È noto che, recentemente, il Parlamento francese ha proposto una modifica della Costituzione nazionale per includere il diritto a «interrompere la gravidanza» e, qualche giorno fa, il Parlamento europeo ha votato per una tale inclusione anche nella Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione (che è documento distinto della Convenzione europea dei diritti umani). Tale inclusione può avvenire, però, soltanto con l’unanimità di tutti gli Stati membri e, anzi, con una procedura speciale assimilabile a una modifica costituzionale.
Nascituro e Convenzione sui diritti del fanciullo
Molte sono state le voci autorevoli che hanno protestato contro un simile orientamento contrario a uno dei diritti primari dell’essere umano, quello alla vita. Tanto più sorprende che si voglia facilitare l’aborto, quando tutta l’Europa occidentale è in fase di denatalità.
Avendo seguito l’elaborazione di alcuni testi di diritto internazionale, trovo che la negazione del diritto alla vita sia in contrasto anche con la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, approvata dall’ONU a New York il 20 novembre 1989 e ratificata – mi sembra – da tutti gli Stati europei. In ogni caso, essa è punto di riferimento per il diritto internazionale.
Nel Preambolo si afferma esplicitamente: «… tenendo presente che – come indicato nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo – il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita». Non si parla di diritto della madre (che non si intende negare), ma qui si tratta di un diritto di cui sono titolari il nascituro e il nato.
Origine della Convenzione
Per comprendere la portata di tale dichiarazione, conviene riandare all’origine di quella Convenzione. Nel 1978 si celebrò l’Anno internazionale del fanciullo e, nel gennaio del 1979, l’ambasciatore di Polonia suggerì alla Commissione dei diritti umani dell’ONU, riunita a Ginevra, che sarebbe stato opportuno concludere l’Anno internazionale del fanciullo adottando una Convenzione sui diritti del fanciullo, trasformando il testo che già esisteva sotto forma di Dichiarazione.
Le delegazioni occidentali rimasero sorprese da una proposta inattesa e imprecisa, perché, per un testo che abbia valore legale, occorre definire bene chi siano i titolari: c’è il fanciullo (child) appena nato, poi quello della scuola primaria, poi l’adolescente… Stabilire norme eguali per le varie età non è facile.
Ma vi erano due fattori favorevoli per accettare, malgrado tutto, la proposta polacca.
Il primo era di carattere politico: Varsavia (incoraggiata dalla recente elezione di un papa polacco) aveva preso l’iniziativa senza consultare previamente Mosca e questa era terribilmente irritata che uno Stato “satellite” si prendesse tale libertà. Per gli occidentali si presentava, quindi, l’opportunità di spaccare il blocco sovietico.
Il secondo fattore, ancora più importante, era di carattere diplomatico. Da ben 25 anni era all’ordine del giorno un progetto di Dichiarazione contro tutte le forme di intolleranza fondate sulla religione e/o la Convenzione, originariamente proposta da un’associazione ebraica nel 1952.
Ma i sovietici obiettavano che, con questo documento, si affermava in realtà la libertà di religione, mentre essi erano disposti (secondo la dottrina marxista, che ufficialmente restava valida per loro) soltanto a una tolleranza del fenomeno religioso che, con il progresso della scienza, sarebbe scomparso ben presto.
I diplomatici occidentali fecero comprendere al collega polacco che, se egli avesse dato un qualche appoggio alla Dichiarazione, almeno con un’astensione invece che con voto negativo, avrebbe ottenuto un sostegno alla sua proposta. Tutto ciò, ovviamente, era avvenuto dietro le quinte e nei colloqui di corridoio.
E così avvenne. Colti di sorpresa, nell’ultima seduta notturna valida, dalla proposta formale del Canada di approvare i primi tre articoli della Dichiarazione contro l’intolleranza religiosa (testi già comunque approvati in altri documenti onusiani), i sovietici non seppero reagire che astenendosi.
