Il 14 febbraio 2006, tre mesi prima di essere eletto alla carica di presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano tenne una lectio magistralis alla Sapienza di Roma (qui). La proponiamo ai nostri lettori e lettrici in ricordo dello statista e politico morto il 22 settembre.
Credo che per poter valutare la condizione del Parlamento oggi in Italia il richiamo all’Assemblea Costituente sia quanto mai pertinente e significativo.
Lo è per almeno due ragioni, perché con l’elezione dell’Assemblea Costituente il 2 giugno 1946 rinacque il Parlamento, e si colmò il vuoto creato dal crollo della dittatura e del totalitarismo fascista e perché nella elaborazione della carta costituzionale il ruolo da attribuire al Parlamento fu oggetto di grande attenzione e di importanti e difficili scelte. Dunque non è retorica la formula che noi abbiamo adoperato: la rinascita del Parlamento.
La rinascita del Parlamento e la Costituente
Certo non furono delle ordinarie elezioni parlamentari e si poteva discutere se sia appropriato il termine di Parlamento per quell’Assemblea, ma io credo che si può ben dire che lo fu. Innanzitutto perché la Costituente aveva tutta l’autorevolezza e la dignità di un’assemblea rappresentativa eletta liberamente, a suffragio effettivamente universale per la prima volta in Italia, furono ammessi al voto 28 milioni di elettori tra i quali, e si trattava di una novità radicale, le donne.
Ma propriamente rinacque il Parlamento con il voto del 2 giugno perché all’Assemblea Costituente non venne solo conferito il mandato supremo e straordinario di scrivere la Costituzione, ma anche almeno in parte l’esercizio dei poteri tipici di ogni Parlamento democratico: il potere legislativo, il potere di investitura dell’esecutivo, il potere di sindacato ispettivo sull’attività del governo.
Queste due ultime funzioni furono pienamente assolte dall’Assemblea Costituente. Per quanto riguarda il potere legislativo, esso era stato delegato al governo già con un decreto luogotenenziale del giugno 1944, ma con il successivo decreto del marzo 1946, sottoposto al parere della Consulta nazionale vennero fatte salve e affidate all’Assemblea Costituente insieme alla materia ovviamente costituzionale anche la materia dei trattati internazionali e delle leggi esistenti. e si previde che il governo potesse affidare all’Assemblea qualunque altro argomento per il quale ritenesse così opportuna la deliberazione sa parte di essa.
Fu così, dato poco noto ma che merita di essere messo in evidenza, che nei suoi 19 mesi di vita l’assemblea costituente dedicò alla costituzione 170 delle sue 375 sedute pubbliche, ma 210 ad altre materie, tra le quali accanto allo svolgimento di interpellanze e interrogazioni, assunsero forte rilievo politico due discussioni e votazioni nel febbraio e nel giugno 1947 sulla fiducia al governo e il drammatico dibattito del luglio sulla ratifica del trattato di pace. Il prolungamento dell’attività dell’Assemblea nel mese di gennaio 1948 fu infine dedicato all’approvazione della legge per la stampa, degli statuti regionali speciali e delle norme per l’elezione del senato.
Nel 46-47 l’assemblea si era due volte pronunciata col voto anche sull’elezione e la rielezione a capo provvisorio dello Stato di Enrico De Nicola. Per quello che riguarda l’elaborazione della Carta costituzionale, nel dibattito che si svolse nella commissione dei 75 e segnatamente nella seconda sottocommissione della costituente e poi in assemblea plenaria, si discusse a lungo sulla scelta della repubblica parlamentare e non fu una discussione scontata perché, pur raccogliendo pochi sostenitori la tesi presidenzialistica, tra i quali anche assai illustri costituzionalisti come Piero Calamandrei, si manifestarono tuttavia serie preoccupazioni per le degenerazioni del parlamentarismo il cui effetto paralizzante e disgregativo del sistema democratico si era fatto sentire con conseguenze fatali non solo nell’Italia prefascista ma anche in altri paesi in modo particolare nella Germania di Weimar.
