«La croce non vuol essere una bandiera da innalzare, ma la sorgente pura di un modo nuovo di vivere. Quale? Quello del Vangelo, quello delle Beatitudini. Il testimone che ha la croce nel cuore e non soltanto al collo non vede nessuno come nemico, ma tutti come fratelli e sorelle per cui Gesù ha dato la vita. Il testimone della croce non ricorda i torti del passato e non si lamenta del presente. Il testimone della croce non usa le vie dell’inganno e della potenza mondana: non vuole imporre sé stesso e i suoi, ma dare la propria vita per gli altri. Non ricerca i propri vantaggi per poi mostrarsi devoto: questa sarebbe una religione della doppiezza, non la testimonianza del Dio crocifisso. Il testimone della croce persegue una sola strategia, quella del Maestro: l’amore umile. Non attende trionfi quaggiù, perché sa che l’amore di Cristo è fecondo nella quotidianità e fa nuove tutte le cose dal di dentro, come seme caduto in terra, che muore e produce frutto» (papa Francesco, Divina Liturgia Bizantina di San Giovanni Crisostomo, Prešov-Slovacchia, 14 settembre 2021).
«Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.[1] La laicità italiana non è neutralizzante: non nega le peculiarità e le identità di ogni credo e non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentire religioso, destinato a rimanere nell’intimità della coscienza dell’individuo.
La laicità della Costituzione si fonda su un concetto inclusivo e aperto di neutralità e non escludente di secolarizzazione: come tale, riconosce la dimensione religiosa presente nella società e si alimenta della convivenza di fedi e convinzioni diverse. Il principio di laicità non nega né misconosce il contributo che i valori religiosi possono apportare alla crescita della società; esso mira, piuttosto, ad assicurare e valorizzare il pluralismo delle scelte personali in materia religiosa nonché a garantire la pari dignità sociale e l’eguaglianza dei cittadini.
La nostra è una laicità aperta alle diverse identità che si affacciano in una società in cui hanno da convivere fedi, religioni, culture diverse: accogliente delle differenze, non esige la rinuncia alla propria identità storica, culturale, religiosa da parte dei soggetti che si confrontano e che condividono lo stesso spazio pubblico, ma rispetta i volti e i bisogni delle persone. Ed è una laicità che si traduce, sul piano delle coscienze individuali, nel riconoscimento a tutti del pari pregio dei singoli convincimenti etici nella costruzione e nella salvaguardia di una sfera pubblica nella quale dialogicamente confrontare le varie posizioni presenti nella società pluralista».
In questa lunga citazione[2] mi sembra sia rinvenibile la motivazione decisiva che sta alla base della sentenza n. 24414 del 9 settembre 2021 con la quale le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazionesi sono pronunciate sulla possibilità di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche.
In un precedente scritto[3] è stata ricostruita dettagliatamente la vicenda portata all’attenzione della Suprema Corte, riferendone in modo sintetico i principi di diritto da essa affermati. Trattandosi di una corposa – 65 pagine! – pronuncia di grande pregio, qui di seguito se ne richiamano pedissequamente i passi salienti, destinati ad offrire elementi utili per superare una polemica scomposta che si trascina da anni in quanto alimentata per lo più da rivendicazioni integralistiche e da dogmatismi escludenti.
La questione affrontata dalla Corte di Cassazione
La questione affrontata dalle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione riguarda la compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito da un dirigente scolastico di una scuola superiore statale sulla base di una delibera assunta a maggioranza[4] dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa, intesa quest’ultima anche come libertà negativa, da assicurare ad ogni docente (§ 1 motivi della decisione).
L’art. 19 della Costituzione, infatti, tutela la libertà religiosa non solo positiva ma anche negativa,[5] vale a dire anche il diritto di professare e fare propaganda di ateismo o di agnosticismo (§ 9.2 motivi della decisione), purché tale diritto non si traduca nel vilipendio o nella denigrazione della fede religiosa da altri professata (§ 11.6 motivi della decisione).
