Conferme drammatiche e nuove ricerche sul versante delle persecuzioni.
Nell’area sub-sahariana – e in particolare in Nigeria – si susseguono gli attacchi e i massacri nelle comunità cristiane ad opera del fondamentalismo islamico.
Dall’altra parte del globo, in Messico, si contano le uccisioni di preti e di fedeli da parte della malavita del narcotraffico.
Fondamentalismo islamico, assenza dell’autorità statale (malavita diffusa ed endemica), ideologie totalitarie (comuniste), radicalismi religiosi (nell’induismo e nel buddismo), statalismo islamico sono i maggiori vettori della persecuzione anticristiana che interessa 360 milioni di persone.
Oltre alle conferme, c’è la novità della ricerca: il rapporto di Open Doors sul peso della violenza religiosa all’interno dei 100 milioni di profughi, sfollati e rifugiati registrati nel mondo.
Nigeria e Messico
Il 5 giugno, un commando terrorista ha circondato una chiesa di Owo, nello stato di Ondo (Nigeria), uccidendo 40 persone e ferendone alcune decine. Il 19 giugno un analogo attacco in due chiese di Kaduna ha fatto tre morti e una trentina di rapiti.
Massacri, furti e rapimenti (per riscatto) si susseguono e rispondono a una modalità definita: un gruppo in motocicletta o su automobili penetra in aree geografiche a maggioranza cristiana, terrorizza gli abitanti, ruba le cose di valore e uccide in forma indiscriminata.
Dei 5.898 morti per le persecuzioni anti-cristiane registrati nel mondo nel 2021 il 76% è nigeriano. Sulle tensioni sociali fra le popolazioni di pastori degli stati del Nord (musulmani) e quelle agricole e stanziali del Sud (cristiani e musulmani) si sono incistati i gruppi del fondamentalismo islamico (Boko Haram, stato islamico e altri gruppi armati).
I cristiani, come le altre minoranze, non possono contare sulle forze di sicurezza nazionale. Oggetto di attacchi sono anche i musulmani “dialoganti”.
I gruppi estremisti perseguono la distruzione di ogni traccia di presenza cristiana e di educazione, a loro avviso “occidentale”.
I 2.510 sequestri registrati nel 2021 si accaniscono sulle ragazze. Fatto che traumatizza le famiglie, obbligandole a sequestrare le giovani in casa, togliendo loro la fondamentale opportunità scolastica.
Fra le vittime predestinate vi sono i preti e i pastori protestanti, ma anche gli imam dialoganti. Il 22 maggio è stato sequestrato il pastore battista Samuel Kalu Uche. Pochi giorni prima, due sacerdoti cattolici, Stephen Ojapa e Oliver Okpara, hanno avuto la stessa sorte. Prima di loro sono stati sequestrati p. A. Uhoh, I. Abasi, J. Okorico, U. Obanla (anglicano), p. A. Bako, p. F. Zakari ecc. Sequestrati a scopo di riscatto anche gli imam A. Shehu Mai Annabi, M. Ahmad Garko e, recentemente, altri due imam di Ayetoro (Ogun).
Il vescovo della diocesi di Ondo, in occasione dei funerali delle vittime del 5 giugno ha qualificato di «vuote promesse» gli impegni delle forze di polizia di cercare i banditi e i mandanti, invitando tutti a «difendere il paese da quelli che lo distruggono».
Sulle figure dei preti si accanisce anche il narcotraffico e la malavita messicana. Il 20 giugno sono stati uccisi nella loro chiesa (Urique, Sierra de Chihuahua) i due gesuiti J. Camòpos e J. Mora, colpevoli di aver difeso un parrocchiano. I corpi sono stati portati via. I gesuiti messicani denunciano: «Ogni giorno, donne e uomini sono privati arbitrariamente della vita, come è accaduto per i nostri confratelli».
Nel 2021 sono stati registrati a livello nazionale 33.308 omicidi. L’uccisione dei preti e del personale religioso si colloca in questo dramma che sembra non avere fine. Dal 2014 si registrano una decina di preti uccisi all’anno, ma le minacce nei loro confronti sono quasi un migliaio.
