Il magistrato secondo Rosario Livatino

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«Nei prossimi mesi lavoreremo per mettere a punto la riforma della Giustizia secondo capisaldi che voi già conoscete e sono in parte quelli storici del centrodestra – penso al tema della separazione delle carriere – e credo che questo possa aiutare l’Italia da vari punti di vista: che possa aiutarla nel rapporto tra il cittadino e diciamo lo Stato generalmente inteso, che possa aiutare gli investimenti, che possa aiutare il PNRR, che possa aiutare tutto quello che la giustizia un po’ lenta, soprattutto in questi anni, ha limitato. Quindi è una giustizia che sicuramente ha bisogno di un tagliando».

Sono parole pronunciate dal Presidente del Consiglio dei ministri nel corso della conferenza stampa di fine anno 2022, organizzata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti in collaborazione con l’Associazione della Stampa parlamentare.

A distanza di quasi due anni, il comunicato stampa n. 83 del Consiglio dei ministri (29 maggio 2024), informa ora che, su proposta del Presidente Giorgia Meloni e del Ministro della giustizia Carlo Nordio, è stato approvato un disegno di legge costituzionale per l’introduzione di norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare. Le nuove norme vorrebbero intervenire allo scopo di distinguere, all’interno della magistratura, che «costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», la carriera dei magistrati giudicanti e quella dei magistrati requirenti, adeguando l’ordinamento costituzionale a tale separazione. Si prevede, di conseguenza, l’istituzione del Consiglio superiore della magistratura giudicante e del Consiglio superiore della magistratura requirente, entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica.

In attesa degli sviluppi dell’iter parlamentare che, ai sensi dell’art. 138 della Costituzione italiana, prevede che le leggi costituzionali siano adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, e siano approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione, ci sembra opportuno confrontarci con pareri autorevoli, sia del presente che del passato, tenendo conto che le leggi costituzionali devono essere sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali (invece, non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti).

Un contributo retrospettivo alla discussione

Rosario Angelo Livatino, oggi beato, è stato magistrato sia requirente che giudicante dal 1978 alla morte martiriale, avvenuta nel 1990.

Frattanto anche Totò Riina aveva cominciato la pressoché contemporanea sua “carriera criminale” a 19 anni; era già soprannominato, negli anni Settanta, Totò “la belva”, a motivo della ferocia con cui si prendeva tutto ciò su cui si posavano i suoi avidi occhi; nel 1974, Riina aveva già preso il posto di Luciano Liggio, arrestato a Milano, all’interno della “Commissione”, l’organo decisionale composto dalle più importanti famiglie mafiose.

Nella sua ben diversa “carriera” sul fronte opposto, troviamo, invece, Livatino, intellettuale e magistrato attivo e impegnato: superato il concorso in magistratura, dal 18 luglio 1978 lo troviamo presso il Tribunale di Caltanissetta.

Il 24 settembre 1979 gli vennero conferiti gli impegni giurisdizionali con l’immissione in ruolo e l’incarico di Uditore giudiziario con funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento, incarico da lui svolto fino al 20 ottobre 1988.

Il 21 agosto 1989 passò al ruolo di Giudice della sezione penale presso lo stesso Tribunale di Agrigento, che svolse per poco più di un anno.

La laboriosità di Livatino è documentata dai dati statistici: tra il 1984 e il 1988 fu effettivamente, nella Procura della Repubblica di Agrigento, il magistrato che aveva definito più procedimenti, che aveva formulato più richieste di rinvio a giudizio, che aveva proposto più impugnazioni.

