DAT: non è eutanasia

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consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento

Don Domenico Marrone è sacerdote, direttore e docente di teologia morale – ISSR Trani.

Con 180 voti favorevoli, 71 contrari e 6 astenuti, il Senato della Repubblica ha approvato in forma definitiva la legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, mettendo fine a un lungo e affannoso iter legislativo. La legge è il frutto della sintesi tra 16 progetti sulla stessa materia di orientamento assai diverso tra loro, dal 2009 ad oggi. Mi soffermo a condividere delle considerazioni su alcuni punti della legge che destano perplessità.

Disposizioni anticipate di trattamento

Era necessaria una legge?

Tengo a precisare che nessuno può ignorare l’incredibile complessità raggiunta dalla medicina oggi. La medicina sta cambiando sotto i nostri occhi e la bioetica richiede soluzioni nuove per dilemmi nuovi. Coloro che sostengono che di una nuova legge non ci sarebbe stato alcun bisogno hanno, ahimè, perso il contatto con la realtà. Come hanno perso il contatto con la realtà coloro che vorrebbero fare della legge appena approvata il trampolino per una futura politica sanitaria tutta centrata su pazienti dotati di personalità forti, lucide, fredde, prive di dubbi e di tentennamenti: personalità, ahimè, lontanissime da quelle che caratterizzano i malati reali, soggetti ordinariamente fragili, deboli, impauriti, bisognosi di conforto e di sostegno morale e materiale. Pertanto, la nuova legge sul fine vita non va né esaltata né, a maggior ragione, criminalizzata. È quindi necessario coglierne lo spirito, senza cedere a posizioni ideologiche.

“Disposizioni” o meglio “Dichiarazioni”

Le due denominazioni “disposizioni anticipate” e “dichiarazioni anticipate” evocano situazioni contrapposte. Le “disposizioni” danno forza alla volontà di colui che le esprime, mentre le “dichiarazioni” evocano un desiderio, cui potrebbe non corrispondere una prescrittività (più un living wish che un living will, per giocare sui termini inglesi…).

Quando si parla di “disposizioni”, tendono ad essere inquieti i medici, che temono di essere messi in posizione one down dalla volontà del paziente, perdendo la posizione one up che è stata tradizionalmente propria della professione medica; se, invece, si parla di “dichiarazioni”, sono i cittadini che temono di non essere presi sul serio nelle proprie espressioni di volontà, rimanendo ostaggi di decisioni che saranno prese, in ultima istanza, dal medico “in scienza e coscienza”, come è sempre avvenuto.

Una alternativa meno gravata di equivoci e timori sarebbe stata quella proposta in ambito anglofono come advance care planning, che in italiano potrebbe essere resa come “pianificazione anticipata delle cure”. L’accento cade sulle cure, i limiti delle cure, che sono acquisiti come un diritto e un gesto di responsabilità. La “pianificazione” fa riferimento ad un processo di informazione e alla condivisione delle scelte tra terapeuta e paziente.

Elementi fondamentali di ogni legge sul fine vita

Qualsiasi legge si proponga di regolamentare questa materia deve tener conto di tre elementi fondamentali e irrinunciabili:

a) Il primo riguarda l’assoluto rifiuto dell’eutanasia anche nella sua ambigua fattispecie di “passiva”. Per eutanasia dobbiamo intendere ogni azione o omissione diretta a sopprimere la vita del paziente al fine di evitargli sofferenze non altrimenti superabili. Pertanto, nella dizione stessa è insita l’eventualità di un atto “omissivo” che non costituisce alcuna “passività” ma solo una diversa attività (si può far annegare un uomo spingendolo in acqua o evitando di aiutarlo). L’eutanasia passiva non esiste. O si tratta di eutanasia per omissione o non è eutanasia ma solo astensione terapeutica in una situazione irreversibilmente orientata all’exitus.

