Costituisce molestia razziale ai sensi dell’articolo 2, comma 3 del D.Lgs. 9 luglio 2003 n. 215 postare su facebook affermazioni che degradano i richiedenti asilo a clandestini e irridono le associazioni impegnate nella loro accoglienza attribuendo ad esse il fine illecito di lucrare sul traffico dei migranti. Tali condotte sono idonee a creare un “clima intimidatorio” e “ostile” nei confronti delle associazioni, clima che può avere senz’altro ripercussioni dirette sui servizi resi ai richiedenti asilo. Quale rimedio a tale discriminazione, le associazioni hanno diritto al risarcimento del danno nei termini di legge.
Lo ha stabilito la Corte di appello di Brescia (Sezione Prima Civile) con una recente sentenza, che risulta essere di notevole interesse perché afferma che la tutela del diritto antidiscriminatorio può essere rivendicata non solo dalla persona che viene direttamente discriminata in ragione delle sue caratteristiche etnico-somatiche o nazionali, ma anche da chi – individualmente o in quanto facente parte di un ente operante nel campo dell’assistenza agli stranieri – opera per affermare i diritti delle minoranze etnico-razziali ovvero di immigrati stranieri e per tale ragione rimane vittima di comportamenti o atti discriminatori ispirati da razzismo e xenofobia.
Il caso
La vicenda nasce il 2 giugno 2015 da un messaggio postato su facebook con il quale la segretaria della Lega Nord di Orzinuovi – poi divenuta consigliera regionale dello stesso partito –, irride e sbeffeggia cooperative ed enti che assumono migranti per la cura del verde pubblico.
La militante leghista, infatti, pubblica sul proprio sito una fotografia del quotidiano Bresciaoggi avente ad oggetto l’elenco di vari soggetti gestori di progetti di accoglienza di cittadini stranieri, allegando il seguente commento: «Questo è l’elenco di tutte le cooperative o fondazioni e altri operatori che con la faccetta misericordiosa di chi fa la beneficenza stanno invece LUCRANDO sul traffico di clandestini».
Il commento viene rimosso il 6 agosto 2015, il giorno stesso della notifica del ricorso da parte dei soggetti esercitanti l’azione legale.
Con ordinanza del 2 marzo 2017 il Tribunale di Brescia dichiara il carattere discriminatorio del commento dell’attivista politica la quale viene condannata, oltre che a pagare le spese processuali, a risarcire i ricorrenti, tenuto conto della durata (oltre due mesi) della diffusione del commento denigratorio e offensivo su un sito potenzialmente visibile a chiunque acceda a facebook.
L’ordinanza del Tribunale viene appellata il 26 aprile 2017 mediante la sostanziale riproposizione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice.
Nella decisione finale, la Corte rigetta l’appello, ribadisce che qualificare i richiedenti asilo come “clandestini” e offendere che si prende cura di loro costituisce «molestia per ragioni razziali», conferma la condanna al risarcimento, aggiungendo anche un’ulteriore sanzione per «lite temeraria», stante l’evidente inconsistenza giuridica delle tesi sostenute nell’appello.
Sulla nozione di “molestia razziale”
Secondo il Tribunale e la Corte di appello di Brescia, non vi è ombra di dubbio che il commento postato sulle pagine facebook dalla militante e politica leghista rientrano nella nozione di “molestia razziale”, vietata dall’articolo 2, comma 3 del D.Lgs. n. 215/2003, cioè in «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo».
Che il contenuto delle pagine facebook sia destinato, secondo la Corte, a creare in generale un «clima umiliante, offensivo e ostile» è provato:
- dal suo carattere irridente e sbeffeggiante nei confronti degli enti di accoglienza, la cui attività è presentata nel post come criminosa, poiché volta al compimento del reato di favoreggiamento dell’ingresso illegale di stranieri;
- dal suo carattere offensivo nei confronti della reputazione dei suddetti enti, accusati di lucrare sul «traffico di clandestini»;
- dal suo carattere altrettanto offensivo e lesivo della loro dignità nei confronti dei richiedenti asilo, la cui presenza nel territorio italiano è legittima nonché costituzionalmente protetta dall’articolo 10 della Costituzione, e che non possono quindi essere accostati pubblicamente ai “clandestini”, la cui presenza è invece illegale.
Anche l’affermazione secondo cui l’azione degli enti che gestiscono i progetti di accoglienza avrebbe una finalità di lucro, visibile ad un numero potenzialmente illimitato di utenti del social network in quanto pubblica e più volte condivisa, è sicuramente idonea non solo a creare un «clima intimidatorio» e «ostile» nei confronti degli stessi, ma anche ad avere ripercussioni dirette negative sui servizi resi ai richiedenti asilo.
La “discriminazione per associazione”
La sentenza merita di essere segnalata perché applica implicitamente il principio secondo il quale la tutela del diritto anti-discriminatorio può essere rivendicata non solo dalla persona che viene direttamente discriminata in ragione delle sue caratteristiche etnico-somatiche o nazionali, ma anche nel caso in cui la discriminazione avvenga “per associazione”; cioè, quando la medesima tutela è rivendicata da coloro che, in quanto “associati” o frequentanti persone (familiari o amici) appartenenti alle categorie individuate dalla legge come meritevoli di tutela, rimangono vittime di comportamenti o di atti di discriminazione ispirati da razzismo e xenofobia.
La nozione di “discriminazione per associazione” è stata esplicitata dalla Corte di giustizia europea in sede di interpretazione della Direttiva dell’Unione Europea n. 78/CE del 27 novembre 2000.
Secondo la Corte di Giustizia, prendere di mira direttamente un soggetto non è l’unico modo per discriminarlo. Esso, infatti, può essere discriminato anche quando si prende di mira terze persone (fisiche o giuridiche) che siano con esso in stretto rapporto.
Anche queste forme di discriminazione più sottili rientrano nell’ambito di applicazione del dritto anti-discriminatorio europeo.
È importante far rilevare che la molestia per razza e origine etnica vietata dalla norma in questione non implica la reiterazione di comportamenti (come, ad esempio, è richiesto dalla legge penale in fatto di mobbing o stalking), ma può essere integrata da un unico comportamento, purché idoneo a creare il clima degradante e offensivo.
La decisione del Tribunale e della Corte di appello di Brescia è da apprezzare. Essa – come ha avuto modo di affermare la difesa della cooperativa ricorrente – contribuisce a porre un freno al clima di intolleranza e di aggressione nei confronti dei richiedenti asilo alimentato da certa politica e impone di ricondurre il linguaggio entro i limiti del rispetto dovuto alle persone che affrontano la fatica della migrazione e a quanti sono impegnati ad aiutarle.