Andrea Grillo ha commentato sul suo blog la prolusione con cui il vescovo di Adria-Rovigo, Pierantonio Pavanello, il 1° febbraio 2020 ha inaugurato l’anno giudiziario del Tribunale ecclesiastico piemontese, mettendo in luce alcuni «passaggi bloccati» attraverso i quali si sviluppa il ragionamento del vescovo, e chiamando di conseguenza in causa i canonisti per non essere a loro volta in grado di individuare un’ermeneutica appropriata per la comprensione giuridica di Amoris lætitia (AL).
Personalmente, ho sempre creduto che le coppie di sposi possiedano maggiori strumenti di comprensione della materia matrimoniale rispetto ai presbiteri e ai vescovi, ai quali mancano sia la formazione sia l’esperienza necessarie per comprendere a fondo il senso stesso della vita matrimoniale. Ne parlano necessariamente dall’esterno, per sentito dire, o come oggetto di studio. I “canonisti curiali” poi, a loro volta, esagerano nell’attribuire eccessiva importanza alla forma del diritto: si innamorano delle formule e sovente mancano di calarle nella realtà. Perciò pretendono di leggere la vita attraverso gli occhiali del diritto, e spesso dimenticano che quest’ultimo è solo uno strumento per regolare i conflitti, non una sovrastruttura dogmatica con funzioni pedagogiche. Bisognerebbe avere sempre il coraggio evangelico di ricordare che la legge serve all’uomo, e non il contrario.
A scanso di equivoci, chiarisco subito che il vescovo Pavanello conosce bene sia il diritto canonico sia la spiritualità familiare: nel suo stemma episcopale figurano tanto una bilancia quanto una coppia di fedi nuziali. Vuol dire che egli avverte entrambi quali elementi costitutivi della sua stessa funzione episcopale. E infatti il suo intervento torinese mette in luce un approccio canonistico da munus regendi ac docendi.
La sua prolusione verte sul tema canonistico più classico che vi sia, ossia quello dell’accertamento processuale della nullità del matrimonio canonico, che egli opportunamente tratta alla luce dell’esortazione apostolica postsinodale Amoris lætitia, cui riconosce il merito di avere accorciato la distanza fra “norma” e “coscienza” e conseguentemente dato vigore alla funzione pastorale del diritto canonico. Tuttavia, questa novità viene ridotta a una questione vecchia e superata dalla vita, che vale solo in termini pregiuridici: «come riuscire a conciliare la dimensione oggettiva, espressione del sacramento e tutelata dalla norma a cui si provvede nel foro esterno, e quella soggettiva, legata alla coscienza e trattata nel foro interno». A suo avviso il tema va composto nella tensione unitiva di coppie altrimenti solo oppositive: «oggettivo/soggettivo, foro esterno/foro interno, dimensione sacramentale/dimensione morale», che a suo avviso caratterizzano le situazioni «irregolari».
Qui rilevo un primo sostanziale ostacolo ermeneutico che, secondo me, nasce proprio dall’incapacità di indossare gli occhiali di AL per leggere la vita matrimoniale, e continuare invece a utilizzare schemi tradizionali ampiamente superati dalla vita vera, con l’aggravante clericale già menzionata. AL, infatti, non parla mai di “situazioni irregolari”, in quanto supera la logica della regolarità e irregolarità giuridico-formale della vita matrimoniale. Questo costituisce un enorme salto in avanti che fa scendere il concetto stesso di matrimonio canonico dal piano teorico-ideale fondato sul consenso istantaneo – che è l’oggetto del processo di nullità – a quello concreto di una relazione matrimoniale che si sviluppa nel tempo. Non è un caso che il testo si esprima più volte con la formula «situazioni “dette” irregolari», le quali sono identificate come circostanze «di fragilità o di imperferzione» (n. 296), che la Chiesa deve accogliere col discernimento delle coscienze.
