Entro la cornice di questo controverso panorama teologico, risulta evidente la delicatezza dell’insegnamento dottrinale sull’infinita dignità che compete all’uomo, anche quando egli si trova in condizioni vitali “indegne” e persino quando è per sua colpa diventato moralmente indegno (“Domine non sum dignus”). Tuttavia il Dio cristiano della tenerezza continua a dischiudere il perdono a chi (sempre “degno ontologicamente”) si voglia pentire.
Discernere la dignità
C’è un altro elemento culturale che ci fa sentire il dovere di sfidare la dilagante disumanità e di pronunciarci come cristiani su argomenti di etica della vita. Si tratta della grande rilevanza che papa Francesco ha voluto attribuire al discernimento quale dimensione necessaria e non come fattore opzionale della comprensione casistica singolare. Nei paragrafi successivi al n. 300 di Amoris Laetitia, l’esortazione apostolica sull’amore nella famiglia (2016), il papa denuncia l’ipotesi che esistano semplicistiche ricette valutative. Le coppie che vivono momenti difficili meritano dai pastori una comprensione affettiva, un’ interpretazione di senso e un’intelligenza (nel senso di intus-legĕre, leggere dentro) riguardo ai loro dubbi.
I diversi fattori conflittuali non possono venir catalogati astoricamente entro norme legalistiche simili a quelle del diritto canonico. Si tratta di applicare l’etica. Ora, applicare significa ad-plicare, cioè piegare un tessuto grazie a cui si confeziona l’abito per un corpo, che ha una specifica spigolosità o tratti imprevedibilmente lisci, che altri corpi non possiedono[1]. Quando il sarto “fa la piega” non scopre solo la verità delle membra, ma anche la qualità, i limiti e i pregi del tessuto. Il moralista, analogamente, impara qualcosa di sé e dei suoi strumenti, quando “fa” la morale.
È anche per questo motivo “dottrinale” che (così congetturiamo) Papa Francesco ha chiesto al Prefetto del DDF di riflettere sulla nozione cristiana di fraternità e dignità, alla luce dell’insegnamento di san Giovanni Paolo II: la dignità di tutti gli esseri umani va onorata “al di là di ogni apparenza esteriore e di ogni caratteristica della vita concreta delle persone”[2]. Il DDF, per sua esplicita ammissione, non può produrre un trattato di etica teologica né presentare un elenco di argomenti “esaustivo”. Gli basta coniugare l’universalità del principio (rispetto della dignità) con le specifiche tematiche in discussione.
Condizionamenti, circostanze attenuanti, diversi gradi di imputabilità, orientamenti personali (stiamo riprendendo ancora da Amoris Laetitia, par. 304) vanno considerati globalmente e sarebbe meschino limitarsi a qualificare, in maniera binaria, con un sì o con un no, la pertinenza esteriore di una decisione o di un’azione rispetto a una precettistica promulgata a priori, ossia prescindendo dalla complessiva fedeltà a Dio espressa nel corso di un’intera esistenza segnata da una Gestalt irripetibile. La Chiesa continua a predicare un autentico ideale di vita e nel contempo invita a misurare e indicare le strade migliori per raggiungerlo.
Questo aveva ed ha a cuore Papa Francesco. Le citazioni autoriali del DDF costituiscono le pietre di un’edificazione intellettuale che poteva avere, ovviamente, anche uno stile differente[3]. Ciò significa che il DDF sa di aver lavorato (applicativamente) con un certo tipo e una certa ampiezza di “tessuto” e di averne confermato i pregi. Il momento storico è complesso (scrive il Prefetto concludendo la sua Presentazione), e dunque il lettore è autorizzato a immaginare anche supplementari vie argomentative, che propizino un discernimento, questo sì indispensabile, per affrontare concrete, individuali situazioni dilemmatiche.
L’importanza di Kant
Il DDF non commenta espressamente il lascito kantiano, che è tornato in grande spolvero nel dibattito etico (e non solo) contemporaneo, e ha fortemente influenzato i pensatori cristiani in tema di etica della vita[4]. Nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant formula la versione personalistica dell’imperativo categorico[5]: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.
Ora Kant precisa che ciò che costituisce la condizione necessaria perché qualche cosa possa essere un fine in sé, non ha un valore relativo, o prezzo, ma un valore intrinseco, cioè dignità[6]. Soltanto la moralità e l’umanità (in quanto capace di moralità) possono avere dignità[7].