Si manifestarono voglio dire queste vive preoccupazioni anche tra i sostenitori della Repubblica parlamentare e di ciò c’è traccia in modo particolare nell’ordine del giorno che venne presentato da un costituente, che era anche un illustre studioso, l’on. Perassi, nella seconda sottocommissione della costituente, e l’ordine del giorno così recitava: “la seconda sottocommissione, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale né quello del governo direttoriale”, come allora si voleva denominare il regime svizzero, “risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi tuttavia con dispositivi costituzionali idonei a tutelare l’esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.
In qualche modo anche da costituenti indubbiamente orientati verso la soluzione parlamentare, la si condizionò, possiamo ben usare questo termine, all’accoglimento dell’auspicio formulato dall’ ordine del giorno Pelassi. D’altronde c’era stata anche prima della votazione su quell’odg, che venne approvato a grande maggioranza nella sottocommissione, una discussione molto vivace, che aveva avuto tra i protagonisti, con un lunghissimo intervento, Luigi Einaudi, il quale volle soprattutto mettere in evidenza l’evoluzione in tempi allora recenti verificatasi sia nel sistema presidenziale americano sia nel sistema parlamentare britannico, dove aveva assunto un ruolo preminente la posizione del primo ministro.
Stabilità politica: il ruolo del presidente della Repubblica
Benché approvato a larga maggioranza, quell’odg rimase in buona misura incompiuto, quei dispositivi di cui lì si parlava non furono introdotti in Costituzione. Tra essi si era ipotizzato che ci potesse essere anche un vincolo di durata dei governi una volta ottenuta la fiducia, nel senso che per esempio per un periodo di due anni non fosse immaginabile la espressione di una sfiducia al governo da parte del Parlamento.
Si può dire che non solo non fu introdotto questo dispositivo, ma neppure si identificò la funzione del primo ministro, con una particolare accentuazione per esempio riferibile all’esperienza inglese. In qualche modo si fece affidamento, ai fini del garantire la stabilità politica, sul ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, sul suo potere di nomina del primo ministro, anzi del Presidente del Consiglio e sul suo potere di scioglimento delle assemblee, quando ciò fosse diventato necessario proprio per evitare periodi di instabilità politica.
Io confesso che nel ripercorrere gli atti dell’assemblea costituente, sono rimasto ammirato dell’ampiezza e profondità dei dibattiti che allora si svolsero e non posso fare a meno di notare l’abisso che separa la sapienza e l’equilibrio di quelle discussioni e di quelle soluzioni e l’improvvisazione e l’approssimazione, l’arbitrio da cui è scaturita la legge di revisione della seconda parte della Costituzione di recente approvata a maggioranza dal parlamento.
Ma tornando al filo di questa mia discussione si può ben dire che nella carta costituzionale quale venne alla fine definita rimase centrale e prioritaria la valorizzazione del Parlamento e a ciò si conformarono anche i regolamenti di Camera e Senato. La regolamentazione e la concreta configurazione del rapporto tra Parlamento e governo furono condizionate, direi come è ovvio da fattori politici, in qualche modo lo sosteneva l’altro giorno Leopoldo Elia.
Fu condizionata da fattori politici anche la decisione di non accentuare il ruolo e la posizione del presidente del consiglio. Diceva Elia che in sostanza una tale valorizzazione dei poteri del primo ministro non la volle né De Gasperi né Togliatti, non sapendo né l’uno né l’altro quale sarebbe stato l’esito delle elezioni politiche del 1948. Ma per quello che riguarda la configurazione del rapporto tra Parlamento e governo essa fu sicuramente dettata da uno speciale fattore politico e cioè l’esistenza nel Parlamento italiano di un assai forte partito di opposizione, il Partito comunista, che giunse a rappresentare anche oltre un terzo degli eletti in parlamento, cui era precluso dalla sua stessa collocazione internazionale l’accesso al governo. Quindi si vennero a formare, distinti tra di loro, un circuito della rappresentanza e un circuito del governo. Il riconoscimento del peso del primo compensava l’esclusione di quel partito dal secondo circuito, quello del governo. Naturalmente parlo di compensazioni tacite, nei fatti, mai teorizzate, ma comunque abbastanza riconoscibili.