I temi coinvolti nella vicenda sono di rilevante importanza: il principio di laicità che connota oggi lo Stato italiano; la libertà di coscienza in materia religiosa; il divieto di discriminazione sia diretta che indiretta per motivi di religione negli ambienti lavorativi; l’equidistanza tra le pubbliche istituzioni e le religioni nell’orizzonte multiculturale della nostra società; la libertà di insegnamento nella scuola pubblica aperta a tutti; le radici e le ragioni dello stare insieme tra persone libere e uguali in quello spazio pubblico di convivenza che è la scuola, quale sede primaria di formazione dei cittadini e delle cittadine (§§ 3, 6 e 8 motivi della decisione).
Anche se all’origine della questione c’è non l’ottemperanza burocratica ad una disciplina che imponga l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, ma la delibera di un’assemblea studentesca a favore della stessa (§ 5 motivi della decisione), conviene – come fa la sentenza in esame – prendere le mosse da quanto in materia è attualmente previsto dal nostro ordinamento.
Una normativa tuttora vigente
A prevedere l’esposizione del crocifisso non sono disposizioni di rango legislativo ma solo regolamenti, di epoca pre-costituzionale segnata da un confessionalismo di Stato caratterizzato da una struttura fortemente autoritaria. Si tratta dell’art. 118 del regio decreto 30 aprile 1924 n. 965 e dell’art. 119 del regio decreto 26 aprile 1928 n. 1297 (e della tabella C allo stesso allegata), rispettivamente per le scuole medie ed elementari che includono il crocifisso tra gli arredi scolastici (§ 7 motivi della decisione). È escluso che il fondamento legislativo dell’esposizione del crocifisso possa identificarsi negli artt. 159 e 190 del testo unico in materia di istruzione, cioè del D.Lgs. 16 aprile 1994 n. 297[6] (§ 10 motivi della decisione).
La previsione normativa riguarda non solo le scuole elementari e le scuole medie inferiori, ma anche le scuole superiori. Il termine “istruzione media”, che compare sin dal titolo del regio decreto n. 965 del 1924, deve essere letto, infatti, secondo la strutturazione del sistema scolastico al momento della introduzione della disciplina. In quel contesto gli istituti medi di istruzione erano di primo e di secondo grado[7] e costituivano il percorso di istruzione che seguiva all’istruzione elementare: le attuali scuole superiori erano comprese nel secondo grado (§ 11.2 motivi della decisione). Nessuna disposizione è prevista per la scuola d’infanzia e l’università.
Non v’è dubbio, poi, che l’art. 118 del regio decreto n. 964 del 1924 sia ancora formalmente in vigore, essendo naufragato un recente tentativo di abrogarlo[8] (§ 11.3 motivi della decisione).
Una normativa da interpretare, però, in senso conforme alla Costituzione
La previsione contenuta nell’art. 118 del regio decreto n. 965 del 1924 va non disapplicata, ma «interpretata in senso conforme alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione» (§ 11.4 motivi della decisione).
Nel contesto ordinamentale nel quale la disposizione regolamentare fu emanata, con la religione cattolica come sola religione dello Stato, «l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche aveva un carattere obbligatorio ed esclusivo ed era espressione di quel regime confessionale» (§ 11.5 motivi della decisione).
Questa concezione è da considerare radicalmente rovesciata con l’avvento della Costituzione repubblicana.[9] Ciò, in quanto l’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato che, indipendentemente da valutazioni di carattere numerico, comporta imparzialità ed equidistanza delle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni, riconosce il pluralismo religioso come aspetto di un più ampio pluralismo dei valori ed afferma che lo spazio pubblico non può essere occupato da una sola fede religiosa ancorché maggioritaria (§ 11.6 motivi della decisione).
Ne consegue che la disposizione regolamentare dell’art. 118 del regio decreto 965 del 1924 non può più essere letta come implicante l’obbligo di esporre il simbolo del crocifisso nelle scuole (§ 12.1 motivi della decisione), qualunque sia il significato ad esso attribuito da ciascun componente della comunità scolastica (§ 11.6 motivi della decisione).
