La Corte d’Appello di Milano ha dichiarato legittima la delibera della Regione Lombardia che vieta il burqa e il niqab nelle strutture ospedaliere.
Con una recente sentenza la Corte d’Appello di Milano (Sezione delle Persone, dei Minori e della Famiglia), confermando l’ordinanza emessa nell’aprile 2017 dal Tribunale, dichiara legittima la delibera della Regione Lombardia del 10 dicembre 2015 che – in attuazione dell’articolo 5 della legge 13 ottobre 1975 n. 152 (c.d. legge Reale) sul divieto dell’uso di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona – dispone, per motivi di sicurezza – l’adozione, da parte delle strutture competenti, di cartelli contenti il divieto assoluto di ingresso negli edifici del Servizio sanitario regionale (aziende socio-assistenziali territoriali, ambulatori, ospedali) a chi utilizza qualsiasi mezzo atto a rendere difficoltoso il suo riconoscimento e, conseguentemente, alle donne che, per motivi religiosi, indossano il burqa o il niqab, indipendentemente dalla loro disponibilità a consentire la propria identificazione mediante rimozione temporanea della velazione.
Rigettando il ricorso proposto dall’ASGI (Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione) e da altre associazioni, tendente a dimostrare che la delibera regionale, oltre che realizzare una discriminazione diretta per ragioni etniche, essendo la religione una parte integrante dell’etnia ed essendo il burqa e il niqab diffusi prevalentemente in aree geografiche ove vivono popolazioni appartenenti ad etnie diverse da quelle europee, non rispetterebbe i limiti di cui all’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il Tribunale prima e la Corte d’Appello di Milano poi stabiliscono che la delibera in questione non ha un carattere discriminatorio e non viola in alcun modo la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
L’ordinanza del Tribunale
Il Tribunale di Milano rigetta il ricorso delle associazioni, ritenendo che la delibera della Regione Lombardia che vieta l’uso, da parte di tutti coloro che entrano in specifici luoghi pubblici come le strutture sanitarie della Lombardia, di mezzi atti a renderne difficoltoso il riconoscimento, non fa altro che dare attuazione alla normativa nazionale rinvenibile nell’articolo 5 della legge 13 ottobre 1975 n. 152.
Tale divieto comporta di fatto uno svantaggio per le donne che, per ragioni di tradizione e per professare il proprio credo religioso, indossano il velo integrale nelle forme del burqa e del niqab. Trattasi, però, di uno svantaggio oggettivamente motivato da una finalità legittima, costituita dalla necessità di garantire l’identificazione ed il controllo al fine di pubblica sicurezza.
Il divieto di ingresso a volto coperto appare – per il Tribunale – giustificato e ragionevole alla luce della esigenza di identificare coloro che accedono in luoghi frequentati quotidianamente da un elevato numero di persone per chiedere di usufruire di servizi sanitari.
La prassi istituita dalla Regione Lombardia, inoltre, non viola l’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto la “pubblica sicurezza” è uno dei limiti che il medesimo articolo 9 prevede per l’esercizio dei diritti alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione nonché del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.
Ne consegue che l’affissione di cartelli riportanti la scritta, in italiano, inglese, francese e arabo, «per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto», accompagnata da tre immagini con persone indossanti casco, passamontagna e burqa, ciascuna all’interno di un cerchio rosso sbarrato, e riconducibili alla delibera regionale contestata, non realizza – sempre ad avviso del Tribunale – alcuna discriminazione né diretta né indiretta, in quanto le esigenze di pubblica sicurezza indicate fanno ritenere necessario e proporzionato il contenuto dei cartelli.
In conclusione, le tradizioni e i costumi religiosi non possono rappresentare giustificati motivi di eccezione ai sensi dell’articolo 5 della legge n. 152/1975 rispetto alle esigenze di sicurezza all’interno degli edifici lombardi del Servizio sanitario regionale.
Proporzionato e ragionevole il divieto di velo integrale
La Corte d’Appello, dopo aver risolto alcune questioni pregiudiziali, evidenzia la necessità di concentrarsi sul contenuto della delibera della Giunta regionale del 10 dicembre 2015, giungendo alla conclusione che non possa essere attribuito ad essa alcun carattere discriminatorio.
La delibera, infatti, costituisce mera attuazione della legislazione nazionale e non dà luogo a nuove misure di restrizione della libertà personale. Essa non impone alcun divieto generalizzato, dal momento che il divieto derivante da una norma nazionale che impone l’identificazione e il riconoscimento in caso di ingresso e permanenza in luoghi pubblici risulta contestualizzato all’interno di circoscritti edifici lombardi. D’altra parte le strutture pubbliche necessitano di elevati standard di sicurezza interni per garantire l’incolumità dei dipendenti, operatori e utenti esterni.