Ad esempio, la fedeltà nelle promesse e la benevolenza-per-principio non hanno prezzo. Hanno un valore intrinseco e le azioni derivanti da tali massime sono compiute da una volontà che merita rispetto immediato, poiché per imporle alla volontà basta la sola ragione. La legge morale stessa è un “fatto di ragione” e le sue massime sono in grado di dar luogo a una legislazione universale. “Tale legislazione, da cui scaturisce ogni valore, appunto per questo ha dignità cioè una validità incondizionata e incomparabile nei confronti della quale solo il «rispetto» costituisce l’espressione adeguata della stima che un essere ragionevole deve tributare ad essa”.
“Santità”, scriverà Kant, è quella volontà che è in accordo con le leggi dell’autonomia[8]. Ove per autonomia s’intende quel carattere della volontà, per cui essa è legge a se stessa. La legge non comanda cioè in nome di qualcos’altro, di un bene prestabilito, di uno scopo da raggiungere.
L’opzione filosofica del DDF prende implicitamente le distanze da chi, come Kant, esclude che la ragion teoretica possa conoscere (ossia dimostrare o negare) ciò che trascende l’ambito dell’esperienza. Ma del contributo di Kant all’etica non si può oggi fare a meno. In ambito pratico, infatti, il “fatto” della legge morale attesta che l’uomo partecipa di un principio assoluto, incondizionato. Il fascino che Kant, nonostante i suoi aspetti controversi[9] e le sue incerte tesi applicative[10], ha esercitato sul pensiero del credente consiste nell’aver tolto alla ratio moderna la presunzione di esaurire la realtà. Kant potè dire di aver soppresso il sapere per far posto alla fede, una fede anch’essa razionale, perché la ragione determina la volontà indipendentemente da calcoli, inclinazioni, desideri.
Il formalismo e il rigorismo kantiano non hanno impedito a filosofi cristiani di elaborare, come dicevamo, un personalismo fondato sulla versione umanistica dell’imperativo categorico (piuttosto che sull’universalizzazione delle massime) e sulla riconsiderazione della corporeità, alla luce della lezione fenomenologica. Per tali prospettive, “la peculiare dignità della persona umana, in quanto agente libero e razionale, costituisc[e] un vincolo morale per le decisioni” di fine vita[11], il che la distingue dalle impostazioni utilitaristiche e libertarie e la differenzia da certe teorie oggettivistiche tradizionali della legge naturale e dall’ossequio di beni particolari come la vita fisica.
L’incommensurabile dignità della persona non è riferibile (in questa ottica) né a componenti biologiche della sua “natura” né alla performance intellettuale (che certe condizioni patologiche precludono) né a preferenze soggettive espresse dall’individuo. Ne conseguirebbe che gli unici casi in cui la morte potrebbe essere legittimamente anticipata (e che neppure l’imperativo neokantiano potrebbe sempre e sotto ogni aspetto condannare) sarebbero quelli in cui si intende evitare una radicale compromissione della medesima dignità personale.
Pur elevando alcune riserve a queste impostazioni[12], anche il nostro approccio teologico di tipo ermeneutico-narrativo impone una risignificazione della nozione di “suicidio” per evitare la precipitosa condanna di tutti quegli atti che aiutino a custodire e dispiegare la massima dignità personale e la bellezza corporea della vita, la quale si stia purtroppo spegnendo in un penoso degrado.
Una dottrina, più teologie/filosofie
Comunque la si pensi, la collaborazione fra le distinte istanze ecclesiali (pastorale, dottrinale, teologica), unite dalla comune fede cristiana, consente di esprimere sinergicamente l’annunzio evangelico. Ciò facilita inoltre una comprensione più sicura di importanti elaborati normativi, come quello che stiamo esaminando. Il kerigma e la speranza che lo accompagna si articolano e chiarificano dandone ragioni plurime[13].
Se sono plurime è perché la ricchezza della verità non è esauribile da una singola opzione filosofica o teologica. Il “simbolo di fede” è creduto e assieme pensato, ma ciò cui giunge il pensiero è imprevedibile a priori, tanto è vasta e feconda la portata dell’evangelo, che crediamo e annunciamo come cristiani. Il testimone, come ha scritto recentemente Marion, riconosce e trasmette ciò che lo ha sorpreso, convocato, mobilitato, anche se egli non è in grado di comprenderlo del tutto[14].