L’esposizione è legittima se richiesta dalle singole comunità scolastiche
Tuttavia, il venir meno dell’obbligo di esposizione non si traduce automaticamente nel suo contrario, e cioè in un divieto di presenza del crocifisso nelle aule scolastiche (§§ 12 e 13 motivi della decisione).
Come già ricordato, il principio di laicità rinvenibile nel nostro ordinamento non afferma l’indifferenza dello Stato di fronte al fatto religioso, ma tutela, in regime di pluralismo confessionale e culturale, la libertà di religione (§ 13.1 motivi della decisione).
Il crocifisso non lede i diritti di nessuno, non pretende da chicchessia né osservanza né riverenza, non condiziona in alcun modo la libera espressione culturale dell’insegnante: non è un atto di propaganda e non rappresenta neppure uno strumento di proselitismo o di indottrinamento. Il crocifisso – scrive la Corte di Cassazione – «parla soltanto a chi, credente o non credente, si pone rispetto ad esso in atteggiamento di volontario ascolto» (§ 14.4 motivi della decisione).
La disposizione regolamentare sull’esposizione del crocifisso va interpretata nel senso che l’aula può accoglierne la presenza allorquando la comunità scolastica lo decida in autonomia, rispettando e salvaguardando le convinzioni di tutti, utilizzando e valorizzando il metodo della ricerca del più ampio consenso, affiancando eventualmente al crocifisso – in caso di richiesta – altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando sempre un ragionevole accomodamento tra le diverse sensibilità. L’interpretazione costituzionale della norma cambia in facoltà l’obbligo di esposizione del crocifisso (§ 12.1 motivi della decisione).
Il sistema educativo pluralista della scuola pubblica è orientato allo sviluppo del senso critico degli studenti (§ 28.1 motivi della decisione). «Non ha e non può avere né un credo religioso da proporre o da difendere, né un agnosticismo da privilegiare». In quanto luogo aperto, la scuola pubblica favorisce l’inclusione e promuove l’incontro di diverse religioni e convinzioni filosofiche (§ 13.2 motivi della decisione).
Valorizzazione del ruolo dell’autonomia scolastica
La presenza o meno nelle scuole del crocifisso rientra, dunque, nell’ambito dell’autonomia delle singole istituzioni scolastiche (§ 14 motivi della decisione). Secondo quanto previsto dal Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado,[10] l’istituzione scolastica è concepita come una comunità che interagisce responsabilmente con la più vasta comunità sociale e civica, disponendo di organismi vari istituiti al fine di realizzare la partecipazione democratica alla gestione della scuola (§ 14.2 motivi della decisione).
Il ruolo dell’autonomia concessa alle istituzioni scolastiche in base alla riforma del Titolo V della Parte II della Carta Costituzionale[11] autorizza gli organi collegiali di ogni singola scuola a intervenire in ordine a scelte che investono non solo l’arredamento delle aule, ma anche la creazione di un ambiente scolastico condiviso nel quale le relazioni tra docenti, alunni e famiglie, come pure la gestione dei conflitti che ne possano derivare, sono gestiti attraverso la ricerca di un ragionevole accomodamento per poter costruire il più ampio consenso possibile (§ 14.1 motivi della decisione).
Il “ragionevole accomodamento” quale correttivo della regola di maggioranza
Il metodo del ragionevole accomodamento che, secondo la Corte Costituzionale, deve essere utilizzato e valorizzato in tema di esercizio di diritti fondamentali tutelati dalla costituzione,[12] è la strada da percorrere anche in ambito scolastico per evitare che la tensione tra diritti di pari dignità sfoci in scontri tra valori (§ 18 motivi della decisione).
«In generale, in presenza della tensione strutturale tra libertà religiosa positiva e negativa, non c’è un aspetto di quella libertà destinato a prevalere in maniera assoluta sull’altro, ma c’è invece un dovere di garantire le diverse libertà di coscienza e le differenti sensibilità» (§ 16 motivi della decisione).
