Niente “maternità surrogate”

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La Gran Camera della Corte europea dei diritti umani è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di ricorso contro la decisione dello Stato italiano che aveva tolto un bambino a una coppia che lo aveva ottenuto mediante il ricorso al cosiddetto utero in affitto.

Donatina Paradiso e Giovanni Campanelli, una coppia di Colletorto in Molise, si erano visti negare dal proprio comune la registrazione di un bambino nato in Russia nel 2011 da una donna a cui la coppia, dopo aver tentato inutilmente la via dell’adozione, si era rivolta per una maternità surrogata. La vicenda giudiziaria si è dipanata tra ricorsi e sentenze, spesso contrastanti, fino alla sentenza del 24 gennaio 2017.

Dinanzi alle rivendicazioni della coppia, la Corte – così si legge nella sentenza – «non sottovaluta l’impatto che la separazione immediata e irreversibile dal bambino deve aver avuto sulla vita privata dei ricorrenti. Se la Convenzione non concede alcun diritto di diventare genitore, la Corte non può ignorare il dolore emotivo provato da coloro il cui desiderio di paternità non è stato o non può essere soddisfatto». Tuttavia, continua l’argomentazione della Corte, questo desiderio non può essere considerato assoluto, visto che «accettare di lasciare il bambino con i ricorrenti, forse nell’ottica che questi diventino i suoi genitori adottivi, avrebbe significato legalizzare la situazione creata da loro in violazione di importanti norme del diritto italiano».

Due rilievi

La sentenza della Corte europea non si esprime certo contro la maternità surrogata, poiché si limita a verificare come, nel caso di specifico, non ci sia stata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare contro l’ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di un tale diritto. Tuttavia, merita di mettere in evidenza due rilievi che si leggono nella sentenza.

Il primo concerne il fatto che la Corte riconosca il diritto dello Stato italiano a riconoscere la relazione parentale legale di un bambino solo nel caso in cui vi sia un legame biologico o un’adozione legale (nel caso della coppia molisana mancano entrambe). In altri termini, la sentenza rende più difficile la violazione del divieto di “utero in affitto” previsto dalla legge italiana con il ricorso all’escamotage di rivolgersi a paesi che abbiano una legislazione e una prassi più “accomodanti” in materia di maternità.

In secondo luogo, merita attirare l’attenzione su un passaggio della sentenza in cui la Corte riprende un giudizio del tribunale dei minori secondo cui «si potrebbe pensare che il bambino è stato il risultato di un desiderio narcisistico della coppia o aveva lo scopo di risolvere i problemi coniugali». Questo significa affermare che il desiderio di maternità e di paternità, pur legittimo in linea di principio, non dev’essere rivendicato come assoluto e insindacabile.

Due conseguenze

Sono due aspetti che toccano precisamente la valutazione che, al di là del caso specifico, bisogna dare a livello etico della questione della cosiddetta maternità surrogata.

Il primo è costituito dal vincolo oggettivo: non si può prescindere – soprattutto nelle questioni così decisive inerenti alla generazione e ai legami parentali – dal riferimento a una norma, a un legame effettivamente sussistente. La stessa espressione “maternità surrogata” è, a ben vedere, un concetto fittizio, perché non si può surrogare un legame che non c’è, né asserire che il legame fra la madre portante (o gestazionale) e il bambino che porta in grembo sia semplicemente meccanico e “neutrale”.

L’altro aspetto è quello del desiderio soggettivo. Giustamente se ne coglie oggi il valore e altrettanto giustamente si sottolinea che il desiderio di maternità e di paternità è una delle aspirazioni più radicate nel cuore della persona umana. Ma il desiderio non può essere realizzato in qualsiasi modo, ad ogni costo (contro il bambino, contro la madre “in affitto” e, alla fine, contro la coppia stessa). Se non lo si discerne adeguatamente, esso può diventare addirittura espressione narcisistica: nel bambino, in questo caso, si vede semplicemente l’oggettivazione di un puro bisogno soggettivo e non invece un altro da accogliere, da far crescere e a cui donarsi.

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