Opportunamente il DDF scandisce quattro versioni della parola “dignità” e lo fa conservando il medesimo sostantivo, che la molteplice attribuzione svolge in direzioni differenti, ma non sostituisce in alcun modo. La dignità si predica in molti modi (ontologica, morale, sociale, esistenziale) in riferimento alla nozione di “persona” che il DDF sceglie di definire nei termini di Boezio. Viene delineato sinteticamente uno sviluppo storico del tema “dignità” e vengono accolte intuizioni appartenenti persino all’umanesimo cristiano del Rinascimento. Si tratta di opzioni teologicamente praticabili, ma che rimandano ovviamente a sedi teologico-scientifiche per la loro argomentazione, per la ricostruzione più dettagliata e per la risposta alle obiezioni, che l’uomo contemporaneo solleva nel contesto pluralistico in cui viviamo.
La forma del rapporto tra fede e ragione, quale è delineata dal documento in oggetto, testimonia in modo eloquente una delle soluzioni su cui si svolge il profondo dialogo intessuto nelle comunità ecclesiali, al fine di predicare la buona notizia nelle sedi opportune e tradurla in iniziative culturali, pastorali e caritative[15]. L’indicazione di tale soluzione si è presumibilmente giovata della diversa estrazione dei componenti il DDF e della ancor più varia provenienza e ricezione dei contributi accolti e rielaborati negli anni di gestazione del testo.
L’incipit del documento segnala l’apporto di fede e ragione nell’attestare il valore della persona. Esprimiamo quella che ci sembra una coniugazione terminologica pertinente. “Fede” e ”ragione” sono termini inseparabili. “La fede non è né una forma inferiore di pensiero che si misurerebbe su un ideale di sapere che essa non riesce ad adeguare, né un oltrepassamento del pensiero, come se fede e pensiero fossero due forme di pensiero omogenee e giustapposte. Piuttosto fede e pensiero si coappartengono su due piani diversi”.
La loro tensione reciproca equivale a quella tra esperienza concreta e funzione riflessiva[16]. La fede è prioritaria e intrascendibile, ma non soffoca il pensiero su Dio. La fede anzi pensa, nel credere (sa, proprio mentre e perché dà credito al saputo), e innesca così una riflessione su di sé, che la teologia sviluppa. Di contro, il pensiero, che superi i pregiudizi razionalistici, comprende che Dio non può essere pensato come tale se non nella fede.
“Simple case”. I casi semplici
I casi (apparentemente) semplici sono i più difficili, perché nella vita casi semplici non esistono. Esistere è inevitabilmente complesso.
Il DDF denuncia in modo convincente alcune gravi violazioni della dignità umana (cap. 4). Come abbiamo anticipato, la decisione di condannare (o invece elogiare) alcune pratiche ha il vantaggio di qualificare a posteriori il tipo di attitudine etica (teorica e applicativa) espressa in forma generale da proposizioni a priori. In etica questo rimbalzo semantico è intrinseco. Nelle opere si esprime un essere, che sostanzialmente è già tutto presente (secondo l’adagio agere sequitur esse)? Oppure l’essere “si fa”, cioè si plasma anche grazie a scelte responsabili assunte a fronte di un appello, che la vita propone nella figura di un invito (“devi, se vuoi esistere”; “ti perdi, se non accogli lo sguardo proveniente dalla dignità dell’altro”)?
La legge, che per natura lega l’uomo ad alcuni valori supremi, può essere esposta in forme materiali, astoriche, esteriori, anonime? Oppure tale natura trascende, proprio nella sua “dignità”, i confini dell’organismo biologico, e coinvolge i vissuti corporei, il desiderio spontaneo, l’orientamento complessivo del soggetto, al punto che la fede stessa (e non la semplice evidenza teorica di un bene da difendere) si può qualificare come figura costitutiva di ogni agire morale?
Troviamo una brillante esemplificazione di questa oscillazione, confrontando due autorevoli testi di bioetica cattolica d’inizio vita. Citiamo il primo.
“La Fivet omologa è attuata al di fuori del corpo di coniugi mediante gesti di terze persone le cui competenze e attività tecnica determinano il successo dell’intervento; essa affida la vita e l’identità dell’embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio è in sé contraria alla dignità [nostro corsivo] e all’uguaglianza che deve essere comune a genitori e figli […] il cosiddetto «caso semplice», cioè una procedura di Fivet omologa, che sia purificata da ogni compromissione con la prassi abortiva della distruzione di embrioni e con la masturbazione, rimane una tecnica moralmente illecita perché priva la procreazione umana della dignità [ancora nostro corsivo] che le è propria e connaturale”[17].