Centralità del Parlamento
L’affermazione della centralità del parlamento e la necessità di larghe intese tra le forze parlamentari per l’attività dell’assemblea e lo svolgimento della funzione legislativa toccò il culmine con la riforma del regolamento della camera del 1971, che ebbe tra i suoi illustri proponenti e sostenitori l’allora presidente del gruppo parlamentare della Dc Giulio Andreotti, e l’allora presidente del gruppo parlamentare del Partito comunista, Pietro Ingrao.
Si è molto discusso e molto scritto di quella riforma che presentava anche molti aspetti pregevoli di innovazione, che però fu caratterizzata dal vincolo della unanimità assunto a discrimine per moltissime decisioni da prendere e procedure da compiere. Per esempio si sanciva la unanimità per quello che riguarda l’intesa sul programma dei lavori della camera e si parlava di unanimità tra i rappresentanti dei gruppi perchè venne in qualche modo formalizzata una istituzione: la conferenza dei presidenti di gruppo che sarebbe poi diventata sempre più determinante nella organizzazione dei lavori parlamentari.
Come ho detto si tentarono anche delle innovazioni interessanti, per esempio possibilità di discussioni abbreviate limitate, però si disse poi la parte dei relatori, che furono tre riforma essenziale è ricercare l’unanimità, l’accordo sulle procedure, salvaguardare in ogni caso i diritti delle minoranze fino all’estremo esercizio delle possibilità che il dibattito parlamentare loro offre. Fu senza dubbio questo il segno della riforma del 1971 che quindi non andava nella direzione del soddisfacimento delle esigenze a suo tempo propose dall’ordine del giorno Perassi, cioè delle esigenze di una stabilità di governo.
Fu invece a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta che si impose l’esigenza innanzitutto di assicurare la capacità decisionale del Parlamento stesso e anche il diritto di maggioranza del governo a ottenere in tempi ragionevoli un pronunciamento del parlamento sui provvedimenti di discussione ma anche ad esempio sulle questioni di fiducia. E qui si collocò in modo particolare una importante riforma che fu assicurata dalla guida dell’allora presidente della camera dei deputati, on. Nilde Jotti. In particolare evidenza erano allora le conseguenze possibili di un ostruzionismo dilagante e paralizzante.
Era accaduto nel gennaio del 1980 che si discutesse in parlamento il disegno di legge di conversione del decreto Cossiga, contenente rilevanti e urgenti misure contro il terrorismo. La piccola pattuglia dei deputati radicali, quindi non parliamo di una tattica prescelta dai maggiori partiti di opposizione, ma soltanto da un piccolissimo gruppo come quello radicale, condusse un paralizzante ostruzionismo presentando 7500 emendamenti. Al che si impose la decisione, che fu presa anche coraggiosamente e innovativamente dall’on. Jotti in termini di interpretazione del regolamento, secondo cui non fosse possibile procedere alla illustrazione dei singoli emendamenti senza limiti di tempo.
Evitare distorsioni
E se in quell’occasione fu possibile superare quell’ostruzionismo, in realtà si riconobbe la esigenza non più di ricorrere a interpretazioni ma a modifiche del regolamento. Queste modifiche furono una seconda e vera e propria riforma e furono varate nel novembre del 1981. Fu molto faticoso anche ottenere l’approvazione di quelle modifiche del regolamento perché in quell’occasione i deputati radicali presentarono 53.366 emendamenti e quindi fu necessaria una guida molto ferma della presidenza della Camera per portare a compimento l’approvazione di quelle modifiche del regolamento che però in pratica già al di là della valenza anti-ostruzionistica valsero ad aprire la strada a una programmazione e una più funzionale organizzazione dei lavori parlamentari a un ragionevole contenimento dei dibattiti specie in funzione della certezza della decisione.
Si trattò di una correzione importante rispetto alla riforma del 1971 e anche se si vuole di una chiarificazione necessaria e utile sul concetto di centralità del parlamento. La Jotti ne dava una interpretazione molto misurata sostenendo che “occorre riconoscere nel Parlamento la sede del confronto e il centro della vita politica istituzionale del nostro paese”. Ma in realtà molto spesso invece sostenendo la tesi o la formula della centralità del parlamento si parlava o si alludeva ad altro e cioè a dilatazioni distorsive del ruolo del Parlamento e interferenze tra la sfera delle responsabilità di governo e la sfera di prerogative del Parlamento, a pretese e illusioni di democrazia assembleare.
