I «nuovi diritti umani», di cui oggi si discute nelle sedi internazionali e nei trattati, sono in grande misura diritti individuali. «Questi diritti si riducono ai “diritti sessuali” e ai “diritti riproduttivi”. I primi tendono a sostituire l’universale divisione dei sessi (maschile e femminile) a favore di una più ampia concezione di genere… I “diritti riproduttivi” ruotano invece attorno all’autodeterminazione e alla libera scelta della donna: contraccezione e aborto sono l’espressione più comune, ma anche il diritto al figlio».
Sono espressioni di mons. Celestino Migliore, nunzio in Russia. Le ha pronunciate in una relazione all’Università cattolica di Lublino (Polonia) davanti all’episcopato locale il 18 maggio 2011. Mons. Migliore era allora nunzio in Polonia e, in precedenza (2002-2009), è stato osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite.
Il testo (le citazioni provengono da lì) è utile per arricchire la riflessione avviata con l’intervento di mons. P. Rudelli alla fondazione Campana dei caduti (cf. SettimanaNews, Chiesa e diritti umani, 28 luglio 2017).
Stante l’approssimata distinzione temporale fra il periodo della denuncia ecclesiale contro i diritti umani della rivoluzione francese (1791-1963), quello dell’aperto sostegno alla Dichiarazione dell’ONU (1963-1955) e quello del consenso critico (dal 1995 ad oggi), è utile guardare con maggiore attenzione al percorso dai diritti umani ai “nuovi diritti”.
Dopo la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani (ONU 1948) e la Convenzione europea sui diritti e libertà fondamentali (1950), fra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso, Convenzioni e Trattati hanno superato la semplice affermazione dei diritti civili e politici per ampliarli a quelli sociali, economici e culturali: diritti del fanciullo, della donna, dell’anziano, dei disabili, dell’habitat e dell’ambiente, diritto alla vita, alla libertà religiosa, alla pace, allo sviluppo e all’acqua, allo stato di diritto e all’amministrazione della giustizia. Fenomeni storici ed eventi particolari hanno via via favorito questo sviluppo (apartheid, genocidio, emigrazioni ecc.).
Radici e sviluppi
Il passaggio dall’«età dei diritti» all’«epoca dei “nuovi diritti”» avviene con le grandi Conferenze internazionali degli anni ’90 (Cairo 1994, Pechino 1995). Nel frattempo, si strutturano due aspetti rilevanti:
a) sull’assemblea degli stati si innestano capacità e autonomie del funzionariato, delle organizzazioni facenti capo alle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative;
b) alle Convenzioni e ai Trattati si accompagnano meccanismi esecutivi e di controllo, i cosiddetti Treaty bodies, che si proclamano come insindacabili fonti del diritto internazionale, autentica interpretazione delle norme stabilite dall’assemblea degli stati. Così la regolamentazione dell’aborto diventa l’aborto come diritto, per poi nascondersi nel parametro più ampio del termine più neutro di «salute riproduttiva». Senza l’aborto come diritto, non vi sarebbe cura della salute riproduttiva. Così è per la famiglia: se le coppie omosessuali non sono equiparate alla famiglia tradizionale, non sarebbe riconosciuta la libertà di formarsi una famiglia. Povertà, educazione, salute, parità uomo/donna si raggiungono quando i singoli hanno piena libertà di gestire la propria vita, attraverso i diritti sessuali e la salute riproduttiva. Una concezione radicalmente individualista che, dopo l’istituzione del matrimonio, chiederà la rilettura dei legami familiari in chiave puramente affettiva fino all’invito di superare la schiavitù della propria corporeità, con la rivendicazione del diritto alla libertà di genere.
Diritti senza il “noi”
«Le basi giuridiche sono rappresentate dal principio di “non discriminazione” e dal diritto al rispetto della vita privata e familiare. La categoria di “non discriminazione”, da principio generale, inteso ad impedire l’annullamento o la diminuzione dell’esercizio dei diritti umani fondamentali, è passato ad essere considerato un diritto autonomo», chiamato a legittimare molti altri “nuovi diritti”. «L’autodeterminazione del singolo consacrata nel principio della vita privata, costituisce un valore dominante e porta a forme di uguaglianza basate sulla non differenziazione giuridica». Il riferimento alla natura perde forza a vantaggio del dato culturale e sociale (donna non si nasce, ma si diventa: Simone de Beauvoir). Con i prodotti agricoli geneticamente modificati si risolverebbe il problema della fame, con gli anticoncezionali e la pillola blu (viagra) si metterebbero fuori gioco i cicli naturali, la biotecnologia potrebbe rimuovere i concetti tradizionali di procreazione, maternità e paternità.