Il secondo testo è il «testo base» (TB) redatto da un gruppo di lavoro istituito più recentemente da un’Accademia Pontificia, con funzioni di bozza teologica di orientamento e di discussione[18]. Si tratta di un’originale e apprezzabile scelta di metodo, poiché al TB fanno sèguito i commenti di Discussants e Respondents, che esprimono, come è normale in fase di “disputatio”, pareri anche divergenti. Purtroppo, non si evince perché alcuni Discussant non abbiano concesso l’assenso alla pubblicazione del loro intervento[19]. Il confronto fra idee è sempre utile. Per fare un esempio, Carlo Casalone valorizza giustamente il peso delle dichiarazioni anticipate volte alla eventuale sospensione di nutrizione/idratazione artificiale[20], mentre Pablo Requena Meana è più scettico in merito a tale decisione[21].
Veniamo alla sezione relativa alla Fivet omologa “simple case”[22]: “nella procreazione assistita omologa nelle sue varie forme, ovviamente evitando di ottenere ‘embrioni sovrannumerari’, la generazione non viene artificiosamente separata dal rapporto sessuale, perché questo è ‘di per sé’ infecondo. Al contrario, la tecnica agisce come una forma di terapia che permette di rimediare alla sterilità, non sostituendosi al rapporto, ma permettendo la generazione. La PMA eterologa, invece…”.
Stesso caso, pareri diversi e cangianti nel tempo. Del tutto naturale, diremmo. Il pluralismo intra-ecclesiale (cristiano e cattolico) è il segno di una fisiologica e incessante ricerca, proveniente da tradizioni morali non identiche (neotomistiche, neokantiane, intuizionistiche, fenomenologiche, ermeneutiche, narrativistiche e così via), che si confrontano su problemi nuovi e interdisciplinari. In questa delicata fase di studio, molto spazio va lasciato al discernimento pastorale e prima ancora all’ascolto delle voci, purtroppo ancora marginali, degli effettivi agenti morali: singoli, coppie, famiglie, gruppi d’aiuto, associazioni, consigli parrocchiali.
Il Magistero, nel momento di formulazione normativa, fornisce talora linee guida prudenziali, volte a prevenire i più gravi e irreversibili attentati alla vita e alla dignità delle persone, in particolare di quelle più fragili (i morenti, i poveri, i portatori di disabilità, le giovani donne abusate, i nascituri, i figli mai nati). Sulla restante casistica, pare buona cosa consolidare il giudizio, prima di allontanare o escludere (irreversibilmente e definitivamente) dalla comunità alcuni credenti che percorrono strade nuove (e controverse) di maturazione religiosa e civile.
Analogamente si svolge la riflessione volta a promuovere un auto- scrutinio intra-ecclesiale (“self-scrutiny” nei termini della deontologia anglosassone). Si devono cioè studiare, per prevenirle, le cause etico-psico-sociali che hanno indotto soggetti aventi responsabilità ministeriali ad attuare comportamenti moralmente disdicevoli o addirittura a commettere reati infamanti. Si va dall’abuso di soggetti in formazione, alla gestione affaristica di beni della comunità, all’abitudine perversa di calunniare altri fratelli, sorelli e pastori (la pratica corrosiva che Papa Francesco chiama “chiacchiera”).
Tornando all’etica della vita, il DDF critica la maternità surrogata indicandone i tratti che connotano l’utero in affitto: mercificazione del corpo, reificazione del bambino (inteso come prodotto funzionalmente utile a un committente), contrattualizzazione dell’intima relazione gravidica e parentela, sfruttamento delle necessità materiali di una donna.
La nascita “pienamente umana” auspicata dal documento per ogni persona, così intendiamo, non significa l’evitamento materiale di trattamenti biomedici inevitabilmente artificiali e a volte necessariamente intensivi ed invasivi[23], ma allude a una “dignità” fondamentale della generazione (intesa come possibilità, dono, atto d’amore, deliberazione responsabile, compito e promessa di alleanza irrevocabile). In questa ottica nessuno ha diritto a “un’altra persona” e nessuno, nemmeno con buona intenzione, può trattare un figlio con distacco, o considerarlo mezzo di guadagno.
Un ultimo accenno. La felice, ripetuta espressione “tutela della vita umana dal concepimento alla morte naturale”, merita qualche precisazione linguistica, come ogni utile cifra discorsiva, che l’uso frequente può avere offuscato.
La morte “naturale” è quella “degna” (in senso prescrittivo), non quella priva di ausilii artificiali (in senso descrittivo), dato che i presìdi farmacologici o rianimatori devono essere utilizzati nella misura in cui servono a promuovere il maggior bene e interesse del paziente. Del resto oggi sia l’inizio che la fine della vita sono altamente medicalizzati e istituzionalizzati. La nozione di ”tutela dal concepimento”, reciprocamente, significa (come abbiamo argomentato in diverse sedi) offrire a ogni embrione umano, che merita di essere trattato come persona, la possibilità di proseguire il suo prezioso, insostituibile progresso vitale, guadagnando progressivamente le condizioni organiche dell’esercizio delle funzioni superiori, che lo appaiano agli altri componenti adulti della famiglia umana (rationalis naturae).
