Anche nell’attuale momento storico, e al di là dei casi di “prostituzione forzata”, la scelta di “vendere sesso” è quasi sempre determinata da fattori – di ordine non solo economico, ma anche affettivo, familiare e sociale – che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo. In questa materia, lo stesso confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono è spesso labile e sfumato.
È, questo, uno dei passaggi della motivazione con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bari sulle disposizioni della “legge Merlin” che puniscono il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione (articoli 3, primo comma, numeri 4, prima parte e 8 della legge 20 febbraio 1958 n.75). Con la sentenza n. 141 depositata oggi (relatore Franco Modugno) la Corte spiega che queste incriminazioni mirano a tutelare i diritti fondamentali delle persone vulnerabili e la dignità umana. Una tutela che si fa carico dei pericoli insiti nella prostituzione, anche quando la scelta di prostituirsi appare inizialmente libera: pericoli connessi, in particolare, all’ingresso in un circuito dal quale sarà difficile uscire volontariamente e ai rischi per l’integrità fisica e la salute cui ci si espone nel momento in cui ci si trova a contatto con il cliente.
È dunque il legislatore, quale interprete del comune sentire in un determinato momento storico, che ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, un’attività che degrada e svilisce la persona.
La Corte d’appello di Bari aveva sostenuto che l’attuale realtà sociale è diversa da quella dell’epoca in cui le norme incriminatrici furono introdotte: accanto alla prostituzione “coattiva” e a quella “per bisogno”, oggi vi sarebbe infatti una prostituzione per scelta libera, volontaria, qual è quella delle “escort” (accompagnatrici retribuite, disponibili anche a prestazioni sessuali). Una simile scelta costituirebbe espressione della libertà di autodeterminazione sessuale, garantita dall’articolo 2 della Costituzione: libertà che verrebbe lesa dalla punibilità di terzi che si limitino a mettere in contatto la “escort” con i clienti (reclutamento) o ad agevolare la sua attività (favoreggiamento).
Al contrario, la Corte costituzionale ha osservato che l’articolo 2 della Costituzione, nel riconoscere e garantire i «diritti inviolabili dell’uomo», si pone in stretta connessione con il successivo articolo 3, secondo comma, che, al fine di rendere effettivi questi diritti, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali al «pieno sviluppo della persona umana». I diritti di libertà – tra i quali indubbiamente rientra anche la libertà sessuale – sono, dunque, riconosciuti dalla Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona, e di una persona inserita in relazioni sociali.
La prostituzione, però, non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma solo una particolare forma di attività economica. In questo caso, infatti, la sessualità non è che una “prestazione di servizio” per conseguire un profitto. Né vale obiettare che un diritto fondamentale resta tale anche se esercitato dietro corrispettivo. L’argomento prova troppo: in questo modo, qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo, se collegata a una libertà costituzionalmente garantita, diventerebbe un diritto inviolabile, nella misura in cui richiede l’esercizio di libertà costituzionalmente garantite.
Né, secondo la Corte costituzionale, viene violata la libertà di iniziativa economica privata per il fatto di impedire la collaborazione di terzi all’esercizio della prostituzione in modo organizzato o imprenditoriale. Tale libertà è infatti protetta dall’articolo 41 della Costituzione solo in quanto non comprometta valori preminenti, quali la sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Le disposizioni incriminatrici contenute nella legge Merlin si connettono a questi valori.
Il fatto che il legislatore individui nella persona che si prostituisce il soggetto debole del rapporto spiega, inoltre, la scelta di non punirla, a differenza di quanto avviene per i terzi che si intromettono nella sua attività.
La Consulta ha anche escluso la violazione del principio di offensività. L’individuazione dei fatti punibili è rimessa alla discrezionalità del legislatore, nel limite della non manifesta irragionevolezza, poiché implica valutazioni tipicamente politiche: e ciò tanto più rispetto alla prostituzione, che, come rivela l’analisi storica e comparatistica, si presta a diverse strategie di intervento.
Resta comunque ferma, rispetto alla disciplina vigente, l’operatività del principio di offensività “in concreto”, che impone al giudice di escludere il reato quando la condotta risulti, per le specifiche circostanze, concretamente priva di ogni attitudine lesiva.
La Corte esclude, infine, che la norma incriminatrice del favoreggiamento della prostituzione sia in contrasto con i principi di determinatezza e tassatività perché l’eventuale esistenza di contrasti sulla rilevanza penale di determinate marginali ipotesi di favoreggiamento rientra nella fisiologia dell’interpretazione giurisprudenziale.
Roma, Comunicato del 7 giugno 2019
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