Questo passaggio in avanti è sostanzialmente estraneo alla lettura del vescovo canonista, che si concentra sulle “situazioni irregolari” vecchia maniera e riduce il tema alle modalità con cui la Chiesa deve gestire il “problema” di chi vive relazioni matrimoniali successive – o comunque diverse – in costanza di un’unione sacramentale non dichiarata nulla. In poche parole: che fare coi divorziati risposati? Questa riduzione schematica lo porta a considerare la situazione “soggettiva” (che chiama “morale”) necessariamente opposta a quella “oggettiva” (ossia “giuridica e sacramentale») e a valorizzare – giustamente – la funzione del “discernimento in coscienza” proposto da AL come un tentativo di riunire i due poli opposti. A mio modesto parere, questa opposizione nasce esclusivamente da una lettura teorica e pregiudiziale della vita delle persone, che fisiologicamente è – di per sé, almeno tendenzialmente – unitaria. La rottura di questa unità dipende dalle fragilità e dalle debolezze innanzitutto personali, e poi della coppia, della famiglia, della società (civile ed ecclesiale), ma non crea alcuna irregolarità guridica e non necessita di un intervento dichiarativo dell’eventuale nullità di uno dei momenti della storia della relazione.
Questa fissazione della irregolarità centrata sulla sola eventuale dichiarazione della nullità del consenso sacramentale, obbliga le persone che vivono una relazione “cosiddetta irregolare” a fare i conti con il proprio passato innescando un processo – in senso stretto – che si muove tuttora su binari vecchi, diventati inappropriati. La riforma che ha introdotto il processus brevior avrebbe potuto essere un formidabile volano pastorale, capace di fare uscire i vescovi dai tribunali per avvicinarli agli sposi feriti. Sarebbe stata una buona occasione per riavvicinare la Chiesa alla coscienza dei suoi fedeli; ma molti vescovi non ne hanno colto l’opportunità. In Italia si sono limitati a cambiare nome ai tribunali ecclesiastici regionali, gattopardescamente diventati interdiocesani.
A mio modesto parere, questa attitudine ecclesiale a smorzare la portata delle riforme canoniche è un tradimento della funzione pastorale del diritto canonico. L’introduzione del processus brevior apriva ad una rilettura del diritto matrimoniale sostanziale, che nessuno ha avuto il coraggio di sviluppare. La stessa “centralità delle coscienze” si stempera in meri aggiornamenti di facciata. Un esempio di questa tendenza è offerto proprio dalla prolusione del vescovo Pavanello, il quale, davanti alla chiave ermeneutica proposta da AL, non fa altro che riproporre lo schema vecchio della responsabilità giudiziaria. Una questione di coscienza personale diventa responsabilità dei giudici ecclesiastici, definiti «esperti della coscienza dei fedeli cristiani»; e il processo canonico finisce per essere «l’occasione e lo stimolo per quell’assunzione di responsabilità e quella pacificazione della coscienza che costituisce una tappa fondamentale del discernimento stesso». Leggendo il suo intervento si capisce che egli conosce bene la materia, eppure il suo ragionamento resta avviluppato intorno a categorie restrittive e – mi sia permesso di notare – sostanzialmente clericali.[1] Il “discernimento della coscienza” non appare un processo soggettivo del singolo fedele, ma una questione oggettiva rimessa alla decisione del giudice ecclesiastico. In questo modo il processo per l’accertamento della nullità diventa una sorta di “accompagnamento spirituale”.
Questa impostazione è francamente deludente. In termini sostanziali, il rapporto matrimoniale è un fatto soggettivo di cui il diritto canonico colpevolmente si disinteressa fermandosi alla verifica dell’atto di espressione del consenso. Questa postura rende artificiosamente la nullità del matrimonio un fatto oggettivo, che comunque dipende dalla volontà cosciente degli sposi, che unendosi in matrimonio celebrano un sacramento, di cui sono i ministri. Ciascuno di loro infatti ha il potere di “sanare la nullità” sconosciuta o non voluta, ipotesi pressoché ignorata da chi immagina la dichiarazione di nullità come unico rimedio possibile per curare relazioni soggettive ferite o fragili.