Rotto il blocco, la Dichiarazione (grazie a un affiatato gruppo di sostenitori) riprese, negli anni successivi, il suo percorso per gli articoli aggiuntivi arrivando, nel 1981, all’approvazione (con qualche modifica) da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Ma si doveva fare qualcosa anche per la proposta polacca e, già nel 1979, la si pose all’ordine del giorno da formulare l’anno successivo. I dibattitti procedettero in modo molto più veloce del solito. In sostanza, si decise di adottare lo stesso Preambolo della Dichiarazione del 1959, cambiando ovviamente il titolo (da Dichiarazione a Convenzione) e includendo formulazioni internazionali, successive al 1959, sul valore dell’ambiente familiare e sull’importanza di un’educazione alla pace e all’uguaglianza…
Dibattiti sui diritti del bambino prima e dopo la nascita
Ma, nel 1981, il Gruppo di lavoro soppresse la determinazione (prevista anche nel progetto di Preambolo della Convenzione, così come esiste in quello della Dichiarazione) che il bambino ha diritto a una protezione giuridica «sia prima che dopo la nascita». Gli stati occidentali che permettevano l’aborto ritenevano, infatti, che quel testo fosse contrario alla loro legislazione.
Tutto il dibattito avveniva in tempi rapidi, in un quadro incerto tra la simpatia verso l’infanzia e la conformità alle norme giuridiche, nel contesto anche del confronto politico sopra accennato, in cui la delegazione USA aveva un peso particolare. Chi desiderava una maggiore protezione della vita non aveva rinunciato a che si parlasse di un tale diritto anche prima della nascita.
Alcuni anni dopo, la stessa Delegazione americana, sotto la presidenza di Ronald Reagan, contrario all’aborto, chiese, prima che il testo giungesse all’Assemblea Generale dell’ONU, che si re-introducessero le parole sul diritto del bambino a una «protezione legale appropriata sia prima come dopo la nascita». L’Assemblea approvò il testo così formulato.
Quando uno diventa essere umano?
Nel desiderio di offrire all’opinione pubblica una testimonianza dell’interesse dell’ONU per il fanciullo, la Commissione per i diritti umani si affrettò ad approvare almeno due articoli: uno generico e il secondo che definiva cosa si intende per «fanciullo». Il testo diceva: «Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano dalla nascita ai 18 anni».
I diciotto anni parvero agli occidentali un’età troppo alta, ma nessuno era documentato su quanto diceva il diritto al lavoro e quello umanitario, i quali stabiliscono che uno va considerato fanciullo fino 15-16 anni. Si decise, allora, che si lasciasse «18 anni», ma che si ritornasse a rivedere tale indicazione successivamente nella plenaria della Commissione (cosa che non avvenne).
Invece (pur riservando la definizione di “bambino” ai sensi della Convenzione e non volendo dare una visione universale), fu contestato il passaggio in cui si dichiarava che il bambino iniziava ad essere considerato tale dalla nascita. Ciò lasciava intendere che, prima della nascita, non ci sarebbe un essere umano, contro quanto moltissimi affermano e contro quanto lo stesso Preambolo presuppone, se il bambino è portatore di diritti già prima della nascita.
Inoltre, in tale testo appariva più la definizione di «minore», concetto giuridico diverso da quello di fanciullo (alias: bambino). Fu quindi tolto all’unanimità quel «dalla nascita», per cui l’articolo non determina quando uno è essere umano (embrione, feto, capace di relazioni, autosufficiente…): per la Convenzione, bambino è ogni essere umano fino all’età di 18 anni (a meno che una legge nazionale non preveda un’età inferiore).
Questo è il testo che ora abbiamo, sul quale si può formulare qualche commento.
