Ho seguito con il cuore in angustia la fine di Vincent Lambert, a Reims (Francia), il tetraplegico in stato vegetativo da oltre una decina d’anni. E ho seguito anche lo scontro giudiziario tra i suoi genitori (cattolici e contrari alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale poiché ritenevano che si trattasse di una decisione «eutanasica») e sua moglie e tutrice legale (favorevole alle sospensioni nella convinzione che si trattasse di un «accanimento terapeutico» o di «distanasia».
Episodi che si ripetono
Ho anche letto ciò che il papa ha scritto su Twitter, che i malati non siano «abbandonati fino a lasciarli morire». Da parte sua, mons. V. Paglia, presidente della Pontificia accademia della vita, ha definito la morte di Lambert una «sconfitta per l’umanità», poiché «una società è umana se protegge la vita».
È un fatto drammatico che mi ha ricordato il caso di Charlie Gard e il delicato e complesso dibattito che allora si era aperto da cui ho raccolto quanto esporrò. Penso che il contributo che scrissi allora possa aiutare a chiarire ciò che è in gioco in queste o in altre situazioni limite.
Charlie Gard soffriva di una sindrome di deplezione mitocondriale, una rarissima malattia genetica che provoca in chi ne soffre, una progressiva paralisi che lo porta alla morte. I medici del «Great Ormond Street Hospital» (Londra), provarono diverse terapie – tenendolo in vita con la respirazione assistita e la sonda nasogastrica. Di fronte all’impossibilità di ottenere un risultato favorevole, ritennero che non ci fosse soluzione e che mantenerlo in una situazione del genere voleva dire aumentare la sua sofferenza e provocare un inutile spreco.
La direzione dell’ospedale chiese l’autorizzazione al competente tribunale per disconnetterlo e avviare una terapia palliativa. I genitori si opposero frontalmente. Dopo aver messo in atto un complesso processo giudiziario, il 24 luglio 2017 comunicarono che si era giunti ad «un punto di non ritorno» e deploravano «il moltissimo tempo sprecato».
Le considerazioni del teologo Massaro
Tra i numerosi contributi che ci furono allora, ricordo quello di R. Massaro. Questo giovane dottore in teologia morale e bioetica propose tre considerazioni che ritengo del tutto opportune, perché aiutano a chiarire il dibattito sull’eutanasia (aiutare a morire affrettando il decesso), la distanasia (accanimento terapeutico allo scopo di ritardare la morte) e l’ortotanasia (lenire la sofferenza senza alterare il corso della morte).
Nella prima delle sue considerazioni, Massaro si domandava chi avrebbe dovuto decidere quando, come nel caso citato, ci fosse uno scontro totale tra il parere dei medici e la volontà dei genitori. È opportuno tener sempre presente – rispose – la liceità del ricorso, come indica la Congregazione per la dottrina della fede nella sua Dichiarazione sull’eutanasia, i «mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se in fase sperimentale e non del tutto privi di rischi». Ma occorre tenere presenti anche la consistenza dei dettami e le sentenze della giustizia quando concordano che proseguire con le terapie di supporto vitale o provare altre terapie sperimentali sarebbe una forma di accanimento terapeutico.
Il magistero cattolico difende la legittimità e, anche, la necessità di «interrompere trattamenti medici costosi e pericolosi, straordinari o sproporzionati».
In queste circostanze – sottolineò R. Massaro – non ritengo che la volontà dei genitori debba essere «assolutamente vincolante». Nemmeno mi sembra indiscutibile che «difendere la vita fisica ad ogni costo sia sempre un bene per il malato». E ritengo che non siamo di fronte a una decisione da definire come eutanasia, ma piuttosto davanti a ciò che la Chiesa cattolica considera una legittima «interruzione dei trattamenti medici onerosi, pericolosi, straordinari o sproporzionati rispetto ai risultati». Ciò che si voleva, in sintonia ancora una volta con il magistero ecclesiale, non era «provocare la morte», ma rifiutare «l’accanimento terapeutico» o la «distanasia».
Nella seconda considerazione esaminava quand’era lecito sospendere la terapia. R. Massaro proponeva di tener presente la dottrina tradizionale sulla proporzione dei mezzi e i contributi più recenti di R. MacCornick. Questo gesuita statunitense sosteneva che ciò che era in gioco non era l’incalcolabile valore della vita, ma se il malato aveva o no – in coerenza con questo indiscutibile valore – potenzialità per vivere fisicamente e, così, partecipare al più alto dei beni: godere del rapporto con Dio e con il prossimo.
Se una persona (neonata o malata terminale) non presenta alcuna possibilità di sviluppare tali relazioni, allora qualsiasi sforzo per mantenerla in vita non è obbligatorio e nemmeno benefico in ordine al superiore interesse di queste persone.
Infine, nella terza considerazione, si domandava come procedere quando veniva chiesto di ricorrere a nuove terapie che non assicuravano alcuna speranza di cura e non garantivano alcun potenziale di relazioni significative. Un malato in queste condizioni deve essere abbandonato? Se la medicina ha fallito – ha concluso Massaro – non può e non deve fallire il fatto di cercare tutte le possibilità che permettano al malato di concludere la sua esistenza in maniera dignitosa. Pertanto si deve fare in modo che possa godere dell’affetto dei suoi genitori e delle persone care, ritornare (se possibile) al suo ambiente familiare, contare sulla preghiera e la vicinanza della comunità cristiana e alleviargli, naturalmente, la sofferenza nella misura umanamente possibile («ortotanasia»).
Credo che queste considerazioni offerte da R. Massaro due anni or sono possano aiutare a chiarire il dibattito sulla morte di Vincent Lambert. E credo che possano aiutare anche noi ad affrontare , quando ci toccherà una situazione simile o, in ogni caso, quando dobbiamo scrivere o – se si ritiene opportuno – rivedere il nostro testamento biologico.