Quindi, una legge sul testamento biologico non può spacciare per rinunzia all’intervento qualsiasi atto il cui diretto esito consista nella morte del paziente. Il suo oggetto specifico dovrà essere esclusivamente il rifiuto dell’accanimento terapeutico. Il dovere morale è quello di prolungare la vita, non l’agonia.

A parer mio, la legge così come è formulata, forse non nell’intenzione del legislatore, ma nella sua concreta formulazione, costituisce una zona di limbo che non marca in modo netto i confini tra eutanasia e accanimento terapeutico. Potrebbe aprire spiragli all’eutanasia omissiva. Ovviamente, il rischio di far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo alla porta c’è sempre, ma è del tutto evidente che questa è un’evenienza estrema, nel qual caso si potrà denunciare chi ha operato in senso eutanasico, poiché in Italia l’eutanasia è proibita dalla legge.

Si dovesse poi dimostrare con l’esperienza che questa legge porta verso scelte chiaramente eutanasiche, allora si dovrebbero fare scelte radicali e profetiche. Ma questa al momento, per fortuna, appare solo come un’extrema ratio!

b) Unitamente a tali condizioni di legittimazione etica, dovranno essere tenute presenti alcune possibili difficoltà nella concreta applicazione del dispositivo di legge. In particolare:

* la difficoltà a prevedere con esattezza e in una condizione di benessere psicofisico la possibile tipologia o, quantomeno, la soglia di disabilità legittimante l’intervento sospensivo della terapia;

* l’impossibilità, per il soggetto testatore, di essere a conoscenza dei possibili progressi medici che dall’atto di formulazione della volontà all’effettiva occorrenza della patologia potrebbero far superare le condizioni di disabilità precedentemente previste;

* la possibile discriminazione tra cittadini testatori e non, cioè a una sorta di possibile “vantaggio” per i cittadini redattori del documento rispetto ai non redattori che dovranno far affidamento ad altri dispositivi di legge (simili al consenso presunto in ambito di trapianti).

A proposito di accanimento terapeutico

Con questa locuzione si indica il persistere in terapie sproporzionate rispetto alle condizioni del malato, o perché si tratta degli ultimi momenti della sua vita o perché queste terapie possono portare ad una sopravvivenza dolorosa e gravosa, se non addirittura ad una patologia provocata dalla terapia stessa.

La maggior parte dei documenti in materia di volontà anticipate elenca, invece, nella voce “trattamenti” una serie di terapie e mezzi in cui tutto può essere ricompreso: anche – ad esempio – la rianimazione cardio-polmonare, la respirazione artificiale, la terapia antibiotica, le emotrasfusioni, l’emodialisi, l’alimentazione e l’idratazione artificiale.

a) Criteri oggettivi per valutare l’accanimento terapeutico

Un trattamento non può, però, essere considerato in sé sproporzionato se non valutandolo all’interno della situazione specifica e, quindi, non prima che si sia verificata. Tra i criteri oggettivi utilizzati per valutare se una terapia sia o meno proporzionata, vi sono:

  • il tipo di terapia;
  • la proporzione tra mezzo e fine perseguito;
  • il grado di difficoltà e il rischio;
  • la possibilità di applicazione;
  • le condizioni generali del malato (fisiche, psichiche, morali).

E, qualora un intervento si configurasse come un accanimento terapeutico, è doveroso sospenderlo, mentre si continueranno le cure normali, la palliazione del dolore, l’alimentazione e l’idratazione. Da quanto fin qui detto, risulta allora evidente che non è possibile stabilire una regola valida per tutti i casi clinici, senza conoscere le condizioni del paziente, il suo decorso clinico ecc.