Le forme di adozione prenatale e la disposizione di sé, da parte di donne e coppie mosse da spirito altruistico, al fine di prevenire un’evitabile morte prematura di esseri umani, non meritano le critiche, che taluni eticisti hanno mosso, equiparando il significato dell’azione a quello di un degradante commercio e/o di una complicità col business della provetta.
Il gender
La discussione etico-teologica più avanzata in merito al tema del gender distingue opportunamente (1) ideologie (del genere) di stampo libertario, individualistico, emotivistico, costruzionistico o de-costruzionistico da (2) semplici prospettive che valorizzano gli apporti dei gender studies internazionali per documentare la molteplicità dei fattori, che concorrono alla maturazione di un’identità sessuale responsabile (nel senso del Leib fenomenologico): fattori organici, genetici, psicologici, socio-culturali, linguistici.
Mentre (1) l’ideologia tende a sciogliere le differenze in una fluidità identitaria nomadica e irriconoscibile, un’adozione (2) consapevolmente critica della categoria di gender abilita alla percezione di quelle sfumature, nuances, inclinazioni originali, che difficilmente possono venire valorizzate da uno sguardo anatomico, biologico o genetico ispirato a uno schematismo binario, generalmente istituito culturalmente a partire dal primato del “maschile”[24].
Il DDF evidenzia correttamente le pericolose derive della colonizzazione ideologica. In parole nostre, la dimensione singolare della dignità esige uno sguardo di rispetto e cura in grado di cogliere ed accogliere, nella comunità civile ed ecclesiale, i soggetti che intendano vivere fino in fondo, di fronte a Dio e ai fratelli, la loro storia (anche la loro storia d’amore), invocando l’aiuto di Dio e della Chiesa nella loro ricerca affettiva e veritativa. Un maturo discernimento consentirà di comprendere le reali differenze intersoggettive in termini di sex e di gender.
Cura pastorale e discernimento, le due cose insieme, aiuteranno il discorso teologico e dottrinale ad operare un’indagine critica argomentata in merito a istanze culturalmente diffuse e talora addirittura “di moda”. Occorre infatti dare una risposta pertinente e razionalmente cogente alle molteplici rivendicazioni avanzate. Il rispetto della dignità personale e la lotta contro le discriminazioni sono sempre dovute. Per il resto, occorre procedere con un esame prudente e articolato.
Alcuni rappresentanti dei movimenti d’opinione non avanzano la pretesa assurda di rendere tutti eguali, ma di essere “visti” e riconosciuti nella loro individualità esperienziale. Non intendono disporre a ogni costo di sé, ma subordinare l’ottica meramente biologistica alla corretta interpretazione etica di vissuti corporei complicati e ambigui. Non teorizzano una separazione brutale tra sex e gender, ma vogliono decifrare senza pregiudizi il senso di quelle situazioni in cui “spontaneamente” (qualcuno direbbe addirittura “per natura”) si esperisce un’attrazione relazionale diversa da quella prevista dal codice genetico.
Non è lecito ridurre alla pura fisicità esteriore e alla struttura anatomo-fisiologica la multiforme fenomenologia della propria auto-affezione (quell’ “io-ipse” che sento specificamente “mio”), poichè è il corpo vissuto (Leib), e non quello anatomico (Körper), che partecipa della dignità infinita propria della persona. Se il dato organismico, che ci precede (nel senso che siamo nati senza volere né poter influire-su quel dato) fosse intangibile eticamente, gran parte degli interventi medico-chirurgici sarebbero criticabili.
La verità della creazione sta, escatologicamente, davanti a noi, nel Regno promesso in cui ingiustizia, malattia e morte saranno sconfitti. E’ perciò coerente che il DDF (al par. 60) avverta del “rischio” che ut in pluribus si corre, quando si tratta medicalmente una presunta malformazione (anche quella di tipo sessuale), e quando viene legittimata l’assistenza terapeutica al fine di “risolvere anomalie” genitali già presenti alla nascita o insorte successivamente[25].
In questa ottica vanno commentati non solo recenti studi teologici[26], ma vanno recepiti anche pronunciamenti dottrinali. La richiesta di due persone di essere benedette anche se la loro condizione di coppia omosessuale è “irregolare” (dato che esse non vivono secondo le norme della dottrina morale cattolica) potrà essere soddisfatta (secondo la dichiarazione del DDF “Fiducia supplicans”, 18 dicembre 2023) previa valutazione del ministro ordinato, evitando che questo gesto di prossimità pastorale contenga elementi anche lontanamente assimilabili al rito matrimoniale.