Il 26 settembre 1990, il Consiglio Superiore della Magistratura ne commemora, perciò, la splendida figura.[1] Nel suo intervento, il Ministro di Grazia e Giustizia, sen. Giuliano Vassalli, rileggendo le carte del rapporto con cui il Consiglio Giudiziario aveva riferito al momento del conferimento delle funzioni giurisdizionali a Rosario Angelo Livatino, allora di 26 anni, afferma: «Ha così frequentato assiduamente tutti gli uffici giudiziari venendo assegnato per tre mesi al tribunale, per tre mesi alla Procura della Repubblica e per tre mesi alla Pretura. Ha partecipato a tutte le attività giurisdizionali, assistendo alle udienze penali e relative camere di consiglio, alle udienze collegiali e istruttorie civili, alle relative camere di consiglio, alle attività tutte del Pubblico Ministero e del Pretore. Ha inoltre steso le minute di diverse sentenze penali e civili, di diversi provvedimenti camerali, di requisitorie, di motivi di gravame, formulando al contempo numerosi capi di imputazione… In conclusione, ha evidenziato il possesso del bagaglio di nozioni e qualità necessarie, sia nell’esercizio delle funzioni requirenti, sia in quello delle funzioni giudicanti…. Credo che ciascuno di noi ne trarrà non soltanto motivi di profonda emozione, nel pensare come già si annunciava all’inizio della sua carriera lo sviluppo delle attività e lo spirito altissimo che guidava questo giovane magistrato».

Una conferenza sulla figura del magistrato

Tra i suoi non molti scritti, oltre alle tantissime notizie, desumibili dalle sue fitte Agende e annotazioni giornaliere, vi è una conferenza, pronunciata da Livatino il 7 aprile 1984 su “Il ruolo del giudice nella società che cambia” (presso il Rotary club di Canicattì).

Essa offre – riteniamo – qualche utile spunto anche per il dibattito in corso, soprattutto per la lucidità “avveniristica” con la quale il giudice ragazzino tratteggia la figura del magistrato, in un momento in cui si discuteva, allora come oggi, di possibili cambiamenti delle leggi relative alla Magistratura.

Nell’agenda, alla data del 7 aprile 1984, dopo aver annotato di aver pronunciato quel discorso al Rotary, Livatino commenta laconicamente con un: «Bah! non so proprio cosa pensare!». Che significa tale espressione? Lo Zingarelli chiarisce la voce «Bah!» nel seguente modo: «Esprime incertezza, rassegnazione, incredulità, disprezzo con significato analogo a “chissà”, “forse è così”, “vada come vuole” e simili». In questo ventaglio di significati, è difficile stabilire se, nel caso specifico, il Bah fosse un’espressione di rassegnazione, oppure una confessione interiore di un discorso a cui egli non teneva affatto che fosse approvato.

Personalmente, riterrei che, rispetto ai cosiddetti “giudici d’assalto”, i quali occupavano sempre più, in quel periodo, le prime pagine dei giornali, Livatino annoti una confessione di rassegnazione. In altri termini, dopo aver maturato una certa esperienza durante la carriera in magistratura, egli reputa opportuno fissare, senza pretese, almeno alcuni punti programmatici della professione e lo fa con l’ausilio di documenti giuridici vigenti.

Una volta stilato il discorso e oggettivate le problematiche e le soluzioni, quello scritto diventa per lui il modello di riferimento per la propria attività professionale.

Una conferma di quel Bah proviene dal perentorio rifiuto di Livatino di associarsi a qualsiasi club o partito, come si evince dalla lettera del 1982 di rinuncia al Rotary Club per una sua eventuale cooptazione. Si affermava già quanto sarebbe stato poi fondatamente chiarito nell’evocata conferenza, ovvero il principio di un’assoluta indipendenza del giudice. Per esso si stabiliva di non poter aderire a nessuna associazione, neanche a forme associative benefiche, come Livatino considerava il Rotary.

Nella conferenza, aveva, tra l’altro detto, del magistrato: «Egli altro non è che un dipendente dello Stato, al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni, in un momento di squisita delicatezza del loro operare: il momento contenzioso. Per ciò stesso, il magistrato non dovrebbe essere una realtà sul cui mutamento ci si debba interrogare: egli è un semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare. Se questa cambia, anch’egli dovrebbe cambiare; se questa rimane immutata, anch’egli dovrebbe mantenersi uguale a sé stesso, quali che siano le metamorfosi della società che lo avvolge».[2]

Sono parole lapidarie, pronunciate da una persona “sul campo”, peraltro un campo minato come allora si diceva, in quanto caratterizzato da una guerra di mafie in corso.

