Omertà e intimidazione sono tratti caratteristici della mafia; collateralità e connivenza scattano anche solo per l’indifferenza generale. L’ex procuratore Antonio Fojadelli richiama alla vigilanza e all’impegno di ciascuno come resistenza a qualunque tentazione di compromesso.
Il mafioso può anche cambiare vita, ma i nomi non li fa; altrimenti è un uomo morto. Omertà e intimidazione sono le due caratteristiche dell’associazione criminale di tipo mafioso. Parte dai fondamenti, l’articolo 416bis del codice penale l’intervento di Antonio Fojadelli al seminario-laboratorio “Etica sociale ed educazione alla legalità” promosso dalla Facoltà teologica del Triveneto con il contributo della Regione Veneto.
Pretore a Venezia dal 1970 al 1978 e poi sostituto procuratore fino al 1992; coordinatore della Direzione distrettuale antimafia a Venezia dal 1992 al 1997; procuratore capo presso il tribunale di Vicenza dal 1997 al 2003 e poi di Treviso fino al 2011, Fojadelli nella sua quarantennale carriera in magistratura conta diversi successi, fra cui lo smantellamento della mafia del Brenta.
È di questi giorni la notizia di un’inchiesta della Dda di Venezia che ha documentato la ricostituzione di un’organizzazione di cui facevano parte molti ex affiliati di Felice Maniero con un piano criminoso per il controllo del territorio.
Una crisi diffusa
«L’etica è un complesso di norme di comportamento in cui una società si identifica. Anche l’etica criminale, mafiosa è un’etica: pensiamo a Provenzano, alla sua sobrietà di vita, al rispetto per le donne, per la religione. Chi viene meno all’etica è l’infame, colui che parla; chi è debole di carattere rappresenta un rischio e va soppresso» ha spiegato Fojadelli, che ha proseguito insistendo sulla necessità di contrapporre all’etica mafiosa l’etica della legalità.
«Oggi una profonda crisi investe i principi del rispetto e della lealtà nel rapporto fra l’individuo e il potere, l’Autorità. Con la A maiuscola – chiosa – intendo un concetto di gerarchia non economica, non sociale né meritocratica, ma la piramide delle responsabilità cui non si può sfuggire e a cui ciascuno è chiamato, soprattutto chi governa. È evidente la crisi dei partiti, del concetto di rappresentanza politica (quante volte il cittadino dice: “non m’importa, sono tutti uguali!”), della pubblica amministrazione, delle istituzioni (pensiamo alla magistratura con il caso Palamara)».
Una crisi più ampia colpisce tre aree fondamentali che un tempo operavano ed educavano con alleanza: la famiglia, la scuola, la Chiesa.
Diritto ed etica: rilegittimazione ed educazione
Di fronte a questo quadro occorre reagire ed essere propositivi. Come? «Attraverso una rilegittimazione – risponde Fojadelli –, attraverso l’educazione intesa nel senso etimologico di trarre fuori dall’individuo ciò che ha già dentro: vivere nella società nel rispetto di regole certe in cui ci identifichiamo, cioè della legalità, dei principi etici e in obbedienza alle leggi».
Si pone qui la questione: quale legalità? Un adeguamento alla norma positiva? Così inteso, il concetto di legalità richiamerebbe alla mente l’adesione cinica e formale del periodo nazifascista, cui gli Stati reagirono con un complesso di norme superiori alle leggi ordinarie: le Costituzioni. «Le norme qualificanti le Costituzioni hanno un contenuto etico – sottolinea – non giuridico, perché affermano principi della società a cui appartengono: il rispetto per la vita, l’uguaglianza, i diritti inviolabili dell’uomo e i doveri inderogabili (esemplare l’art. 2 della nostra Costituzione)». C’è una distinzione concettuale fra il mondo formale del diritto e il mondo sostanziale dei principi: «Soltanto questi fondamenti sono il soffio che dà vita al diritto, il quale potrebbe, da solo, portare a esiti tragici (vedi nazismo e fascismo). È questo l’anello che lega diritto ed etica».
Vigilanza individuale contro ogni compromesso
Se i caposaldi si indeboliscono, si allentano i confini fra mondo legale e mondo criminale. Il valore della lealtà sostituito con la sopraffazione, la supremazia, il potere economico, l’esasperata affermazione dell’io non coincide forse con gli obiettivi della criminalità? Acquisire denaro perché genera potere che a sua volta genera denaro è il circolo tipico della logica criminosa.
«Collateralità e connivenza rendono difficile riconoscere l’area del lecito dall’illegale. C’è rischio di contiguità. Pensiamo all’usura, che crea alleati: chi denuncerà chi gli fornisce il denaro di cui necessita? Oppure alle infiltrazioni nelle imprese in difficoltà, agli appalti, al gioco clandestino. Ma l’area della contiguità, mano a mano che ci si allontana dal centro, diviene sempre meno riconoscibile. L’evasione fiscale, grande o piccola, per la quale ci autoassolviamo (“pago già tante tasse!”), si inserisce a pieno titolo nel circuito criminale e diventa una sorta di complicità, come anche la nostra indifferenza».
È necessario quindi un accrescimento della nostra sensibilità per distinguere l’etica accettabile e l’etica non accettabile, per cui è fondamentale il ruolo dell’educazione. «La vigilanza individuale deve diventare resistenza a qualunque tentazione di compromesso».
Il senso della legalità deve partire dalle istituzioni. «Non bastano i grandi proclami – afferma Fojadelli – ma occorre essere incisivi sul piano politico e prima di tutto culturale». Certo, lo Stato deve fornire i mezzi adeguati di contrasto alle diversificate forme di criminalità. La microcriminalità, in particolare, è il mondo in cui la mafia fa proseliti: facendo balenare la prospettiva di un futuro di benessere economico, si crea alleati e costruisce un consenso diffuso che diviene omertà a difesa del tacito patto instaurato. Di nuovo, omertà e intimidazione. Il cerchio si chiude.
«L’ultimo pericolo – conclude Fojadelli – è la rassegnazione. Pensare che la criminalità è sempre esistita, che non ce la faremo mai a vincerla e tanto vale adattarsi e cercare il male minore, cioè convivere, è esattamente ciò che la criminalità desidera. Quando c’è silenzio attorno a noi vuol dire che la criminalità lavora in pace».