“Benedizione” è sia quella liturgico-rituale, sia quella spontanea (assimilabile ai gesti della devozione popolare). La benedizione non legalizza lo status quo, ma intercetta e accompagna nello Spirito (il che significa nell’atto di benedizione e in un contemporaneo processo di discernimento) chi tende la mano al fine di compiere la volontà di Dio. Per conferire una benedizione spontanea non occorre richiedere una previa perfezione morale. Liberarsi dal male e non essere abbandonati nella tentazione è appunto il motivo per cui si chiede aiuto a Dio e alla Chiesa.
Verso un dialogo pluralistico
Per concludere, denunciamo e contrastiamo le “tante violazioni della dignità umana che minacciano seriamente il futuro dell’umanità”[27]. E’ esattamente un compito della Chiesa quello d’incoraggiare “la promozione della dignità della persona umana quali che siano le sue qualità fisiche, psichiche, culturali, religiose”. Proprio a fronte del pluralismo (culturale, sociale e religioso) entro cui viviamo, ci auguriamo che vengano stimolate occasioni di confronto con tradizioni di pensiero che interpretano diversamente da noi cattolici il significato di termini quali: dignità, diritti umani, senso della generazione, naturalità del morire, principio di autonomia, dovere di solidarietà.
La seguente domanda, duplice e speculare, potrebbe sollecitare, quale back ground question, un confronto leale tra credenti e non credenti.
- Domandiamo agli uni. C’è un senso religioso della nozione di “qualità della vita”, in forza del quale si potrebbe prendere in considerazione la richiesta di essere lasciato morire, evitando ogni trattamento e anticipando quindi il decesso, richiesta elevata da un malato (infinitamente degno, sempre, in sè), che lamenti (nonostante l’impegno di cura fornitogli adeguatamente) la profondità delle ferite che lacerano la preziosa dignità della sua vita fisica? Fino a che punto può spingersi questo accompagnamento e aiuto a scegliere e realizzare tempi e modi della fine, quando chi soffre si senta sempre più imprigionato in un corpo (divenuto quasi un carcere) usurato nella sua intima bellezza?
- Domandiamo agli altri. C’è un senso laico della nozione di “sacralità della vita” in forza del quale un operatore sanitario o un familiare ateo o agnostico si potrebbe sentire autorizzato a rifiutare il proprio aiuto a dare morte per pietà a chi abbia giudicato in modo coerente, informato e lucido che la sua condizione di vita è di qualità così bassa che, a suo avviso, non è più meritevole di essere vissuta? Non potrebbe esserci un significato secolare della “infinita dignità” di quella vita, in forza del quale (significato) ci si dovrebbe opporre ad agevolare l’interruzione diretta della vita[28]?
Questo scambio di proposizioni interrogative tra due visioni del mondo che sembrano opposte è possibile perché, nonostante e attraverso la loro conflittualità, coloro che le esprimono hanno qualcosa in comune. Essi sentono, da un lato, che la libertà e l’autonomia individuale non hanno l’ultima parola, in quanto la vita deve essere spesa in un modo felice per ciascuno di noi ma, nel contempo, in modo degno davanti a tutti.
Per converso essi avvertono che nessun diritto umano universale, nessun valore “assoluto” (quale la dignità) può essere percepito astoricamente e astrattamente, senza coinvolgere la cifra singolarmente irripetibile con cui il bene si dà a noi, e senza che noi, riconoscendolo, lo lasciamo abitare nel nostro cuore, plasmando il nostro tempo biografico secondo lo stile (e la spiritualità) insostituibilmente personale, che ci appartiene.
- Paolo Marino Cattorini è counselor filosofico e studioso di Bioetica clinica, disciplina di cui è stato Professore ordinario in Università degli Studi. E’ stato componente del Comitato nazionale per Bioetica. La prima parte di questo studio approfondito sul documento del Dicastero della dottrina della fede “Dignità infinita” può essere letta qui.
[1] Sulla nozione di “piega” cfr. Jean-Luc Marion, Da altrove, la rivelazione. Contributo a una storia critica e a un concetto fenomenico di rivelazione, Roma, Inschibboleth Ed., 2022. In merito a Marion abbiamo scritto Ci ha Dio, Venezia, Marcianum Press, 2024.
[2] Cfr. la Prefazione del Prefetto del DDF alla dichiarazione Dignitas infinita nei punti in cui si tematizza l’espressione “al di là di ogni circostanza”.