I diversi tipi di mafia, operanti ai tempi di Livatino in Sicilia e nell’Agrigentino, ma non solo, erano tutti caratterizzati da una vera e propria religiosità capovolta.

Lapidaria, quanto dolorosamente chiara, risulta, in merito, l’affermazione del giudice Giovanni Falcone, che sarà presente ai funerali di Livatino (Falcone verrà poi trucidato dalla mafia insieme alla moglie e a tre uomini della scorta, circa due anni dopo Livatino, esattamente il 23 maggio 1992): «Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione».[3]

Interverranno al funerale del magistrato Livatino, insieme con moltissimi altri, anche i due giudici Falcone e Borsellino. La Chiesa di San Diego in Canicattì e la piazza antistante erano stracolme.

Si trattava di una drammatica sottolineatura di quanto stava accadendo a partire dal 1986, anno che si era aperto il 31 gennaio con la legge n. 12, la quale prorogava la durata della Commissione parlamentare antimafia istituita nel 1982 per tutta la durata della IX legislatura. Un anno terribile e cruciale quel 1982, proseguito il 10 febbraio a Palermo con l’apertura del maxiprocesso alla mafia; di lì a poco, il 20 febbraio, a Caccamo (Palermo) veniva arrestato Michele Greco, detto “Il Papa”, capo della cupola di Cosa Nostra.

In seguito, nel corso del 1987, sono arrestati Gerlando Alberti, boss di Cosa Nostra, Antonino Calderone, boss catanese della medesima organizzazione, mentre il 22 giugno, a New York, il boss Gaetano Badalamenti viene condannato a 45 anni di carcere per traffico di sostanze stupefacenti.

Due anni dopo, nel corso del 1989, in Francia viene arrestato Michele Zazza, boss della Camorra; a New York è arrestato Rosario Spatola, boss del narcotraffico; a San Nicola l’Arena (Palermo), è il turno di Salvatore (“Totuccio”) Contorno, divenuto collaboratore di giustizia; il 19 giugno viene sventato all’Addaura, sul lungomare di Palermo, un attentato alla villa in cui il giudice Giovanni Falcone trascorreva le vacanze, con due colleghi magistrati (58 candelotti di esplosivo nascosti in una borsa da sub).

Lungimiranza di una conferenza

Il ruolo del giudice nella società che cambia è, quindi, la conferenza con cui Livatino mette a confronto la società – che, per sua stessa natura è un’entità in continua evoluzione (caratterizzata dall’evoluzione perenne del costume e, quindi, anche delle leggi); e il magistrato, per il quale si cerca, proprio in quegli anni, un nuovo rapporto con la società stessa: «Il nuovo rapporto cercato fra magistrato e norma legislativa comporta infatti di necessità che anche il primo esca dalla propria torre eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento, sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde… Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario».

Di qui le 4 tematiche che Livatino dichiara di voler affrontare: «i rapporti tra il magistrato e il mondo dell’economia e del lavoro; i rapporti tra il magistrato e la sfera del “politico”; l’aspetto della c.d. “immagine esterna” del magistrato; il problema della responsabilità del magistrato».

Purtroppo la conferenza di Livatino non si pronuncia sulla separazione delle carriere, di cui oggi si discute a livello legislativo. E tuttavia, risulta chiara la sua affermazione dell’indipendenza del magistrato dalla politica, al punto che Livatino, Costituzione alla mano, appare perplesso sulla stessa candidabilità di un giudice in una formazione politica: «Si desume quindi che il costituente ha voluto escludere ogni pericolo o sospetto di faziosità e di settarismo dei giudici, sia nell’aspettativa di vantaggi personali o per il timore di pregiudizio, sia in forza dell’interferenza di altri poteri dello Stato nella funzione giudiziaria».

