«Esprimo la mia vicinanza alle migliaia di migranti, rifugiati e altri bisognosi di protezione in Libia: non vi dimentico mai; sento le vostre grida e prego per voi. Tanti di questi uomini, donne e bambini sono sottoposti a una violenza disumana. Ancora una volta chiedo alla comunità internazionale di mantenere le promesse di cercare soluzioni comuni, concrete e durevoli per la gestione dei flussi migratori in Libia e in tutto il Mediterraneo. E quanto soffrono coloro che sono respinti! Ci sono dei veri lager lì. Occorre porre fine al ritorno dei migranti in Paesi non sicuri e dare priorità al soccorso di vite umane in mare con dispositivi di salvataggio e di sbarco prevedibile, garantire loro condizioni di vita degne, alternative alla detenzione, percorsi regolari di migrazione e accesso alle procedure di asilo. Sentiamoci tutti responsabili di questi nostri fratelli e sorelle, che da troppi anni sono vittime di questa gravissima situazione. Preghiamo insieme per loro in silenzio» (papa Francesco, Angelus del 24 ottobre 2021).
Ribellarsi e, da parte del migrante, opporsi anche con comportamenti aggressivi nei confronti del pubblico ufficiale che, dopo averlo soccorso in alto mare, è intenzionato a riconsegnarlo allo Stato libico a bordo del mezzo di soccorso, non costituisce reato. Pretendere che sia tutelato il proprio diritto a non essere ricondotto in un Paese, come la Libia, dove risulta essere sistematica la violazione dei più elementari diritti umani nei centri di raccolta di cittadini stranieri, significa, infatti, invocare la legittima difesa ai sensi dell’art. 52 del codice penale.
È il principio di diritto affermato il 16 dicembre 2021, a pochi giorni dalla celebrazione della giornata internazionale dei diritti umani, dalla sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione che, in udienza pubblica, ha chiarito una problematica di notevole rilevanza giuridica: il non respingimento nei campi di tortura della Libia è un diritto umano che va tutelato, applicando rigorosamente la normativa europea e internazionale che obbliga i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza ai naufraghi trovati in mare e ad accompagnarli in un porto sicuro.
Le motivazioni della pregevole sentenza, depositata il 27 aprile 2022 con il numero 15869, risultano essere di straordinaria importanza e quanto mai di attualità.
Prima di sintetizzarle, conviene richiamare i fatti che sono all’origine di questa che è certamente una sentenza di portata storica.
I fatti oggetto di giudizio
Nel luglio 2018 un rimorchiatore battente bandiera italiana (il rimorchiatore Vos Thalassa) soccorre in area di competenza libica più di sessanta migranti di diversa nazionalità che si trovano a bordo di un piccolo natante in legno in procinto di affondare. Il personale del rimorchiatore comunica la circostanza alle competenti autorità italiane. Queste ultime inoltrano la comunicazione alle autorità libiche, senza però ottenere immediata risposta.
In un primo momento, in assenza di disposizioni delle autorità libiche, il MRCC/Maritime Rescue Coordination Centre di Roma invita il comandante del rimorchiatore a fare rotta su Lampedusa per incrociare un’altra unità navale.
In un secondo momento, però, la Guardia costiera libica contatta il personale del rimorchiatore Vos Thalassa, ordinando di dirigere l’imbarcazione verso le coste africane, onde consentire alle autorità libiche di prendere in carico il soccorso, previo trasbordo dei naufraghi sulla motovedetta libica Tallin.
Il comandante del rimorchiatore, a questo punto, contatta nuovamente il MRCC/Maritime Rescue Coordination Centre di Roma, che dà indicazioni di seguire gli ordini delle autorità libiche.
Il Vos Thalassa volge allora la rotta nuovamente verso sud. Sennonché, nel corso della notte, uno dei migranti (dotato di smartphone con GPS) si avvede del fatto che l’imbarcazione cambia rotta per dirigersi verso le coste libiche. Ne scaturisce uno stato di concitazione tra i migranti che si dirigono in gran numero verso il marinaio di guardia, chiedendo – in maniera agitata – di poter parlare con il comandante o con un ufficiale e manifestando la determinazione di buttarsi in mare e annegare piuttosto che tornare in Libia. La ferma richiesta dei naufraghi soccorsi è quella di invertire la rotta e di non essere ricondotti in Libia.
Tanto il Tribunale di Trapani che la Corte di Appello di Palermo ritengono che la richiesta di non essere consegnati alle autorità libiche sia stata effettivamente accompagnata da comportamenti violenti e minacciosi ascrivibili ai migranti e posti in essere in danno del personale di bordo del rimorchiatore Vos Thalassa (in particolare del marinaio di guardia e del primo ufficiale).
A questo punto, il comandante segnala la situazione di pericolo alle autorità italiane che, infine, inviano sul posto un’unità navale della Guardia costiera italiana (la motonave militare Diciotti) che, imbarcati i migranti a bordo, li conduce nella notte tra l’8 e il 9 luglio 2018 al porto di Trapani.