Fu io credo assolutamente saggio e salutare sormontare quegli equivoci e procedere ad una più netta delimitazione delle responsabilità del Parlamento da un lato e del governo dall’altro e garantire certezze di decisione del Parlamento. In questo senso una successiva innovazione molto importante fu la istituzione della sessione di bilancio e fu una prova importante anche per l’opposizione.
In sostanza nella opposizione e segnatamente nella opposizione di sinistra rappresentata dal Pci, andava maturando la consapevolezza della pericolosità delle distorsioni implicite non solo nell’ostruzionismo selvaggio ma anche nelle logiche unanimistiche e nelle tattiche dilatorie. Si trattava anche quando non si faceva ostruzionismo, per esempio di presentare una gran quantità di emendamenti, di rallentare o a mettere in crisi il cammino di un provvedimento e in questo modo, se si vuole, ad aprire la strada ad una contrattazione tra maggioranza e opposizione finalizzata alla conclusione dell’iter legislativo, una contrattazione che per lo più si risolveva in risultati di modifiche marginali del provvedimento, ma snaturandolo e anche annebbiandolo di responsabilità e non si sapeva alla fine se quel provvedimento era della maggioranza o dell’opposizione.
Quelle logiche e quelle tattiche potevano esaltare il potere contrattuale del più forte partito di opposizione ma in ultima istanza ne frustravano il ruolo di potenziale alternativa alla maggioranza e al governo in carica e di ciò maturò consapevolezza anche nella opposizione comunista e questa consapevolezza si tradusse nella partecipazione, ero io stesso allora presidente del gruppo parlamentare dei comunisti, alla modifica importante della istituzione di una sessione di bilancio.
Si deve ricordare che fino a quel momento era stata prassi normale lo slittamento dell’approvazione del bilancio oltre il termine costituzionale del 31 dicembre con conseguente ricorso all’esercizio provvisorio e notevole guasto della conduzione ordinata della finanza pubblica. In questo interesse generale e anche sulla base delle valutazioni che ho detto si concordò l’istituzione di questa sessione di bilancio che implicava già un primo contingentamento dei tempi, si segnarono nel regolamento della camera scadenze precise per ciascuna fase della discussione dei provvedimenti di bilancio con tempi limitati allo scopo di non superare il limite del 31 dicembre, ed è un dato di fatto che dall’anno in cui, il 1983, la sessione di bilancio fu istituita nei regolamenti parlamentari fino ad oggi non c’è mai stato ricorso all’esercizio provvisorio.
Legislativo ed esecutivo
Poi via via questa tendenza a un riequilibrio tra Governo e parlamento, nell’attività parlamentare, continuò fino al 1997 che è stato l’ultimo anno di modifiche incisive del parlamento con qualche ulteriore coda fino al ’99. Nell’88 si ricorderà forse che venne praticamente superata la prevalenza del voto segreto nelle votazioni di assemblea e questa fu naturalmente una modifica di notevole rilievo politico, perché insieme con la prevalenza del voto segreto scomparve il fenomeno molto noto dei franchi tiratori, cioè la possibilità che dall’interno dello schieramento di maggioranza, a scrutinio segreto e senza mostrarsi senza rischiare e senza assumersi le responsabilità, una parte dei parlamentari votasse contro i provvedimenti del governo cooperando insieme alla opposizione alla loro bocciatura o alla loro modificazione o anche alla loro più o meno sostanziale trasformazione.
Anche questo naturalmente poteva essere considerato un punto di vantaggio per la opposizione, però senza dubbio rappresentava, possiamo usare questo vecchio termine evocato dai costituenti, una degenerazione parlamentaristica. Quindi si stabilì l’assoluta prevalenza della votazione a scrutinio palese con alcune ben circoscritte eccezioni indicate sempre dal regolamento, successivamente si procedette a una limitazione dei tempi di parola nelle discussioni in assemblea, per lunghi anni non c’era stato alcun limite, che rimase fissato a un massimo di 30 minuti per gli interventi generali in assemblea, ma poi si è passato a segnare limiti di tempo anche per gli altri interventi nella discussione degli articoli, degli emendamenti e così via.