Vi è, allora, il timore che un’indicazione generica e non contestualizzata apra la strada a forme non di evitamento dell’accanimento terapeutico, ma di sostegno ad azioni eutanasiche di tipo omissivo. Si è, infatti, di fronte ad un’azione eutanasica sia nell’eutanasia attiva (ovvero somministrando un preparato che anticipa volutamente la morte) sia nell’eutanasia passiva (ovvero sottraendo le cure normali, l’alimentazione e l’idratazione etc.).

b) Criteri soggettivi per valutare l’accanimento terapeutico

A questo si aggiungono i criteri soggettivi, che consentono di valutare la straordinarietà/ordinarietà degli interventi, tra cui:

– la presenza o meno di un dolore fisico ingente o insopportabile, che non può essere sufficientemente lenito,

– una forte ripugnanza in relazione all’impiego del mezzo;

– la permanenza o meno, conseguentemente al ricorso agli interventi in esame, di condizioni cliniche tali da impedire al paziente l’adempimento di doveri morali più gravi e indifferibili.

E, qualora – dopo la valutazione sia dei criteri oggettivi sia dei criteri soggettivi – un intervento si configurasse come un accanimento terapeutico, è doveroso sospenderlo, mentre si continueranno le cure normali, la palliazione del dolore, l’alimentazione e l’idratazione.

La legge in questione ribadisce opportunamente il “no” all’accanimento terapeutico, in perfetta sintonia con Evangelium vitae n. 65, dove con forza si rifiuta l’inutile insistenza che porta a prolungare la vita in prossimità della morte, in quanto rappresenta una distorsione della medicina che perde di vista il suo fine che è il paziente.

Come possono essere qualificate l’alimentazione e l’idratazione artificiale?

In linea di principio, nutrizione e idratazione sono un sostegno vitale ordinario e obbligatorio poiché molto difficilmente diventano inutili o dannose per il paziente. Però ci sono dei casi limite in cui ciò accade e di questo si tiene conto anche nei documenti della Chiesa, che ammettono con prudenza ragionevoli eccezioni. Si tratta, ovviamente, di casi estremi che vanno valutati di volta in volta. Riporto a tal proposito quanto afferma un documento congiunto tra Chiesa evangelica tedesca e Chiese cristiane di Germania:

«L’alimentazione artificiale mediante una sonda gastrica attraverso la bocca, il naso o la parete addominale (con una cosiddetta sonda PEG) o l’introduzione di liquidi per via intravenosa sono considerate dalla legge e dalla scienza e pratica medica trattamenti terapeutici, a cui i pazienti devono dare il consenso. Nonostante le possibilità giuridiche, rifiutare trattamenti di prolungamento della vita, come ad esempio l’introduzione di cibi e liquidi, resta eticamente a disposizione nella misura in cui si dimostrano come medicalmente indicati ed efficaci, per conservare la vita o ricuperare la salute. Le decisioni concrete sull’applicazione o non applicazione di determinati trattamenti devono essere prese esaminandole e valutandole nella prospettiva dell’obiettivo, cioè di un morire degno della persona. Una dichiarazione anticipata non può quindi significativamente riferirsi a decisioni isolate sull’applicazione o non applicazione di determinati trattamenti, ma soltanto al collegamento fra trattamenti e obiettivi».

A tal riguardo, il dibattito, che si è sviluppato ha seguito il registro di posizioni altamente ideologizzate che ha visto la discesa in campo di due posizioni contrapposte. Da una parte, vi era chi sosteneva che nutrizione e idratazione in quanto “sostegni vitali” devono essere comunque sempre somministrate; dall’altra, chi, insistendo sulla modalità con cui la somministrazione avviene, riteneva che nutrizione e idratazione possono essere incluse nell’attività di “cura”, e debbano pertanto essere in molti casi sospese.

Questa contrapposizione, soprattutto se radicalizzata, risulta, per molti aspetti, artificiosa. La questione si ripresenta nell’attuale legge all’art. 1, comma 5.