L’accomodamento ragionevole è da intendere come ricerca di soluzioni miti, capaci di soddisfare le diverse posizioni nelle quali tutti concedono qualcosa, disponibili a fare, ciascuno, un passo in direzione dell’altro. La dimensione che caratterizza il ragionevole accomodamento è, infatti, improntata ad una indubbiamente impegnativa logica dell’et et, e non alla secca alternativa dell’aut aut. Essa sollecita a ricercare soluzioni non sulla linea di chiusure dogmatiche contrapposte, «ma attraverso un dialogo costruttivo in vista di un equo contemperamento delle convinzioni religiose e culturali presenti nella comunità scolastica, dove la plurale e paritaria coesistenza di laici e credenti, cattolici o appartenenti ad altre confessioni, è un valore inderogabile» (§ 19 motivi della decisione).
Soprattutto il metodo del ragionevole accomodamento fa sì che il principio di laicità intrecci e alimenti «una trama pluralista di uguaglianza e di pari dignità di tutte le manifestazioni di libertà religiosa, senza che rilevi il dato quantitativo o numerico dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa» (§ 20 motivi della decisione).
In materia di religione, intesa nel senso sia di avere sia di manifestare in pubblico convinzioni religiose[13] (§ 27 motivi della decisione), il numero non è mai decisivo come tale, atteso che gli artt. 19 e 21 della Costituzione tutelano immediatamente l’opinione religiosa di ogni persona, a prescindere dal fatto che essa sia espressione della maggioranza o della minoranza (§ 20 motivi della decisione).
Nessuna rigidità: né da parte dei molti né da parte del singolo
«Come deve essere escluso che i molti possano vantare una qualche forma di primazia che il dissenziente sarebbe tenuto a onorare, allo stesso modo – affermano i giudici delle Sezioni Unite – il metodo e il criterio dell’accomodamento ragionevole non possono essere neutralizzati da un potere di veto assoluto del singolo. Il potere interdittivo implicherebbe infatti l’illimitata espansione di uno dei due aspetti della libertà religiosa, che diverrebbe tiranno nei confronti dell’altro aspetto, anch’esso costituzionalmente riconosciuto e protetto.
La richiesta dell’eliminazione di ogni elemento rappresentativo che non coincida interamente con i tratti della propria soggettiva convinzione in materia religiosa è pretesa che soffre di rigidità. Ne consegue che la libertà religiosa negativa non richiede e non si realizza attraverso il divieto assoluto di affissione o l’obbligo di rimozione del simbolo religioso esposto in uno spazio pubblico condiviso a soddisfazione di un interesse di altri soggetti» (§ 21 motivi della decisione).
In altri termini, il metodo del ragionevole accomodamento «evita sia una decisione basata sulla semplice applicazione della regola di maggioranza sia un potere di veto illimitato concesso al singolo» (§ 19 motivi della decisione).
Compito impegnativo affidato alla comunità scolastica
È indubbio che, con questa sentenza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione addossano alla comunità scolastica (insegnanti, dirigenti amministrativi, studenti e studentesse, organi collegali) una rilevante responsabilità.
Per essere agevolmente percorsa, la strada indicata richiede impegno e immaginazione nell’effettuare, caso per caso, scelte ispirate alla logica del ragionevole accomodamento, individuando soluzioni “miti” in grado di conciliare, nella misura del possibile, le esigenze e i diritti costituzionali di tutti: soluzioni fattibili nella misura in cui, come già richiamato sopra, «tutti concedono qualcosa facendo, ciascuno, un passo in direzione dell’altro».
Dal momento che il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione è uno dei fondamenti di una società democratica e costituisce, nella sua dimensione religiosa, uno degli elementi più vitali che contribuiscono alla formazione dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita nonché un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici o gli indifferenti, contribuendo al pluralismo – duramente conquistato nel corso dei secoli – consustanziale a una tale società,[14] è condivisibile l’auspicio, formulato da un’autorevole dottrina,[15] che il legislatore adegui la normativa al mutato contesto storico multiculturale, trovando, in materia di esposizione dei simboli religiosi, una soluzione che si ispiri al metodo del ragionevole accomodamento dei seguenti diritti fondamentali: principio di laicità dello Stato, libertà di coscienza in materia religiosa, pluralismo religioso, divieto di discriminazione per motivi di religione.