In questo contesto, AL indica una prospettiva nuova. I vescovi hanno aperto un processo che necessita di superare con intelligenza schemi interpretativi che sono già superati dalla storia. Bisogna avere il coraggio di ammettere che la scelta matrimoniale non si riduce all’istante del consenso, ma si sviluppa attraverso storie personali che scorrono lungo il tempo e coinvolgono scelte plurali. Il consenso matrimoniale è – nella realtà – un atto di coscienza che si rinnova nel tempo: come ben sanno tutti coloro che vivono una vita matrimoniale. Ridurlo ad un istante rende il tempo inferiore allo spazio. E fa assomigliare il consenso a un atto incosciente.
Non è certo questa la prospettiva di AL, che innova (non si può avere paura di dirlo!) perché ribadisce il primato della coscienza facendosi carico di «fragilità e imperfezioni» che non possono essere semplicisticamente ridotte all’ammissione ai sacramenti dei «divorziati risposati». Fragilità e imperfezioni della vita matrimoniale vanno accolte dalla Chiesa senza ridurle al dilemma “comunione sì”/“comunione no”. Alla fine del suo discorso, giustamente il nostro vescovo critica coloro che pensano che l’accesso ai sacramenti necessiti del «permesso» di qualcuno, e fa bene a ricordare che l’accompagnamento spirituale non è monopolio del clero, né tantomeno zona di riserva episcopale. Paradossalmente, il suo discorso sarebbe stato più convincente se fosse partito dalla fine: cioè dalla vita vissuta, e non dalla teoria; un vescovo canonista dovrebbe avere a cuore la praticità del diritto canonico ed esaltarne la funzione pratica senza affogarlo in teoriche previe.
AL è vino nuovo, e va versato in otri nuovi, altrimenti inesorabilmente invecchia.
[1] Molto interessante il tentativo di far dialogare diritto canonico e teologia morale, che sono in realtà mondi separati dal Concilio di Trento, ma questo discorso sarebbe troppo lungo.
Pubblicato sul sito dell’Università di Pisa il 5 febbraio 2020.
Mt 5,28-ss: “Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna”. Carissimo, presumendo lei non sia esente dalle conseguenze del peccato originale, credo di dover ritenere che abbia recepito letteralmente anche queste indicazioni, e sia conseguentemente cieco, perlomeno dall’occhio destro.
Carissimo Fabio, qui non c’è nulla da interpretare: l’iperbole è chiarissima per chiunque ed io, in quanto primo peccatore, cerco di attuarla (fuggendo le occasioni di peccato) senza nascondermi dietro al capitolo VIII di Amoris laetitia.
Carissimo Claudio, grazie di aver deciso di utilizzare il mio nome proprio nel rispondermi: personalizza una comunicazione che altrimenti rischia in effetti di rimanere del tutto impersonale. Entrando nel merito, che la figura retorica da chiamare in questione in questo caso sia l’iperbole non è del tutto evidente, e allo stesso modo non è “chiarissimo per chiunque”, oggi né tantomeno nel corso degli ultimi due millenni, che si tratti di una indicazione da non recepire letteralisticamente. Se è vero che, indipendentemente dalla fondatezza storica dell’episodio, si è ad esempio attribuita ad Origene una recezione pedissequa di questa antitesi gesuana. Il riferimento al “nascondersi” tradisce inoltre nel suo linguaggio una ingiustificata attribuzione di malafede a chiunque viva la propria fede cattolica prendendo sul serio il magistero ecclesiale e la storia della sua evoluzione (in relazione in questo caso a un punto specifico, ma il discorso è evidentemente estensibile a qualunque altro ambito). Come se esistesse un vangelo chiarissimo, che lei e chiunque sia in buonafede conosce benissimo, e dall’altra parte, in sostanziale contrapposizione, la coscienza opportunista di fedeli che usano a loro vantaggio indicazioni magisteriali messe lì di proposito a confondere le acque. Se davvero il suo modo di porsi fosse questo, dubito fortemente di poter condividere in una qualunque forma il suo approccio
«Il vostro parlare sia: “interpretalo così”, “interpretalo cosà”; il di più viene dal Maligno»