[3] Il DDF cita altri Papi, le Nazioni unite, organismi dottrinali ecclesiali, Boezio, Tommaso, Cicerone, Clemente, Ireneo, Agostino, Origene, Pico della Mirandola, ma anche Levinas, Mounier, Rahner, Balthasar. Tutti costoro costituiscono esempi di una trattatistica (già di per sé eterogenea) che poteva essere molto più ampia. La nota 18 precisa che gli accenni in tema di dignità si limitano alla cultura classica greca e romana, in quanto punto di riferimento della prima riflessione filosofica e teologica cristiana.
[4] G. Sans, “La dignità dell’uomo. Riflessioni alla luce del pensiero di I. Kant”, La Civiltà Cattolica, 7 marzo 2015, q. 3953.
[5] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza, 1980, con Introduzione di Rosario Assunto.
[6] Ivi, p. 68.
[7] Per Paul Ricoeur, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993, p. 324, Kant usa la parola “umanità” per escludere ogni contraddizione tra la nozione di autonomia soggettiva e quella di diversità delle persone [commenta il gesuita Georg Sans]. Volontà dell’individuo e comunità sociale sono reciprocamente e intimamente connesse, anche se l’uguaglianza della dignità può comportare talvolta un trattamento del tutto diverso. Kant non riconduce il dovere morale al dato biologico (come chi afferma che un organismo umano vale in quanto appartenente alla specie homo sapiens); ciò nonostante Kant non restringe la “dignità” ai soli soggetti capaci di autodeterminarsi. E’ l’appartenenza della persona all’umanità (e la capacità di moralità da parte dell’umanità) che impone di riconoscere la dignità di qualunque persona. Corrispondentemente, rispettare la dignità personale significa valorizzare la capacità dell’uomo di autodeterminarsi. L’imperativo universale è declinato da Kant (scrive Ricoeur) in riferimento alla pluralità delle persone con le loro diversità, alterità, esser-così (ciò spiega la duplicità dell’espressione: tratta come fine l’umanità sia nella tua persona che in quella di ogni altro…).
[8] Kant, cit., p. 75.
[9] G. Angelini, Teologia morale fondamentale, cit., pp. 197 ss. contesta giustamente un’etica che si ritenga immunizzata dalle promettenti evidenze simboliche del bene e da quelle condizioni empiriche, dischiuse dalla vita, in cui ci è donata un’indicazione di senso. Kant cerca di prescindere completamente (e ciò è criticabile) dalle forme storiche dell’esperienza morale, nelle quali tralucono i primi bagliori di un imperativo la cui destinazione è assoluta. Tuttavia una critica simile è stata espressa da alcuni studiosi cristiani anche a quel tipo di onto-teologia, che attribuirebbe al nudo esercizio dell’intelletto (senza ricorrere a simboli, immagini, narrazioni e prescindendo da ogni tipo di fede) il potere di dimostrare l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la dignità dell’umano.
[10] Avendo separato la legge dall’esperienza sensibile, risulta arduo per Kant formulare cogenti norme materiali. Il caso del suicidio è emblematico. Condannato nettamente in linea di principio, esso, nelle Lezioni di etica, Roma-Bari, Laterza, 2004, viene posto in connessione all’intento di sopprimersi, ammettendo che altre interruzioni anticipate della vita possono non rientrare in questa categoria. A p. 172 leggiamo che rischiare la vita contro i propri nemici e magari sacrificarla per osservare i doveri verso se stessi non costituisce un suicidio. La vita non va assolutamente stimata in sé e per sé, ma al contrario andrebbe conservata (per Kant, p. 172) solo nella misura in cui si è degni di viverla. Vi sono cose nel mondo, scrive Kant, di gran lunga superiori alla vita (p. 174). E’ preferibile sacrificare la vita che perdere la moralità (p. 174).
[11] M. Reichlin, L’etica e la buona morte, Torino, Ed. Comunità, 2002, p. XI.
[12] P.M. Cattorini, “Bioetica di fine vita. In margine ad un recente saggio”, Fenomenologia e società, n.1, 2002, pp. 110-117.
[13] Adorate il Signore – raccomanda 1 Pietro 3,15 – sempre pronti a “rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”.
[14] P.M. Cattorini, recensione a Jean-Luc Marion, Da altrove, cit., in La Civiltà Cattolica, q. 4153, 2023, 1/15 luglio, a. 174, pp. 95-96.
[15] Anche la semplice ragione arriva a riconoscere l’infinità dignità umana; la Rivelazione ribadisce e conferma tale primario rango ontologico (così si esprime il DDF al par.1).