È difficile infatti negare che nutrizione e idratazione siano, in senso antropologico, “sostegno vitale”; ma è altrettanto difficile misconoscere che, in alcune circostanze, siano a tutti gli effetti, per il modo con cui la somministrazione si realizza (intervento chirurgico e preparazione di sostanze chimiche) “atto medico” (e dunque curativo anche se non direttamente terapeutico).

Forse, per affrontare correttamente il problema, bisogna collocarlo in quell’area di questioni di frontiera, che stanno sul crinale tra omissione di soccorso (in passato si diceva “eutanasia passiva”) e accanimento terapeutico. Questo implica che si debba di volta involta decidere, tenendo conto della concretezza delle situazioni, con la consapevolezza che lo stesso intervento può, in taluni casi, se evitato, risultare omissione di soccorso; in altri casi, se effettuato, può invece comportare accanimento terapeutico.

In questa ottica, nutrizione e idratazione devono essere valutate caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del paziente. L’inserimento del loro rifiuto nella legge implica perciò la circoscrizione entro una casistica dettagliata non facilmente definibile a priori; ma (forse) sarebbe bastata – ci sembra questa la via più praticabile, in linea del resto con quella forma di “diritto mite” da molti auspicato – l’espressione da parte del paziente di una generica volontà di rifiuto, che andrebbe poi verificata nella sua applicabilità mediante il confronto fra il proprio fiduciario e il medico.

La Congregazione per la dottrina della fede ha affrontato il problema nella sua risposta del 1° agosto 2007 a due domande poste dalla Conferenza episcopale americana. La congregazione definisce la somministrazione di cibo e acqua «in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita» e sottolinea che l’alimentazione artificiale deve essere prolungata nella misura in cui e «fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». In tal modo, si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione. Finché raggiunga in maniera dimostrabile la sua finalità propria, vale a dire l’approvvigionamento del paziente con acqua e cibo».

L’interruzione dell’alimentazione artificiale è giustificata solo laddove «cibo e acqua non vengano più assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico». La legge, invece, consentirebbe al paziente di disporne la sospensione. Tale problema morale va, forse, affrontato valutando non soltanto l’efficacia della terapia di sostegno vitale, ma considerandone l’effettiva proporzionalità sulla base dello stato fisico ed emozionale del paziente e nel rispetto delle sue convinzioni più profonde. Nutrizione e idratazione artificiali, infatti, possono costituire a tutti gli effetti un trattamento medico che, in quanto tale, non può sfuggire al giudizio di proporzionalità.

L’esercizio dell’autonomia è senza limiti?

Se l’esercizio dell’autonomia da parte del paziente ha una sua ragione d’essere nella gestione della malattia e nella personalizzazione delle terapie, non altrettanto dicasi quando tale autonomia si spinge fino ad annullare la fonte stessa del suo esistere, ovvero la vita.

Ne consegue che nessuna legge riguardante le volontà anticipate deve assolutamente muovere da un presunto “diritto a morire”.

Il testamento biologico è essenzialmente uno strumento di rispetto etico della volontà del paziente. Anche se può avere ricadute medico-legali o assicurative, almeno nel nostro contesto culturale e giuridico, non ha questa finalità. Proprio per questo deve essere uno strumento agile, redatto dal soggetto come avviene per la donazione d’organi, senza interventi notarili.

Occorre evitare però quella deriva etico-culturale che sta trasformando la suprema lex della medicina non nel bonum aegroti, cioè nel bene del paziente, ma nella voluntas aegroti. Pur se questa è assolutamente fondamentale e imprescindibile, è difficile accogliere quanto dice il Comitato Nazionale di Bioetica a proposito del consenso ritenuto «legittimazione e fondamento dell’atto medico». Che sia legittimazione è indubbio – per cui ogni atto medico compiuto senza o contro il consenso del malato è illegittimo – ma non è fondamento. Il fondamento rimane pur sempre il bene del paziente. Ed è proprio a questo bene globalmente inteso, e quindi anche alla dignità della morte, che ogni intervento sul malato terminale deve essere orientato.