Cominciava quindi a delinearsi una effettiva certezza dei tempi nelle decisioni del parlamento. La programmazione dei lavori fu rivista nel senso di non ancorarla più ad un accordo unanime tra i capi gruppo, bensì come è rimasto dal 1997 ad un accordo dei tre quarti dei parlamentari rappresentati dalla conferenza dei capi gruppo salvo anche la possibilità che non si raggiunga la maggioranza dei tre quinti che in definitiva il calendario dei lavori venga definito dal presidente della Camera.
Si riconobbero le priorità del governo, nel senso che il calendario sarebbe stato da allora in poi predisposto sulla base delle indicazioni del governo e delle proposte dei gruppi, il tempo complessivo disponibile per la discussione degli argomenti in calendario doveva essere fissato e ripartito tra i gruppi e anche in questo caso se non ci fosse stato l’accordo dei tre quarti il compito sarebbe spettato al presidente.
Questo mette in evidenza come sia importante l’esercizio di un potere neutrale di direzione dell’assemblea da parte dei presidenti proprio perché ci sono margini di discrezionalità per decisioni molto delicate affidati precisamente alla neutralità del presidente. Quando parlo di certezza dei tempi parlo anche e in particolare di certezza dei tempi per l’approvazione e conversione in legge dei decreti legge che hanno come tutti sanno una scadenza fissata in Costituzione nel termine dei 60 giorni.
Per lunghi anni questo termine è stato in pratica aggirato con la possibilità di reiterare più volte decreti legge non convertiti entro la scadenza dei 60 giorni fin quando (eravamo insieme membri del governo con il professor Flick allora non giudice costituzionale ma semplicemente destinatario anche lui di una decisione della Corte costituzionale) dalla Corte venne impedita la prassi di reiterazione del decreto. Però naturalmente ciò dava più responsabilità per la conversione entro i 60 giorni su decreti legge che comunque avevano dovuto ricevere la firma del Presidente della Repubblica in quanto corrispondenti a criteri di straordinarietà e di urgenza.
Riequilibrio
Possiamo dunque ben dire che nel corso di un periodo non breve si è sostanzialmente rafforzata la posizione del governo in Parlamento, si è riequilibrato il rapporto tra governo e parlamento e in queste condizioni si è giunti nel 2001 all’avvio della XIV legislatura, quella che è stata appena conclusa.
Bisogna dire che la vicenda di questa ultima legislatura è stata connotata sul piano politico dall’esistenza di una maggioranza di governo quanto mai ampia, anche grazie al meccanismo elettorale introdotto nel 1993. Io credo che noi dobbiamo ribadire la validità del principio maggioritario ma come ci ha insegnato anche qualche illustre studioso come Ruffini non meno importante è la consapevolezza dei limiti entro cui il principio maggioritario va esercitato e del senso di questi limiti non si è vista traccia nel corso degli ultimi anni.
L’uso e l’abuso della superiorità numerica della maggioranza di governo e una certa applicazione dei regolamenti hanno finito per comprimere gravemente il ruolo del Parlamento i diritti delle opposizioni. Tra uso discutibile dei poteri discrezionali dei presidenti e pronunciamenti di aula, ad esempio sul calendario, si è arrivati a fortissimi condizionamenti dell’attività del Parlamento.
Sono state prese a maggioranza decisioni molto delicate sul rispetto o il non rispetto delle regole pur sancite relative alla specificità e omogeneità dei decreti legge e ai limiti di contenuto dei decreti legge, tutte le pronunce in materia di inammissibilità di emendamenti e articoli aggiuntivi non attinenti alla materia dei decreti legge si trattasse di pronunce di inammissibilità spettanti ai presidenti o decise dalla stessa assemblea, sono stati posti di fronte a decisioni estremamente generose in materia di ammissibilità.
