Fin dall’inizio del dibattito Sinodale sulla famiglia, agli inizi del 2014, era chiaro che uno dei nodi su cui si sarebbe appuntata la attenzione e l’elaborazione ecclesiale era la “legge canonica sul matrimonio” e la sua adeguatezza per l’annuncio del Vangelo nella società aperta. E tutti gli osservatori hanno potuto costatare come, negli interventi in aula durante il duplice Sinodo, soprattutto ai canonisti sarebbe stata necessario un supplemento d’anima e un colpo d’ala, uno scatto di reni e un gesto atletico, per introdurre nuove distinzioni e riformulare antiche verità. Ciò che invece abbiamo visto, almeno nell’aula sinodale, è stato molto diverso: quasi tutti coloro che hanno preso la parola in re canonica, hanno spesso brillato per indistinzione, per rigidità, per rozzezza e per sordità. Corazzandosi con la legge vigente, negavano la possibilità di ogni riformulazione, di ogni revisione, di ogni riforma. Apparivano spesso vigilanti solo secondo il mondo, non secondo il Vangelo. Temevano il futuro come l’irrompere del male, non attendevano più l’irruzione del bene “come un ladro”.
Nel dibattito scientifico, tuttavia, non mancano contributi di valore, che escono dall’angolo della autoreferenzialità codiciale, e configurano prospettive significative di riforma. Vorrei considerare tre voci “laiche”, che emergono dal dibattito attuale, e che meritano una attenta riflessione. Sono laiche non solo perché elaborate da uomini laici, ma perché scaturiscono da ambienti accademici statali e non ecclesiali.
I punti nevralgici della tradizione
Il prof. Consorti, intervenendo con un commento sul post precedente, focalizza una serie di questioni che non siamo abituati ad ascoltare dalla voce dei canonisti. Ecco le sue parole, con alcune sottolineature in corsivo da parte mia:
«Immagino che una lettura attuale dell’istituto del matrimonio nella realtà ecclesiale non possa prescindere da una ricostruzione storica che parta dal dato evangelico e segua un itinerario quasi bimillenario. Questa lunga storia ha prodotto tornanti non facili da sintetizzare, che tuttavia necessitano di una sintesi attuale. Faccio qualche esempio: “il matrimonio è un sacramento”, ma i sacramenti per essere tali devono avere un fondamento evangelico: c’è? Inoltre la sacramentalità dipende dalla fede e dalla retta intenzione: tutti i matrimoni sono quindi magicamente sacramento? Il diritto canonico attuale guarda al matrimonio nella sola fase genetica (matrimonio atto) e ne valuta la validità osservando il solo momento della manifestazione del consenso (che è considerato l’essenza del contratto): che spazio resta al matrimonio inteso come rapporto?
Mi pare ci sia tanto materiale per pensare a come debba essere impostata la questione oggi, toccando punti nevralgici che non devono essere semplicisticamente guardati attraverso le lenti della tradizione. La tradizione serve se aiuta la comunicazione del Vangelo, altrimenti si deve lasciare.
Potrebbe essere utile anche rileggere Mt. 19, 3-12, che è generalmente considerato il fondamento evangelico della indissolubilità del matrimonio cristiano, in quanto indirettamente rivolto a negare la liceità del ripudio (che non è esattamente il divorzio consensuale). I farisei mettono alla prova Gesù per vedere se seguiva l’insegnamento giuridico più restrittivo (il ripudio della sola donna dalla parte dell’uomo è lecito solo nel caso in cui essa commetta adulterio) o quello più largo (il ripudio della sola danno da parte dell’uomo è lecito in più casi: quest’ultima ipotesi – diciamo liberale – era proposta dalla scuola rabbinica cui Gesù probabilmente era più vicino). Gesù Cristo evita il trabocchetto giuridico e cambia discorso (lo fa anche nel caso del giudizio dell’adultera). Propone a questi farisei di non confrontarsi sul dato giuridico per vedere chi ha torto e chi ha ragione, ma di cercare il disegno di Dio. Che non tutti possono capire. Mi sembra che la questione sia oggi ancora questa: cercare il disegno di Dio senza restare impantanati nelle logiche delle scuole giuridiche».
Il diritto canonico come mezzo e non come fine
Un altro canonista, Stefano Sodaro, anch’egli laico, intervenendo con un altro commento nel medesimo post, mette in luce con chiarezza le potenzialità che il diritto canonico potrebbe svolgere. Anche in questo caso sottolineo in corsivo alcuni aspetti del suo testo:
«La riflessione […] e il commento del prof. Consorti dicono di una complessità dell’umano, per ciò stesso sacramento quando posto davanti all’annuncio evangelico, che un po’ paradossalmente la configurazione dogmatica dei sette sacramenti ha finito per bloccare e fossilizzare, come se tutto il simbolico potesse precipitare nel giuridico e la teologia tutta nel codice di diritto canonico che, da strumento pastorale, è divenuto ormai fine cui la stessa pastorale deve tendere.
Eppure almeno due profili, a mio modestissimo avviso, testimoniano pervicacemente di tale complessità all’interno stesso dell’ordinamento canonico.