[16] Per questo capoverso, abbiamo ripreso espressioni di A. Bertuletti, “Per una fondazione del sapere teologico (E. Jüngel)”, Teologia, 1983, n. 3, p. 254. Cfr. in esteso Id., Dio, il mistero dell’unico, Brescia, Queriniana, 2014.
[17] Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede, Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, Roma 22 Febbraio 1987; il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II approvava il testo presentatogli dall’allora Prefetto Cardinale Joseph Ratzinger.
[18] Lo si legge in Pontificia Accademia per la Vita, a cura di V. Paglia, Atti del Seminario di Studio Etica teologica della vita. Scrittura, tradizione, sfide pratiche, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2022.
[19] Vd. nota introduttiva, p. 12, che segue alla Presentazione del Presidente.
[20] Ivi, p. 446.
[21] Ivi, p. 438. L’autore non indica ragioni legate alla dignità del malato (cioè del soggetto che abbia previamente reclamato in piena coscienza il diritto di vivere i suoi ultimi istanti secondo la propria opzione morale e spirituale). L’ultima frase dell’articolo è infatti riferita all’esperienza altrui: “il tempo passato accanto al paziente, anche quando è privo di coscienza, è un tempo di relazione profonda e può essere un tempo di grazia”. L’autore prevede lealmente che, “tante volte” questa attribuzione di significato non sarà capita.
[22] Ivi, par. 173 a p. 305.
[23] In argomento, cfr. P.M. Cattorini, “Rifare il genere”, Settimana News (online), 9 luglio 2023, pp. 1-11. In Bioetica della generazione, scritto con M. Reichlin, Torino, SEI, 1996, p. 196, prendevamo posizione sul caso della Fivet omologa caso semplice, citando, alla nota 33, un articolo del gesuita catalano M. Cuyas SI, apparso in Rassegna di teologia, 1985, n. 26, pp. 424-439. Sul cosiddetto utero in “prestito”, o “balia d’utero” e sulla temporary motherhood rimandiamo allo spunto riflessivo di S. Leone, Bioetica, fede e cultura, Roma, Armando, 1995, p. 85.
[24] Cfr. la ns. recensione a A. Fumagalli, La questione gender. Una sfida antropologica, Brescia, Queriniana, 2015 [si legga a p. 71 dove si parla di “prospettiva” di genere], in La Civiltà Cattolica, 2016, v. II, q. 3980, a. 167, 23 aprile 2016, pp. 202-203. Rispondiamo ai teologi, che difendono la binarietà basandosi sulle strutture grammaticali della lingua, quello che abbiamo scritto in Mangiare solo pensieri. Etica dell’anoressia, Bologna, EDB, 2016, pp. 190 ss. Si legga anche il nostro “Epilogo sul gender”, in P.M. Cattorini, The End. Bioetica narrativa, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Ed., 2019, p. 252. La scansione in classi grammaticali è legata a giudizi di valore: le classi sono due, oppure tre (generalmente si dimentica la resilienza del neutro) e in certi popoli extraeuropei sono ancora più numerose.
[25] Per ragioni di spazio, supponiamo, il testo non dice come risolvere tali anomalie, dato che è in corso un dibattito etico (come tale non delegabile alla sola bio-medicina) sull’obiettivo da conseguire. Ciò che in passato il chirurgo pediatrico considerava una “normalizzazione” (cioè ottenere generalmente un aspetto somatico femminile in maschi genetici aventi un fenotipo parzialmente femminile per motivi patologici), è giudicato oggi da alcuni come una mutilazione. Inoltre (il DDF lo ricorda opportunamente) non ci sono solo anomalie evidenti alla nascita, purtroppo. Il corpo (con parole nostre) custodisce una perfezione mirabile, ma, data la sua finitezza e morbilità, genera continuamente anomalie, disfunzioni, mutazioni, malattie vere e proprie.
[26] Vd. la Postfazione del compianto collega G. Piana al saggio di A. Fumagalli, L’amore possibile. Persone omosessuali e morale cristiana, Assisi, Cittadella, rist. 2023 (con Prefazione di M. Semeraro).
[27] DDF, par. 66.
[28] Viene alla mente ovviamente il tentativo concettuale di R. Dworkin, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano, Ed. Comunità, 1994.
Troppi contorcimenti mentali. Ci stiamo veramente complicando la vita, che già lo è abbastanza. Gesù ha detto “il vostro parlare sia si si , no no, il resto viene dal maligno”. E Lui conosceva bene di cosa ha bisogno l’uomo.