguardo è facile mettere in luce due elementi importanti: da una parte, l’opposizione delle due “scuole” giuridiche di pensiero espresse nelle rispettive sentenze; dall’altra, invece, la sintonia tra le due “scuole” quanto alla linea che conduce a tali conclusioni pur antitetiche, consistente in un confronto speciale con la legge sopra menzionata.
Questo primo ordine di ragionamento (seppure, come già rilevato, controverso quanto ai risultati) è ineccepibile quanto a legittimità del percorso di giudizio: dinanzi 2 a ogni cittadino italiano e immigrato ci stanno le leggi, le quali, sino a che non vengano modificate o superate, devono essere fatte rispettare dai tutori dell’ordine pubblico.
Il rispetto dei valori
2. Mi sembra che invece il problema si ponga allorché, dopo avere espresso una prima motivazione squisitamente giuridica, il giudice si avventura nel campo dei valori, un piano, questo, che si rivela «tanto impegnativo quanto indefinito».[1] Riguardo a questa seconda parte della sentenza, che ha catturato l’attenzione e mietuto facili applausi, sorgono inevitabilmente le seguenti domande:
a. Se è del tutto condivisibile sostenere che «in una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere», si pone però la domanda su chi abbia il compito e l’autorità per determinare questo nucleo comune. Forse il giudice?
La risposta non può che essere negativa. Il giudice è infatti chiamato a fare rispettare le leggi e, caso mai, a sanzionare i responsabili di reati, non certo a determinare i valori che costituiscono la base delle leggi. Nel nostro Paese i valori comuni sono espressi dalla Carta costituzionale che è fonte e criterio delle leggi. È evidente che al giudice non attiene né la messa in discussione della Costituzione né, tantomeno, la determinazione dei valori di riferimento di quella comunità civile e politica che nella Costituzione si ritrova.
b. Sorprende ancor più il seguito della sentenza, allorché la Corte ammonisce che è «essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale». Sorprende, innanzitutto, perché l’espressione utilizzata – «valori del mondo occidentale» – è la tipica locuzione ammiccante, sicura tanto di strappare sonori applausi quanto di mettere all’angolo, svergognati, coloro che non vi si ritrovano, ma che lascia inevase parecchie importanti questioni, tra cui le seguenti.
– La Cassazione sarebbe in grado di fornire la lista dei valori che noi “occidentali” condivideremmo, e soprattutto sarebbe in grado di presentarli secondo una piramide gerarchica condivisa?
– Siamo proprio sicuri che noi “occidentali”, nelle nostre infuocate discussioni su temi che esprimono valori fondamentali come aborto, eutanasia, matrimoni gay, pena di morte, accoglienza degli immigrati, difendiamo gli stessi valori e lo stesso rapporto gerarchico tra di essi?
– Le opposizioni di vedute su questi e altri temi che attengono a valori fondamentali non derivano forse da gerarchie valoriali non solo diverse ma addirittura incompatibili all’interno dello stesso mondo “occidentale”? Per tornare alla questione del kirpan, come non ricordare che in una nazione che partecipa senza alcun dubbio ai «valori occidentali» come il Canada, il ministro della Difesa è un tenente-colonnello sikh che porta il suo kirpan persino in Parlamento?
Nota a sua volta il sociologo Massimo Introvigne che «l’Inghilterra, per esempio, dove è presente un’ampia comunità di sikh, ha una legge speciale che autorizza questi credenti a portare il pugnale rituale. Negli Stati Uniti e in Canada sono state emesse delle sentenze che fanno prevalere il principio della libertà religiosa sull’ordine pubblico e la sicurezza. Nell’Europa continentale invece c’è una giurisprudenza costante che dà la precedenza all’interesse dello Stato».