Il Preambolo parla di diritto alla protezione anche del nascituro e non considera la gestazione materna come semplice fenomeno fisico concernente soltanto la madre incinta. È vero che un Preambolo non ha valore strettamente giuridico, come lo hanno gli articoli del dispositivo, ma resta pur sempre un testo che va considerato per l’ermeneutica degli asserti legislativi.
Ora, se un fanciullo ha diritto a una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita, non si comprende come si possa negare che un feto sia un «essere umano». Ovviamente vi è chi va contro la logica, ma la cultura europea ci ha insegnato il rispetto della stessa. Tanto più se si verifica l’origine storica di quell’articolo 2, diventato, nella versione finale, il primo della Convenzione. Nell’art. 6 della Convenzione si afferma che «gli Stati parti [si definiscono “parti” quei Paesi che hanno ratificato un trattato internazionale e si sono impegnati a rispettarne e attuarne le disposizioni, ndr] riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita.
Cattolici e universalità dei diritti umani
A chi accusa la religione di essere un freno per il riconoscimento dei diritti umani, andrebbe ricordato che non ci sarebbe stata una Dichiarazione universale degli stessi, se i gruppi religiosi non fossero intervenuti.
Le disposizioni della Lega della Società delle Nazioni intendevano proteggere le minoranze, in quanto gruppi. Ma, durante il ventennio tra le due guerre, emersero alcune proposte di elenchi di diritti umani fondamentali, come quella dell’Unione giuridica internazionale del 1919, dell’Istituto di diritto internazionale del 1929, e dell’Accademia diplomatica internazionale nel 1930.
Nell’aprile 1941 si tenne la XV Conferenza annuale dell’Associazione cattolica per la pace internazionale (CAIP) che preparò una Dichiarazione sui diritti umani (testo elaborato con la collaborazione del gesuita Wilfred Parsons), la quale passò poi alla Commissione ONU).
Nel dicembre di quello stesso anno, la Conferenza nazionale cattolica per il welfare (precorritrice della futura Conferenza episcopale) chiese al presidente Franklin D. Roosevelt una conferma ufficiale sull’impegno per i diritti umani nell’auspicata Organizzazione delle Nazioni Unite.
Una grande eco, con molte traduzioni, ebbe il volume del filosofo cattolico Jacques Maritain su I diritti umani e la legge naturale, apparso in francese a New York nel 1942.
Anche sotto tali pressioni il Presidente americano, durante il 1941, in due riprese, dichiarò che la futura ONU avrebbe dovuto assicurare almeno quattro libertà universali: di espressione, di fede, dall’oppressione e dalla fame e dalla paura. Facendo eco a tali istanze, papa Pio XII, nel radiomessaggio del Natale 1942, insisteva sulla necessità di rispettare i diritti umani (elencandone alcuni, iniziando dalla libertà religiosa).
In un documento dell’agosto 1941 – conosciuto come Carta Atlantica – si parlava con il premier britannico W. Churchill di un nuovo ordine internazionale fondato sulla libertà, ma senza elencare alcuna espressione.
Di fronte alle critiche a tale riguardo, il Presidente americano rispose che, con la parola «libertà», si intendevano anzitutto quelle di religione e di informazione. Un buon numero di Stati aderì a tale documento, aggiungendovi alcuni principi sui diritti umani.
Dal 21 agosto al 7 ottobre 1944 si tennero a Dumbarton Oaks delle “conversazioni” tra USA, Regno Unito, URSS e Cina per stabilire gli Statuti delle future Nazioni Unite.
Quando il testo fu pubblicato, fu una delusione totale per i sostenitori dei diritti umani. Non c’era nessun accenno. Si intuisce da ciò come il presidente Roosevelt si fosse trovato isolato. Gli inglesi erano piuttosto freddi al riguardo, i sovietici decisamente contrari, i cinesi smarriti in un discorso che sfuggiva loro (e occupati nelle lotte su altri fronti). I francesi non erano presenti.