Nella delibera, inoltre, il divieto non riguarda esclusivamente il velo integrale, ma qualsiasi mezzo che renda difficoltoso il riconoscimento della persona. Il velo integrale non è interpretato come segno di una appartenenza confessionale, ma nella sua oggettività.
La Corte d’Appello condivide l’impostazione del Tribunale che valuta come proporzionato e ragionevole lo “svantaggio” imposto dalla delibera – adottata poco dopo i gravi episodi di terrorismo verificatisi a Parigi il 13 novembre 2015 – alle donne che indossano il velo integrale per motivi religiosi, in quanto limitato nel tempo e circoscritto agli enti del Servizio Sanitario Regionale e giustificato da ragioni di pubblica sicurezza.
Decisione in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
L’ordinanza del Tribunale e la sentenza della Corte d’Appello di Milano, pur non richiamandolo, si collocano di fatto nel solco del diritto vivente enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Per la Corte di Strasburgo, infatti, è del tutto legittimo, in certi casi, il divieto di velo integrale nei luoghi pubblici.
Burqa e niqab possono essere vietati in pubblico nel caso siano visti come un problema per la sicurezza e l’incolumità altrui. Ma possono essere vietati anche quando e se costituiscono una minaccia alla coesistenza, vale a dire al mantenimento delle condizioni che permettono agli individui di convivere nel rispetto della loro diversità e di interagire reciprocamente.
Il pluralismo e la democrazia devono fondarsi sul dialogo e sullo spirito di compromesso. Questi implicano necessariamente, da parte dei singoli, alcune concessioni che si giustificano nell’ottica della salvaguardia e della promozione degli ideali e dei valori di una società democratica.
Illegittimo il divieto di indossare il hijab e il kippah
Diverso il caso di chi indossa il velo islamico che copre solo testa e collo (il hijab), lasciando scoperto il viso.
Al riguardo, la Corte di Strasburgo ha dichiarato illegittimo il divieto di indossare il hijab in luoghi pubblici (nella fattispecie un tribunale), considerando tale limitazione un atto di discriminazione che pregiudica il diritto al rispetto della vita privata e alla libertà di pensiero, coscienza e religione. Indossare il hijab in un’aula di tribunale, infatti, non costituisce una minaccia per il corretto svolgimento del procedimento pubblico.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha altresì avuto modo di stabilire che viola il diritto alla libertà di manifestazione del credo religioso, garantito dall’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la condanna, per oltraggio alla Corte, di un testimone che, per motivi legati alla propria religione, si rifiuta di togliersi un copricapo nel corso di un procedimento penale. Punire un testimone appartenente alla comunità wahhabita/salafita per oltraggio alla corte per il solo motivo del rifiuto di rimuovere il suo zucchetto (il kippah), da lui considerato un simbolo religioso, non è ammissibile in una società democratica e viola il diritto fondamentale della persona di manifestare la sua religione.
Esiste anche la libertà di coprirsi come quella di non farlo. Chi vieterebbe mai la minigonna o lo streap tease? La libertà deve avere due versanti e non uno solo. Se si può vietare alle donne con velo integrale di accedere in ospedale non è forse una violazione del diritto alla assistenza sanitaria? Non si vuole forse commettere una violenza costringendolo a spogliarsi? Riflettete
Vorrei fare notare che l’uso del velo non è previsto dal Corano, è solo una interpretazione integralista a imporla per evitare alla donna contatti con l’esterno. E l’isolamento è maggiore e garantito dal niqab e dal burqa. Quindi non è una espressione dell’apparenenza al mondo musulmano ma ai sostenitori di una visione dell’islam, integralista, per l’appunto. Non vi ponete nemmeno il problema di perché una donna porti un velo così escludente, e non è solo per suo volere – ammesso che una donna possa avere una voce in capitolo – visto che non può decidere nulla. Il velo viene imposto da «maschi padroni» (che si ritengono tali) delle loro mogli e figlie. E se trasgrediscono possono anche essere uccise. Non vi sembra che ci sia una vicinanza con chi in occidente uccide le mogli, figlie, amanti perché non si assogettano al volere dei loro «padroni»? In fondo il femminicidio non è forse una versione del delitto d’onore?
Anche gli uomini si coprono il capo, anche nell’ebraismo, anche gli ortodossi.