È mia forte convinzione che, purtroppo, un’espressione come «valori occidentali» sia tanto “simpatetica” quanto equivoca e perciò facile preda di usi strumentali. Con ciò intendo sostenere che una comunità nazionale può certo avanzare le sue legittime motivazioni per vietare o, al contrario, autorizzare il porto del kirpan in luogo pubblico, ma per decidere quale strada intraprendere è più produttivo lasciare da parte espressioni magniloquenti come “valori occidentali” e concentrarsi sulla ben più utile e praticabile attività di interpretazione, discussione o anche modifica delle leggi vigenti.
Se è inoltre intenzione della Corte di Cassazione salvaguardare con la sua sentenza non solo la legge 110/1975, ma anche il valore da questa tutelato, ossia la sicurezza pubblica, dal richiamo ai “valori occidentali” si ricaverebbe un alquanto strano presupposto, ossia che il valore della sicurezza pubblica sarebbe un tipico “valore occidentale” che invece i sikh, provenienti da un altro universo geografico e quindi valoriale, non avrebbero ancora scoperto e fatto proprio.
c. La sentenza passa quindi, senza alcuna soluzione di continuità, dal giudizio su un caso singolo – il kirpan dei sikh – a un avvertimento esteso a tutti gli immigrati. Ci si chiede allora se questa sentenza voglia includere, con il divieto del kirpan, anche quello di altri costumi che non sono corrispondenti ai «valori occidentali». Non essendo “occidentali” devono quindi essere vietati anche hijab, niqab e burqa? E come la mettiamo con il tanto discusso “burqini”?
Ricordo che, allorché in terra francese ci si è accapigliati su quest’ultimo costume, non si intendeva vietarlo in nome di una possibile minaccia all’ordine pubblico – il che sarebbe apparso ridicolo – ma in nome di una presunta incompatibilità di tale costume con i costumi francesi – il che non appare meno ridicolo, trattandosi di una differenza di costumi… da bagno.
d. La sentenza, infine, rileva che «la società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono». Mia convinzione è che, perché non si creino tali “arcipelaghi culturali”, sia necessario (ma, ripeto, non è questo il compito spettante al giudice) innanzitutto mettere in luce quel fondamentale nucleo valoriale che tutti ci accomuna – cittadini italiani e immigrati – ossia il “fattore umano”, naturalmente corredato di una costellazione di valori pre-culturali che permettono alle persone una comunicazione e una comprensione reciproca.
È non meno necessario riconoscere che chi proviene da altri mondi geografici non giunge nel nostro Paese come da un deserto valoriale per cui non gli resterebbe che abbeverarsi alle fonti della nostra tradizione millenaria. Sullo sfondo di ogni persona immigrata, nella sua stessa “carne”, sono presenti valori di “mondi di vita” altri dai nostri che possono contribuire a trasformare e arricchire la nostra tradizione.
Conclusione
La sentenza della Corte di Cassazione riconosce in due occasioni la necessità di una «società multietnica». Per essere più precisa, avrebbe dovuto riconoscere non la necessità di una società multietnica (dire “società multietnica” è annotare un semplice dato di fatto) ma di una società “interculturale”. Con questa espressione si intende promuovere un modello di società in cui il meglio delle diverse tradizioni possa essere riconosciuto per concorrere a un incontro fecondo tra di esse, così come il peggio delle rispettive tradizioni possa essere denunciato e rimosso.
Ma questa non è una semplice partita a due, “noi” e “loro”, è invece un ben più complesso cammino comune di chi si impegna responsabilmente – cittadini italiani e immigrati – a costruire nella vita quotidiana, passo dopo passo, una civiltà del rispetto, se non anche «dell’Amore» (Paolo VI, Udienza generale, 31 dicembre 1975).
[1] M. Gramellini, Sikh transit gloria mundi, Corriere della Sera, 16 maggio 2017.
Enrico Riparelli è vicedirettore e docente di Religione e interculturalità all’Istituto superiore di scienze religiose di Padova – Facoltà teologica del Triveneto.
Totalmente d’accordo con te, Enrico. La dichiarazione dell’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale trancia di netto qualsiasi confronto serio sul meglio e sul peggio di ogni tradizione culturale