In quel momento intervennero negli USA (non congiuntamente, come si farebbe oggi, ma su linee parallele) l’Associazione americana degli Ebrei, il portavoce dei protestanti USA e l’organismo che rappresentava l’episcopato cattolico.
I cattolici, sempre nel 1944, pubblicarono, su Pattern for Peace, un volume, a cura del gesuita John C. Murray, riassumendo in un Allegato le posizioni concordi dei tre gruppi religiosi. Tutti chiedevano al presidente Roosevelt di colmare quella lacuna ed egli (ovviamente con l’appoggio degli Stati che avrebbero visto volentieri quell’elenco di diritti accolto nella Carta dell’ONU) riuscì a inserire nel testo finale (quello firmato a San Francisco) alcuni riferimenti e soprattutto ottenne che l’ONU assumesse l’impegno di elaborare una Carta universale dei diritti umani.
In tempi brevi, si riunì a Parigi una Commissione, sotto la presidenza della vedova di Roosevelt e del francese René Cassin. La Santa Sede non faceva parte del gruppo che aveva elaborato i testi (non essendo ancora riconosciuta a livello multilaterale), ma il pensiero cattolico, oltre che dai delegati cattolici, era ben presente attraverso l’opera di Maritain.
L’episcopato americano continuò a interessarsi all’elaborazione del testo onusiano. In un comunicato del 18 luglio 1947, ad esempio, scrisse al Comitato onusiano di redazione, ringraziandolo per aver accolto parecchie (several) sue precedenti proposte, mentre ne suggeriva delle altre.
Inoltre, va ricordato che lo stesso portavoce dei protestanti USA, il quale, a Parigi, seguiva in modo ufficioso i lavori, ha scritto che, se l’iniziativa della Dichiarazione universale è arrivata a buon fine, molto si deve al contributo del nunzio apostolico Angelo Roncalli (futuro papa Giovanni XXIII). Lo stesso giudizio è presente in due articoli da René Cassin, ebreo, considerato in Francia il «padre della Dichiarazione universale».
Nessuno è riuscito a sapere cosa concretamente il nunzio Roncalli abbia fatto, ma queste testimonianze sono incontestabili. Egli stesso, nella Pacem in terris, offrirà un ampio appoggio alla medesima Dichiarazione.
Il concilio Vaticano II non accoglie la Dichiarazione in quanto tale, ma molti enunciati ormai consolidati nella tradizione cristiana e alcuni innovativi hanno trovato – se così si può dire – una formulazione ecclesiale della Dichiarazione.
Un altro papa santo, Giovanni Paolo II, con l’enciclica Redemptor hominis, ha riassunto ed esposto mirabilmente il pensiero filosofico e teologico cristiano che sta alla base degli stessi diritti, della loro universalità e della loro potenzialità.
Papa Francesco richiama in particolare i diritti degli “scartati” della società, ma anche vari altri diritti. La sua leadership morale è altamente riconosciuta.
Speriamo che proprio l’Occidente, che è stato paladino dei quei diritti, non si illuda di progredire distruggendo ciò che è originario e originante della dignità umana.
- Mons. Luigi Bressan, arcivescovo emerito di Trento, ha prestato servizio diplomatico come segretario della Nunziatura apostolica di Seoul in Corea, dal 1971 al 1974, e in quella di Abidjan dal 1974 al 1976. Passava poi alla Segreteria di Stato ad occuparsi dei rapporti con gli organismi internazionali, prima di venire inviato a Ginevra, nel dicembre 1978, presso l’Ufficio delle Nazioni Unite. Nel 1983 viene nominato inviato speciale della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo. Il 3 aprile 1989 viene eletto arcivescovo titolare di Severiana e Pro Nunzio Apostolico in Pakistan. Nel luglio 1993 è nominato Nunzio Apostolico in Thailandia, Singapore e Cambogia, e Delegato Apostolico in Malesia, Brunei e Myanmar (Birmania).