Di qui l’immagine pubblica di ogni magistrato, requirente o giudicante che sia: «Qui è importante che egli offra di sé stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in sé stesso queste condizioni, la società può accettare che gli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha».

Un fiume di sangue

Rosario Angelo Livatino, nel difficile contesto ambientale in cui faceva il Magistrato, non mostra timore delle probabili vendette della criminalità organizzata, colpita e frenata in tanti suoi interessi a motivo della sua solerte azione. Anzi, insieme ad altri magistrati della sua e di altre Procure, egli scopre e fa condannare, o condanna in prima persona, numerosi intrecci malavitosi.

Sempre più impegnato in rilevanti e delicate inchieste, il 10 luglio 1986 incontra il giudice Falcone, il quale l’8 novembre del 1985, insieme con il suo pool, aveva depositato la famosa ordinanza di rinvio a giudizio contro 474 imputati di Cosa nostra: nella sua onnipotenza che la faceva ritenere “non punibile da nessun tribunale”, Cosa nostra si preparava, allora, a mettere in campo tutta la sua potenza finanziaria (per sostenere le spese processuali ai vari gradi di giudizio) e, soprattutto, la sua potenza di ritorsione armata.

Livatino, prima di morire nel 1990, collabora, tra l’altro, ad una relazione redatta dai magistrati di appello delle quattro Corti siciliane, che diverrà la base del lavoro di Giovanni Falcone in qualità di Direttore affari penali del Ministero.

Il Maxiprocesso è il processo nei confronti di 474 tra capi e gregari di Cosa Nostra siciliana. Iniziato il 10 febbraio 1986, si concluderà il 16 dicembre 1987. L’ordinanza di rinvio a giudizio degli imputati – 40 volumi, 8.000 pagine – viene redatta da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – membri del pool antimafia, guidato da Antonino Caponnetto, insieme a Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta – i quali, per ragioni di sicurezza, vengono trasferiti per due mesi presso la foresteria del carcere dell’Asinara.

Il maxiprocesso si concluse comminando agli imputati 19 ergastoli, più di 2.000 anni di carcere e risarcimenti danni per più di 11 miliardi; 114 sono le assoluzioni.

Quel processo dimostra l’esistenza di Cosa Nostra come associazione criminale unica e verticistica, e la possibilità concreta di condannarne i suoi membri, accusati di efferati delitti. Il delitto plateale, organizzato da almeno due Stidde dell’Agrigentino, non senza il nulla-osta del capo provinciale di Cosa nostra, è il lugubre tassello di un fiume di sangue innocente.

Pagare con il sangue la lotta alle mafie

Papa Francesco, parlando ai Membri della Commissione parlamentare contro le mafie nel 2017, ricorderà soltanto tre magistrati che avevano, appunto, pagato con il sangue la lotta alle mafie; tra loro viene significativamente elencato Rosario Angelo Livatino, e peraltro al primo posto, non soltanto per motivi di mero criterio cronologico: «Anzitutto desidero rivolgere il pensiero a tutte le persone che in Italia hanno pagato con la vita la loro lotta contro le mafie. Ricordo, in particolare, tre magistrati: il servo di Dio Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi 25 anni fa insieme a quanti li scortavano».[4]

Nelle medesime aule parlamentari, oggi chiamate a discutere una riforma della Magistratura, risuonarono all’epoca, a due anni dalla morte di Livatino, diversi interventi di deputati e senatori, che ricordarono esplicitamente Livatino come figura di “eroe”, il quale può consentire in Italia una più ampia e auspicata riflessione, ma soprattutto è in grado di generare delle azioni concrete per arginare la criminalità organizzata.

Anche dopo un decennio dalla morte l’aula parlamentare si sofferma su coloro che, come Livatino, «hanno pagato con la vita il loro impegno di contrasto».