Il criterio del ragionevole accomodamento applicato alla libertà di coscienza in materia religiosa, se tradotto in una legge del Parlamento, agevolerebbe indubbiamente, da parte delle istituzioni scolastiche, il recepimento delle preziose e apprezzabili indicazioni esplicitate dalla Suprema Corte in quella che può senz’altro considerarsi “sentenza storica” nella lunga vexata quaestio sull’esposizione di simboli religiosi nelle aule scolastiche italiane.
[1] Corte Costituzionale, sentenza n. 203 del 12 aprile 1989.
[2] Tratta dal paragrafo 13.2 dei “motivi della decisione” della sentenza in esame.
[3] Cf. Andrea Lebra, Il crocifisso non genera discriminazione, in SettimanaNews del 10 settembre 2021 (qui).
[4] In una lettera indirizzata al quotidiano Avvenire e pubblicata il 14 settembre 2021 il dirigente scolastico – ormai in pensione – dell’Istituto professionale nel quale si sono svolti i fatti, oggetto della sentenza, afferma che in realtà la delibera era stata assunta dall’assemblea di classe degli studenti non a maggioranza ma all’unanimità, dopo che la questione era stata affrontata e approfondita in tutte le sedi proprie della comunità scolastica.
[5] Corte Costituzionale, sentenza n. 117 del 10 ottobre 1979.
[6] Corte costituzionale, ordinanza n. 389 del 17 dicembre 2004.
[7] Così l’art. 1 del regio decreto 6 maggio 1923 n. 1054. Erano di primo grado «la scuola complementare, il ginnasio, il corso inferiore dell’istituto tecnico, il corso inferiore dell’istituto magistrale». Erano di secondo grado «il liceo, il corso superiore dell’istituto tecnico, il corso superiore dell’istituto magistrale, il liceo scientifico, il liceo femminile».
[8] La vigenza del regio decreto è confermata dall’approvazione dei decreti-legge c.d. “taglia-leggi”, predisposti per diminuire il numero delle leggi esistenti e facilitarne così la conoscenza da parte dei cittadini e degli operatori giuridici. Infatti, l’abrogazione del regio decreto n. 965 del 1924 – già prevista ai sensi del combinato disposto dell’art. 24 e del n. 224 dell’allegato A al decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112, come modificati dalla relativa legge di conversione 6 agosto 2008 n. 133 – è venuta meno a seguito della soppressione del citato n. 224 ad opera del comma 1-bis dell’art. 3 del decreto-legge 22 dicembre 2008 n. 200, aggiunto dalla legge di conversione 18 febbraio 2009 n. 9.
[9] O, al più tardi, dopo la dichiarazione congiunta, in sede di Protocollo addizionale all’Accordo di Villa Madama del 15 novembre 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, di considerare «non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano», con chiara allusione all’art. 1 del Trattato del’ 11 febbraio 1929 che stabiliva: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del regno del 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato».
[10] Cf. artt. 3, 5, 12 e ss del D.Lgs. 16 aprile 1994 n. 297.
[11] Intervenuta con legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001.
[12] Vedasi, a titolo di esempio, la sentenza n. 264 del 28 novembre 2012 della Corte Costituzionale.
[13] Come ha chiarito ancora recentemente la Corte Europea dei Diritti Umani con sentenza del 15 luglio 2021, IX c. Wab eV MH Meiller Handels GmbH contro M3.
[14] Corte Europea dei Diritti Umani, 15 febbraio 2001, Dahlab c. Svizzera.
[15] Marta Cartabia, Il crocifisso e il calamaio, in: Roberto Bin-Giuditta Brunelli-Andrea Pugiotto-Polo Veronesi (a cura), La laicità crocifissa?, Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Giappichelli Editore, Torino 2004, pag. 69.