Il mito individualistico dell’autodeterminazione rischia invece di ridurre gli altri (i parenti, il personale medico e infermieristico, la società nel suo complesso…) a “protesi strumentali” delle mie decisioni. Non c’è solo l’autonomia del malato, c’è anche quella di chi gli sta vicino, che deve “giocarsi insieme” alla prima, evitando ricatti affettivi, scorciatoie pericolose e strumentalizzazioni reciproche.

Bisogna evitare la totale deresponsabilizzazione medica, per cui il ruolo del sanitario diventerebbe in qualche modo “notarile” limitandosi a eseguire le volontà del paziente. Solo un adeguato modello di alleanza terapeutica potrà far superare, da un lato, il paternalismo che toglie al malato ogni competenza decisionale in merito, sia il contrattualismo per cui il ruolo del medico è puramente contrattuale nei confronti della sua volontà preoccupandosi solo che sia validamente espressa.

In questo modello l’obiettivo comune del medico e del paziente è di agire l’uno nel migliore interesse dell’altro e il dialogo e la comunicazione diventano l’elemento indispensabile perché si crei questa alleanza. È, allora, fondamentale che il paziente esprima le sue aspettative in relazione alla sua malattia e, nel caso in cui sia in condizioni irreversibili, alla dignità del suo morire. Il coinvolgimento del paziente nella gestione della malattia e la personalizzazione (laddove possibile) degli schemi di trattamento e dei protocolli assistenziali divengono obiettivi da perseguire.

Ne consegue che, di fronte alla proposta di un documento contenente volontà anticipate, la questione rilevante non è se il cittadino possa o meno intervenire nel processo decisionale, quanto piuttosto cosa possa essere oggetto di richiesta e se esiste o meno un modo ottimale per farlo.

La tutela dell’autonomia del paziente non può pertanto prescindere dalla ricerca del suo bene, che costituisce l’obiettivo dell’attività del medico, e dell’attenzione al contesto sociale, essendo le risorse a disposizione limitate e dovendole perciò ripartire equamente. Si tratta, in altri termini, di mediare la libertà con il bene e con la giustizia, pervenendo a scelte, che spettano in ultima analisi al paziente (sia direttamente che attraverso il proprio fiduciario  nel caso del testamento biologico) e che devono aver di mira il bene del singolo e quello della collettività. L’interpretazione rigidamente individualistica che talora si dà del principio di autodeterminazione è frutto di una visione liberista.

In tutta la tradizione occidentale – non solo cristiana – si è sempre riconosciuto che la vita è insieme dono e compito. La responsabilità, tuttavia, anche etimologicamente, è sempre una risposta, non un inizio. Noi non siamo “autori” della nostra vita per il semplice fatto che non ne possediamo l’origine: possiamo, con la procreazione assistita, intervenire sulle modalità di trasmissione della vita, ma non possiamo “fabbricarla”; né possiamo, con un suicidio, “riprendercela”.

Il termine “autodeterminazione” è equivoco se confonde autonomia morale (di cui abbiamo bisogno per esercitare la responsabilità) e autonomia ontologica, che non è invece nelle nostre disponibilità. Il “mio” essere non è mai assolutamente mio: dal concepimento fino alla morte. La salute non è solo un bene di diritto, ma costituisce anche un’esigenza di dovere. Riporto a tal proposito quanto afferma un documento congiunto tra Chiesa evangelica tedesca e Chiese cristiane di Germania:

«Il fondamento etico e giuridico di tutte le disposizioni preventive di cura e assistenza è il diritto all’autodeterminazione. La volontà del paziente è il fondamento di ogni trattamento. Ai fini dell’adozione o della rinuncia a un trattamento è decisivo il fatto che il paziente accetti, in seguito a un’adeguata informazione, le procedure diagnostiche e terapeutiche proposte dal medico. Tuttavia non si può pensare all’autodeterminazione senza riconoscere e accettare la dipendenza dalla propria corporeità, dall’assistenza di altre persone e dall’azione di Dio. Non bisogna considerare erroneamente l’autodeterminazione come una totale indipendenza. Essa prende forma solo in contesti sociali; questo significa che la persona è, e resta, inserita nella comunità dei suoi simili ed è orientata ad essa. Da parte sua, la società ha un dovere di cura e assistenza nei confronti dei propri membri. Da questo deriva il dovere dello stato di tutelare la vita dei suoi cittadini. A questo contesto appartiene anche il dovere del medico di volere il meglio per il paziente. Ai fini di una cura medica accurata e adeguata è importante costruire fra medico e paziente una relazione basata sulla fiducia. Bisogna collegare e intrecciare reciprocamente autodeterminazione e presa in carico del paziente. L’autodeterminazione è orientata alla cura. D’altra parte, una cura rettamente intesa è orientata all’attenzione per il paziente e, per quanto possibile, al rispetto della sua autodeterminazione. Perciò la cura deve includere sempre anche l’attenzione e il rispetto per i desideri e le convinzioni del paziente sul piano fisico, psicologico, sociale e spirituale. “Cura nel rispetto della libertà dell’altro”: questo leitmotiv del movimento degli hospice vale anche per l’applicazione delle disposizioni preventive di cura».

La legge prevede che «fermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 1, il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita» (art. 4, comma 5). Non sembra proprio, quindi, che l’autodeterminazione del paziente venga assolutizzata, come alcuni commentatori sostengono.

Efficacia delle DAT

Quanto all’efficacia, pertanto, le volontà anticipate non dovrebbero essere vincolanti per gli operatori sanitari, così come abbiamo visto all’art. 4, comma 5.  Va però precisato che la prevista la facoltà del medico di disattendere le volontà, riguarda soltanto la così detta “inattualità scientifica”, e cioè quando le disposizioni anticipate non corrispondono più a quanto l’interessato aveva espressamente previsto, sulla base degli sviluppi delle conoscenze scientifiche e terapeutiche. In altri termini, l’unico margine di valutazione per il medico riguarda gli aspetti tecnici, essendo esclusa la possibilità per il medico di valutare in modo più completo la situazione e soprattutto essendo esclusa la sua valutazione personale. Tutto questo mi sembra un considerevole punto critico: non si può escludere la ragione clinica di un atto medico, si tratterebbe di qualcosa di contraddittorio. Per essere coerenti, un paziente che esclude i trattamenti dovrebbe essere affidato non ad un medico ma ad un altro professionista (ancora da inventare).

Sarebbe stato opportuno introdurre nella legge l’obiezione di coscienza per il medico?

Bisogna tener distinta l’obiezione di coscienza dall’obiezione etica. La prima interviene in presenza di una legge che permette comportamenti che possono essere disapprovati dalla coscienza di qualche professionista (es.: interruzione volontaria della gravidanza, pratiche di procreazione medicalmente assistita, eutanasia…).

Dovrebbe esser prevista l’obiezione di coscienza se la legge autorizzasse il suicidio assistito o l’eutanasia. Ma non è questo il caso della nostra legge!

L’obiezione etica, prevista dal Codice deontologico dei medici italiani, interviene quando il medico non condivide le scelte del malato. Questa è un’evenienza non rara, soprattutto se la medicina accetta il modello della “decisione consensuale”, piuttosto che la decisione tradizionalmente affidata alla “scienza e coscienza” del medico. Se medico e paziente non raggiungono un accordo nel processo di cura, è opportuno che il medico passi la mano ad un altro medico.