Al momento dello sbarco, i due migranti (uno di nazionalità ghanese e l’altro di nazionalità sudanese) responsabili della rivolta vengono tratti in arresto, con l’accusa di essersi opposti al comandante e di averlo costretto, con violenza e minaccia, a compiere un atto contrario ai propri doveri, nonché di aver posto in essere condotte dirette a procurare illegalmente l’ingresso in Italia di un numero imprecisato di migranti già soccorsi dal rimorchiatore Vos Thalassa.
La sentenza assolutoria di primo grado
Il Tribunale di Trapani, con una corposa (69 pagine!) sentenza del 3 giugno 2019, assolve ambedue gli imputati, ritenendo provata la materialità dei fatti contestati che, però, non sarebbero punibili, ricorrendo gli estremi della causa di giustificazione della legittima difesa ai sensi dell’art. 52 del codice penale il quale dispone che «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa».
In primo luogo, il Tribunale, dopo aver richiamato l’articolo 10 della Costituzione italiana che investe lo Stato del dovere di non respingere chi corre il pericolo di assistere alla sistematica violazione delle proprie libertà primarie nel Paese d’origine e le fonti sovranazionali a tutela dei diritti umani, segnala le norme riguardanti la materia dei soccorsi in mare. Tra di esse: la Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982 recepita dall’Italia dalla legge 2 dicembre 1994 n. 689, la Convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare del 1974 ratificata dall’Italia con la legge 23 maggio 1980 n. 313, la Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio in mare (SAR) del 1979 resa esecutiva dall’Italia con legge 3 aprile 1989 n. 147.
Dalle leggi indicate emerge
(a) un obbligo di salvataggio in mare della vita umana;
(b) un dovere di individuazione di un luogo sicuro (POS, acronimo di Place Of Safety) ove sbarcare le persone soccorse;
(c) un correlativo diritto soggettivo dei migranti soccorsi in mare ad essere ricondotti in un porto sicuro.
Il Tribunale puntualizza poi che il concetto di POS – nello specifico caso di migranti soccorsi in mare – va declinato in modo particolarmente attento: «laddove le persone soccorse in mare, oltre che naufraghi, si qualifichino – in termini di status – anche come migranti/rifugiati/richiedenti asilo, soggetti quindi alle garanzie e alle procedure di protezione internazionale, l’accezione del termine sicuro (riferita al luogo di sbarco) si connota anche di altri requisiti, legati alla necessità di non violare i diritti fondamentali delle persone, sanciti dalle norme internazionali sui diritti umani (…), impedendo che avvengano sbarchi in luoghi non sicuri, che si tradurrebbero in aperte violazioni del principio di non-respingimento, del divieto di espulsioni collettive e, più in generale, pregiudizievoli dei diritti di protezione internazionale accordati ai rifugiati e ai richiedenti asilo».
Il Tribunale puntualizza altresì la disciplina applicabile al caso, ricordando che la Convenzione di Amburgo (c.d. SAR) non impone un obbligo di cooperazione con le autorità libiche, ma si limita a stabilire che gli Stati contraenti possono stipulare accordi regionali per la delimitazione delle zone Sar, così da assicurare maggiore collaborazione tra le imbarcazioni.
Nel caso specifico, il Memorandum d’intesa siglato il 2 febbraio 2017 tra l’Italia e la Libia che prevede l’impegno, da parte del governo italiano, a fornire supporto tecnico alla guardia costiera libica, è ritenuto dal giudice non giuridicamente vincolante in quanto carente di una ratifica da parte del Parlamento, come richiesto dall’art. 80 della Costituzione.
Ma la sentenza del Tribunale di Trapani è apprezzabile soprattutto là dove tratteggia in modo drammatico e impietoso le condizioni di vita dei migranti presenti in territorio libico, il trattamento riservato dalle autorità libiche ai migranti e la sistematica violazione di «diritti assoluti che spettano alla persona in quanto tali» che trovano altresì fondamento nell’art. 2 della Costituzione italiana, il quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’essere umano, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Secondo il Tribunale, gli imputati vanno assolti in quanto hanno agito per legittima difesa. Senza la reazione da essi posta in essere, tutte le oltre 60 persone presenti nella nave sarebbero state ricondotte in Libia ed esposte a rischi di tortura e a trattamenti inumani e degradanti. I migranti a bordo del rimorchiatore Vos Thalassa «stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro» a causa di un «ordine impartito dalle autorità libiche alla Vos Thalassa palesemente contrario alla Convenzione di Amburgo».
La sentenza di condanna di secondo grado
Senza prendere una chiara posizione sul fondamentale principio di non-respingimento, conosciuto a livello internazionale come non-refoulement, che vieta al paese che riceve richiedenti asilo di rimandarli in un paese in cui sarebbero in probabile pericolo di essere perseguitati per «razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica», la Corte di Appello di Palermo riforma radicalmente la sentenza del Tribunale di Trapani.