Emerge un paradosso: i diritti umani sono limitabili, i “nuovi diritti” soggettivi, no. «Se guardiamo alle carte internazionali dei diritti dell’uomo così come alle Costituzioni nazionali, notiamo che, subito dopo la proclamazione di un diritto, anche se considerato come inviolabile, si indicano i casi in cui questi diritti possono essere limitati in vista del bene comune. La libertà personale è inviolabile, ma può essere limitata dall’autorità giudiziaria in casi e modi previsti dalla legge; la libertà di pensiero è protetta, ma può essere limitata per la tutela del buon costume; la libertà di movimento è inviolabile, ma può subire limitazioni in vista dell’ordine pubblico. E così via. Non così per i diritti soggettivi. Sulla base della “non discriminazione”, essi vengono definiti privi di ogni limitazione. Il che ci porta all’assurdo di avere una parte dei diritti fondamentali giustamente situati nel contesto del bene comune e, dall’altra, dei diritti soggettivi assoluti».
«Salta subito agli occhi che questa espansione dei diritti soggettivi non sembra raggiungere lo scopo che si prefigge. Infatti, il movimento dei diritti umani ha, o dovrebbe avere, come finalità quella di umanizzare la società degli uomini, ridurre al massimo le ingiustizie, le ineguaglianze e i conflitti, partendo proprio dal riconoscimento e rispetto della dignità di ogni persona. Ora, la moltiplicazione e l’assolutizzazione del riconoscimento giuridico in forma di diritto individuale di tante esigenze, bisogni, aspirazioni del singolo, finisce per moltiplicare le regole. Soprattutto finisce per metterle in contrasto l’una con l’altra, con il rischio che a vincere siano ancora una volta i più forti, quegli individui e gruppi che dispongono di maggior potere mediatico, economico e politico».
Critiche dal futuro
Difficile concludere che le perplessità ecclesiali verso i “nuovi diritti” costituiscano un ripensamento del convinto consenso ai diritti umani. È una frontiera da cui il cattolicesimo non tornerà indietro. «La Chiesa difende con vigore i diritti dell’uomo perché li considera parte del riconoscimento che deve essere dato alla dignità della persona umana, creata ad immagine di Dio e redenta da Cristo. Il suo interesse specifico per i diritti dell’uomo deriva da una constatazione e si basa su una convinzione profonda. Il dato di fatto è che i diritti umani di cui stiamo parlando derivano il loro vigore e la loro efficacia da un insieme di valori la cui radice risiede nel profondo dell’eredità cristiana». L’affermazione è di Giovanni Paolo II nel suo discorso al Consiglio d’Europa nel 1988.
Suonerebbe indebita anche l’accusa al mondo ecclesiale di non comprendere l’evoluzione del diritto in connessione con i cambiamenti storico-civili. Parlando all’assemblea generale dell’ONU nel 2008, Benedetto XVI «riconobbe che l’elenco dei diritti non può rimanere chiuso, poiché “mentre la storia procede, sorgono nuove situazioni”. Allo stesso tempo, richiamò alla prudenza nell’affrontare le richieste di nuovi diritti, sottolineando che esse “riguardano le vite stesse e i comportamenti delle persone, delle comunità e dei popoli”». Il necessario discernimento è costruito attorno a due domande:
a) qual è la concezione intrinseca della persona umana e del rapporto individuo-società espressa nei “nuovi diritti”?
b) rispetto ai “nuovi diritti”, quali sono le relative responsabilità e i modi in cui i diritti di ciascuno sono limitati dai diritti degli altri?
La Chiesa ha imparato molto dallo stato democratico-liberale che è la condizione giuridica più utile per contenere le spinte fondamentaliste. Ma è anche vero il contrario. Se lo stato liberale non vuole dissolversi, ha bisogno che vi sia chi alimenti quei valori indisponibili, necessari al vivere civile.
Nell’attuale contesto mondiale, in buona parte lontano se non estraneo alla democrazia, è compito della Chiesa e delle fedi alimentare il consenso a forme giuridiche e a diritti rispettosi dell’umano comune. Non si tratta più di opporsi alla modernità, ma di evitare che, nella nuova condizione globale, scompaia la dignità dei singoli, emergano nuovi poteri privi di controllo, la cultura dello scarto prevalga su quella dell’inclusione.
Partendo dal principio di “non discriminazione” i diritti soggettivi si espanderanno all’infinito. La Chiesa nella storia ha promosso i diritti ed ha fatto bene, ma ora basta. Perché la Chiesa non si fa carico del principio “dei doveri”?. Dio ha dato prima di chiedere. Forse è giunto il momento di partire dal mettere insieme e poi ridistribuire, senza dimenticare che tutto quello che abbiamo anche riunito tutto insieme non basterà mai per tutti. Siamo limitati. Lo è anche la Chiesa e non può sostenere tutti i diritti sia in termini teorici che pratici.