Questa obiezione etica non ha bisogno di essere regolata per legge. È intrinseca alla buona pratica medica ed è regolata dalla deontologia professionale (cf. Codice deontologico dei medici italiani, 1998, art. 12). Se si va a scorrere il dettato dell’art. 1, c. 6, si scopre che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali». Ne consegue, quindi, che ancor oggi, e per fortuna – aggiungiamo –, l’eutanasia così come il suicidio medicalmente assistito continuano a rimanere in Italia delle pratiche illecite, e questo sia a livello giuridico (non ci risulta che gli artt. 579 e 580 del Codice Penale siano stati abrogati) sia a livello deontologico (si veda l’art. 17 del Codice deontologico dei medici italiani).

Per concludere

È indispensabile ora che gli animi si plachino, che si abbandoni la logica del sospetto reciproco, che si riconosca, da una parte, che il testo della legge poteva essere significativamente migliorato e, dall’altra, che molte delle accuse che le sono state pesantemente rivolte (in particolare quella di aprire le porte all’eutanasia) erano basate su pregiudizi infondati. Sarà bene che tutti ricordiamo quanto afferma il concilio Vaticano II, cioè che «nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente a proprio favore l’autorità della Chiesa» (Gaudium et spes 43).

Non è il caso di “suonare le campane a morto”, come hanno fatto alcuni sacerdoti, per esprimere un rifiuto a priori della legge, ignorando che da almeno 500 anni la Chiesa cattolica riconosce dei margini di discrezione al singolo rispetto alle risorse che la medicina mette a sua disposizione, qualora esse gli appaiano straordinarie.

La possibilità di redigere delle DAT, perciò, rientra pienamente nel modo di intendere da parte della Chiesa l’esercizio del diritto/dovere di provvedere alla propria salute. Il problema più rilevante è ciò che si scrive e si prevede nell’espressione della propria autodeterminazione.

Per la comunità credente la questione prioritaria è quella di attivare dei percorsi d’informazione e di educazione affinché le persone che desiderano sottoscrivere le DAT, sappiano se i contenuti sono in linea con il Vangelo e con la visione morale della Chiesa, oppure no. Dalle statistiche note, tali persone saranno un’esigua minoranza, perché così accade in tutto il mondo. Quello che possiamo fare come comunità cristiana – come è già accaduto in Germania tra cattolici e protestanti – è offrire dei testi di orientamento, delle catechesi o delle consulenze etico-pastorali per formare adeguatamente le coscienze adulte dei fedeli. E comunque non credo che si possano scrivere delle DAT efficaci senza il coinvolgimento del medico di fiducia.

Mi piace concludere con un testo del card. Martini: «La prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che, nella visione cristiana e di molte religioni, comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all’uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona. […] La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto. Nel vangelo secondo Giovanni Gesù proclama: “Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà” (GV 6,25)» (cf. Martini C.M. – Marino I., Dialogo sulla vita, in L’Espresso, 27 aprile 2006, 52-6).

Si tratta peraltro di un’impostazione tradizionale nel pensiero della Chiesa. Già Pio XII affermava: «La vita, la salute, tutta l’attività temporale sono infatti subordinate a fini spirituali» (Pio XII, Problemi religiosi e morali della rianimazione, 24 novembre 1957, in Verspieren P. (ed.), Biologia, medicina ed etica, Queriniana, Brescia 1990, 432).

E Giovanni Paolo II – dopo aver ricordato che «l’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, perché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio» – ribadiva la «relatività della vita terrena», precisando che essa «non è realtà “ultima”, ma “penultima”» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 1995, n. 2).

Il rispetto per la vita umana non è quindi dovuto a una sacralizzazione della sua dimensione biologica, ma alla relazione d’amore con Dio che la vita testimonia e rende possibile e alla sua capacità di anticipare simbolicamente la pienezza della vita eterna, che sola vale incondizionatamente.

Sul medesimo tema vedi anche:

Giovanni Del Missier, Morire senza accanimento, 26 aprile 2017.
Roberto Massaro, Fine-vita: legge e responsabilità, 15 dicembre 2017.
Andrea Lebra, Tutelare l’epilogo della vita, 4 gennaio 2018.

 

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