Con decisione del 3 giugno 2020 (motivazioni depositate il 24 giugno 2020), il Giudice di secondo grado afferma la penale responsabilità dei due imputati e li condanna, per i reati contestati (violenza e minaccia a pubblico ufficiale, compimento di atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso in Italia di migranti) alla pena di anni tre e mesi 6 di reclusione, alla multa di euro 52.000, al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio e dichiarando gli stessi interdetti da pubblici uffici per la durata di cinque anni.
La condanna è sostanzialmente motivata dal fatto che i due imputati si sarebbero posti volontariamente in una condizione di pericolo, essendo coscienti del rischio del naufragio utilizzando un barcone di legno stipato di persone e chiaramente inadatto alla traversata del Canale di Sicilia e avendo chiesto i soccorsi al fine di essere recuperati da un natante di salvataggio.
Conseguentemente, le loro condotte aggressive e di natura intimidatoria – volte ad impedire la loro riconsegna alla guardia costiera libica da parte dell’equipaggio della Vos Thalassa – non possono ritenersi dettate dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo di un’offesa ingiusta, bensì vanno considerate alla stregua di «atto finale di una condotta delittuosa studiato in anticipo».
Per la Corte di appello, cioè, non sussiste, nel caso specifico, la legittima difesa, mancando il requisito dell’involontaria causazione del pericolo.
Gli elementi di diritto affermati dalla Corte di Cassazione
Nell’annullare senza rinvio «perché i fatti non sussistono» la sentenza della Corte di Appello di Palermo, in primo luogo la Corte di Cassazione ribadisce il fondamentale principio giuridico di natura processuale sull’obbligo della motivazione rafforzata che grava sul giudice di appello tutte le volte in cui ritiene di ribaltare la decisione di primo grado, sia assolutoria, che di condanna. «Motivare in modo rafforzato – si legge nella sentenza – significa costruire un impianto giustificatorio più robusto, più solido, più argomentato in relazione alle questioni, giuridiche e fattuali, che in quella materia e in relazione al caso concreto sono decisive per la correttezza logica e per la legittimità dell’accertamento penale». E ancora: «Assolvere l’obbligo di motivazione rafforzata significa:
a) dimostrare di avere compiuto un’analisi stringente, approfondita, completa del provvedimento impugnato;
b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro cognitivo devoluto, perché non si è condiviso il decisum;
c) chiarire quali sono le ragioni fondanti – a livello logico, probatorio, giuridico – la nuova decisione assunta».
Secondo il giudice di legittimità, nella sentenza della Corte di Appello di Palermo, relativa alla vicenda Vos Thalassa, tale obbligo è stato clamorosamente disatteso in quanto derivante da ragionamenti obiettivamente e gravemente viziati.
In secondo luogo, la Cassazione ribadisce che l’obbligo di soccorso in mare è previsto da norme di diritto internazionale consuetudinario generalmente riconosciute vigenti direttamente nell’ordinamento italiano in ragione dell’art. 10, comma 1, della Costituzione. Si tratta di un diritto sostanzialmente assoluto invocabile non solo dai «rifugiati» in senso stretto, cioè dalle persone che ne possano dimostrare il relativo status ai sensi dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra, ma da qualunque essere umano nei confronti di qualsiasi paese in cui l’individuo interessato corra il rischio effettivo di subire una violazione dei propri diritti fondamentali.
La suprema Corte inoltre afferma, sulla scorta della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che, nell’area applicativa del divieto di respingimento e dell’obbligo di soccorrere e trasportare i naufraghi in un luogo sicuro, devono essere ricondotte anche le operazioni di salvataggio in alto mare come quelle del caso Vos Thalassa, essendo incontestabile che la Libia non possa essere considerato né come Paese terzo sicuro per i respingimenti di cittadini libici o provenienti da esso, né come porto sicuro nel quale procedere allo sbarco dopo le operazioni di salvataggio in mare.
Da ultimo, e in via consequenziale, il giudice di legittimità afferma che le persone migranti soccorse dalla Vos Thalassa erano titolari di un diritto soggettivo ad essere accolte in un porto sicuro e che eventuali condotte che conducono alla violazione di un tale diritto sono da qualificare «ingiuste»: ad esse è pertanto opponibile una difesa legittima. Ne consegue che, in presenza dei presupposti previsti dall’art. 52 c.p., non è penalmente perseguibile la condotta di resistenza a pubblico ufficiale da parte del migrante che, soccorso in alto mare e facendo valere il diritto al non respingimento verso un luogo non sicuro, si opponga alla riconsegna allo stato libico che anche un decreto in data 4 ottobre 2019 del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale non comprende la Libia tra i «Paesi di origine sicuri».