Uno è relativo l’impossibilità, normativamente stabilita, che le sentenze ecclesiastiche sullo stato delle persone, ivi compreso dunque quello matrimoniale, raggiungano la compiutezza formale ed irreformabile del giudicato.
E l’altro è relativo alla pacifica presenza, benché secondo i canoni orientali – tuttavia pur sempre cattolici -, che uomini sposati ricevano il sacramento dell’Ordine anche nel grado presbiterale, con ciò attuando una mirabile, ma per noi latini assai sconcertante, doppia presenza di legami esistenziali che insistono su ogni dimensione della vita. Preti uxorati orientali, “sposi” – ricorrendo al linguaggio di certa inflazionata retorica un po’ troppo emozionale – di una comunità concreta non meno che di una moglie concreta.
Il diritto della Chiesa vive una profonda contraddizione, i suoi esperti dovrebbero gioirne invece che esserne scandalizzati, poiché, alla scuola della storia, si potrebbe pur dire che anche “dogma crescit cum credente.”
È normativa solo la prospettiva escatologica, in cui, delle tre virtù teologali, solo l’amore resta».
La lettura canonistica del matrimonio e i suoi limiti da superare
Come terzo canonista laico, vorrei considerare uno dei più noti storici del diritto canonico, Carlo Fantappié, che nel suo recentissmo volume Ecclesiologia e canonistica (Venezia, Marcianum Press, 2015) affronta in 8 saggi la questione del rapporto tra teologia e diritto con alcune conclusioni (431-439) che meritano di essere riportate, sebbene in grande sintesi, con i corsivi dello stesso autore:
«Dal medioevo al Vaticano II il funzionamento del sistema matrimoniale canonico si è venuto formando sulla base della combinazione di una struttura sostanziale con una struttura formale. Alla formazione della prima si può dire che hanno contribuito tre schemi concettuali che, benché maturati in epoche diverse, al termine del processo definitorio, si sono saldati in un’unica costruzione teorica: lo schema dei tria bona di origine agostiniana, dominante fino al XI secolo; lo schema della natura consensuale e delle proprietà essenziali, elaborato nei due secoli successivi; lo schema dei fini per lungo tempo gerarchicamente ordinati, dal Vaticano II unificati e parificati» (431).
«La composizione di questi differenti aspetti costitutivi in una costruzione organica è potuta avvenire mediante la selezione degli elementi essenziali da quelli non essenziali e il loro collegamento in una rete di relazioni logiche. Tra il XIII e il XX secolo teologi e canonisti hanno dato a questo edificio complesso del matrimonio la forma di una struttura logica fondata sulla definizione reale e sulle quattro cause della filosofia aristotelico-tomista» (432).
«Da questi elementi si evince che la struttura sostanziale e formale del matrimonio sono tributarie di una concezione del mondo sostanzialista e statica. Dentro questo modello il soggetto non è concepito in modo autonomo, non esiste se non come agente formale che compie operazioni preodinate dalla struttura ontologica dell’essere, la sua libertà di azione non è effettiva ma dipende dalle regole predeterminate dallo schema struturale in cui è rigidamente inquadrato. Gli atti compiuti da questo agente sono atti categoriali e perciò privi di storia: non c’è un prima e un dopo che possa modificare il significato dell’azione. Ci si muove in un universo ontologico fuori del mondo della vita» (434).
Un bilancio e una sollecitazione verso i canonisti chierici
Come appare con chiarezza da questa sequenza di citazioni, il lavoro cui i canonisti sono attesi è di grande rilievo e diventerà essenziale e decisivo per recepire pienamente il testo di AL e le sue ampie conseguenze pastorali. Tra le quali dovremo considerare il “gap” che si creerà tra identità pastorale e identità giuridica dei soggetti, in attesa di una piena regolarizzazione che potrà avvenire soltanto quando il diritto canonico sostanziale (e non solo quello procedurale) avrà trovato nuovi equilibri e nuove categorie. Ma questo implica che tutti i canonisti (chierici e laici) si rendano disponibili a riflettere non solo de lege condita, ma anche de lege condenda. Il servizio ecclesiale richiesto ai tecnici del diritto ecclesiale esclude la chiusura delle corporazioni. Con le parole che aprono lo studio citato di C. Fantappié possiamo comprendere che cosa esiga questo approccio critico:
«…richiede che si ponga attenzione alle domande teoriche e alle esigenze sostanziali cui hanno voluto rispondere i diversi modelli di matrimonio, anziché alle risposte date da una corporazione di studiosi che, evitando di affrontare le aporie, i passaggi scoperti e i punti critici del sistema matrimoniale, è intenta a ribadirne la continuità e la coerenza» (399).
Dar voce e forma a queste difficoltà e proporre per esse soluzioni e rimedi convincenti è quanto sono chiamati a fare i canonisti realmente disponibili a fornire alla Chiesa il loro necessario contributo, che per antica tradizione non è solo accurato esercizio di una tecnica giuridica, ma anche preziosa concretizzazione di una profezia ecclesiale. Purtroppo, oggi manchiamo quasi del tutto della profezia dei canonisti.
Pubblicato il 27 settembre 2016 nel blog: Come se non