Come tutti, non intendiamo solo associarci ad un ricordo, che peraltro non dev’essere un’occasione retorica, bensì un momento vero, vivo, pulsante, di riflessione sui temi della legalità, della lotta alla criminalità.

Livatino ci ricorda ancora: «È forse questo il settore più dolente, nel quale più si impuntano le critiche dal quale provengono i maggiori allarmi. Il tema della politicizzazione dei giudici si inserisce a pieno titolo nel dibattito sui problemi della giustizia e nell’analisi del rinnovato rapporto tra il magistrato e il tessuto sociale nella cui trama egli si colloca. Tanto con riferimento all’atteggiamento che, talvolta, i giudici avrebbero assunto, o potrebbero assumere, presentando all’opinione pubblica l’immagine di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di un partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o privato. L’ipotesi concretizza evidentemente una violazione del criterio costituzionale che, proprio per evitare ogni forma di strumentalizzazione della giustizia, garantisce l’indipendenza personale dei singoli giudici, soggetti esclusivamente alla legge (art. 101), nonché quella della magistratura nel suo complesso, descrivendola come “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” (art. 104).

Dal combinato disposto delle norme citate, si desume quindi che il costituente ha voluto escludere ogni pericolo o sospetto di faziosità e di settarismo dei giudici, sia nell’aspettativa di vantaggi personali o per il timore di pregiudizio, sia in forza dell’interferenza di altri poteri dello Stato nella funzione giudiziaria».[5] Quanto al riformare la giustizia, lo stesso Livatino osservava: «Tutto è più complesso in una società moderna in materia di definizione e difesa dei bisogni, degli interessi, dei diritti.

Nelle società primitive e, comunque, semplici, tutto era relativamente chiaro in termini di “cosa era giusto e cosa era ingiusto” e tutto era facile, relativamente, in termini di accesso a chi amministrava giustizia (il capo tribù, il capo villaggio, il capo religioso); oggi, nelle società a crescente complessità e soggettività, come sono tutte le società occidentali mature, è sempre più difficile sapere e far accettare i concetti di giusto e ingiusto ed è sempre più difficile individuare e rendere più accessibili gli strumenti per ottenere giusta protezione. In questa prospettiva, riformare la giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica. Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza».[6]

Un testamento spirituale, probabilmente uno spunto di riflessione anche per le riforme di oggi.


[1] Cf. https://archivio.quirinale.it/aspr/diari/EVENT–002–011984/presidente/francesco–cossiga#n

[2] Rosario A. Livatino, Conferenza “Il ruolo del giudice nella società che cambia”, tenuta il 7 aprile 1984 presso il Rotary club di Canicatt (fonte: http://www.solfano.it/canicatti/Ruolo_Giudice.html).

[3] G. Falcone, Cose di Cosa nostra, a c. di M. Padovani, Rizzoli, Milano 1991. I mafiosi delle Stidde, in analogia con gli affratellamenti di Cosa nostra, si “affratellavano” all’occorrenza anche a livello interprovinciale: «Iannì ha dichiarato che la “Stidda” di Gela (il clan Iannì–Cavallo) aveva “un’affiliazione interprovinciale con vari gruppi mafiosi” (si legge negli atti processuali) e, in particolare, era in contatto con il clan “Carbonaro–Dominante” di Vittoria, i Russo di Niscemi, gli Avarello di Canicattì, Benvenuto di Palma di Montechiaro, Barba di Favara, Zichittella di Marsala, Sole di Racalmuto e Grassoneli di Porto Empedocle» (dalla Relazione Commissione parlamentare antimafia, p. 942).

[4] Francesco, Discorso ai membri della Commissione parlamentare antimafia: AAS 109 (2017), 992.

[5] Rosario A. Livatino, Conferenza “Il ruolo del giudice nella società che cambia”, tenuta da Rosario A. Livatino il 7 aprile 1984 presso il Rotary club di Canicattì: (fonte: http://www.solfano.it/canicatti/Ruolo_Giudice.html).

[6] Ivi.

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