Credo che quasi nulla sia stato dichiarato inammissibile. Io ricordo come in altri tempi anche da parte di chi vi parla nell’esercizio delle sue funzioni di presidente, ma potrei citare anche esempi molto significativi per la presidenza della on. Jotti, queste pronunce di inammissibilità erano state severe, severe nel contemperamento delle esigenze del governo e dei diritti dell’assemblea.
Il gioco degli emendamenti
Infine il continuo ricorso alla questione di fiducia, questione che come voi sapete è molto controversa e molto delicata anche sul piano costituzionale e del diritto parlamentare, ma senza neppure accennare alla problematicità dell’istituto stesso della questione della fiducia al di fuori di alcuni casi di conferimento della fiducia al governo o di pronuncia su mozioni di sfiducia, vale la pena di citare una caso più di ogni altro abnorme e grave, quello cioè relativo alla modalità di discussione e approvazione della legge finanziaria.
Anche in questa recente occasione, non è stata la prima volta per la legge finanziaria, relativa al 2007, è stato presentato un maxi emendamento e badate che un analogo tentativo di maxi emendamento che accorpasse infiniti emendamenti di parlamentari e dello stesso governo fatto nel 1988 fu dichiarato inammissibile dall’allora presidente Jotti e ritirato dal governo del tempo.
Questa volta tutto è stato ammesso e praticato e quindi in pratica riassorbendo l’intero contenuto della legge finanziaria, riscrivendo la legge finanziaria più o meno sulla base degli emendamenti che piacevano ad alcuni settori della maggioranza o del governo, non c’è stata possibilità di discussione nel merito di pronuncia su alcun articolo o disposizione della legge finanziaria, e ricordate quello che ho prima detto a proposito della sessione di bilancio si è fatto ricorso alla questione di fiducia, perché sul maxi emendamento è stata posta la questione di fiducia, si è fatto ricorso a questa tecnica nonostante che le norme vigenti in regolamento garantissero la possibilità di stroncare un eventuale ostruzionismo e di garantire l’approvazione della legge finanziaria entro il termine costituzionale del 31 dicembre.
Io credo che si possa dire nel modo del tutto obiettivo, cerco di non dare nessuna intonazione di parte, a queste mie considerazioni, che le prassi procedurali e il clima che si è venuto a formare hanno indebolito e svilito l’istituzione parlamentare. Io stesso tornando molto di recente a farne parte dopo quasi dieci anni di assenza, sono stato impressionato dal grado di indebolimento di questo e svilimento.
Parlo anche di clima, essendosi creato un clima di contrapposizione cieca tra gli opposti schieramenti è completamene scomparsa ogni residuo di quello che una volta si chiamava ascolto reciproco. Il parlamento è un luogo in cui in linea generale non dovrebbe parlare ognuno per conto suo, ma dovrebbe parlare ciascuno dell’aspettativa di essere ascoltato dall’altro e con la predisposizione ad ascoltare l’altro.
Il Parlamento indebolito
Tutto questo è stato cancellato e quindi non solo leggi di specialissima natura, quella di revisione della seconda parte della Costituzione e quella di riforma del sistema elettorale, leggi che in qualsiasi paese e parlamento democratico implicano intese assai ampie, sono state definite a maggioranza senza alcuna considerazione per le opinioni delle opposizioni, ma anche provvedimenti legislativi ordinari sono nati sempre di più non da una normale dialettica parlamentare, ma venendo imposti in blocco quasi come inemendabili dal governo e dalla maggioranza.
Quindi non è esagerato affermare che oggi, a sessant’anni dalla nascita dell’Assemblea Costituente noi abbiamo un parlamento non in grado di pronunciarsi in modo meditato, di svolgere un proprio ruolo non prevaricante ma autonomo rispetto a quello del governo, e si deve concludere a mio avviso con una fase di riequilibrio anche attraverso modifiche legislative e regolamentari.
Non voglio qui sollevare problemi per altro importanti e complessi di ordine costituzionale, ma un problema molto serio di riequilibrio o rinnovata posizione del parlamento. Non penso che questo auspicio e la piena consapevolezza di affermazione di questa esigenza rappresenti un residuo del passato o un semplice moto di nostalgia per l’Assemblea Costituente.