La figura del religioso è spesso una dei pochi riferimenti locali. Ucciderlo significa che nessuno è sicuro, imporre il terrore e la cultura del silenzio.
Qualche settimana fa il presidente della Conferenza episcopale, mons. Rogelio Cabrera López, diceva: «È vero (la violenza è una questione strutturale), questa realtà va al di là anche del nostro stesso paese, ha ramificazioni ovunque. Penso al narcotraffico, alla tratta di persone. Comportamenti che mirano a guadagni milionari. La violenza è frutto di un desiderio illimitato di denaro. A questo noi non possiamo far altro che contrapporre un artigianato di pace… La Chiesa deve usare la sua voce per convincere le autorità a unire le forze per la pace».
Sfollati e rifugiati a rischio
The Church on the Run (la Chiesa in fuga) è il titolo del rapporto che Open Doors, un’associazione interconfessionale dedicata alla denuncia delle persecuzioni anticristiane, ha pubblicato il 17 giugno scorso. Riguarda le modalità con cui agisce la persecuzione anticristiana tra i credenti che si sono visti costretti ad abbandonare tutto per mettersi in salvo, una parte non trascurabile dei 100 milioni di profughi e sfollati che le agenzie ONU registrano per l’anno in corso.
Obbligare i credenti e le loro famiglie ad andarsene sembra una vessazione amministrativa, ma può far parte di una lucida persecuzione.
Il viaggio della speranza è spesso attraversato da violenze antireligiose specifiche. In ogni caso la perdita di riferimento alla comunità mette alla prova la fede professata ed espone alla violenza psicologica e fisica.
L’essere cristiani è talora una ulteriore ragione di fragilità non percepita anche dalle associazioni umanitarie.
Riconoscere l’identità confessionale è compito urgente davanti ai fenomeni di massa dei rifugiati e degli “sfollati interni” (nello stesso paese).
La connessione fra confessione cristiane e migrazione forzata è evidente per il fatto che, nei primi 76 paesi nella lista di quelli a maggiore persecuzione, sono 58 quelli che registrano cristiani che dichiarano di essere forzatamente sfollati.
Il 46% degli sfollati interni si registra in cinque paesi ai vertici delle violenze anti-cristiane: Siria, Afghanistan, Congo, Colombia, Yemen.
Il 68% dei rifugiati provengono da paesi sottoposti a gravi discriminazioni religiose come Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar.
Secondo Helen Fischer, una degli esperti che ha curato al ricerca: «La costrizione ad andarsene non è solo un prodotto collaterale della persecuzione, ma in molti casi è un elemento deliberato di una strategia più ampia per rimuovere il cristianesimo dalla propria comunità o dal paese». A partire dai comportamenti drammatici delle famiglie che non tollerano le conversioni.
«In molti contesti vi è maggiore probabilità che siano i cristiani ad essere costretti ad abbandonare il loro paese e a sperimentare violenza psicologica e fisica nel loro viaggio».
Sia per i singoli come per i gruppi o i popoli la decisione di andarsene arriva dopo un lungo processo di esclusione. Esso si argomenta in una serie di crescenti pressioni a livello di famiglie (in particolare sulle donne convertite), delle amministrazioni nazionali o locali (ad es. le leggi contro la blasfemia), di stati o di gruppi religiosi violenti. Quest’ultimo è il caso che giustifica le migrazioni interne in Mali, Niger, Burkina Faso e Nigeria.
Nei paesi del Golfo (Medio Oriente) è la pressione statale ad amplificare i sistemi di pressione sui cristiani. La Siria li ha costretti a raggiungere i territori curdi dove sono vittime delle operazioni anti-curde della Turchia.
In Asia la pressione maggiore per l’allontanamento dei cristiani sono la famiglia e la comunità locale. In Myanmar un gruppo di estremisti buddisti (Ma Ba Tha) è guidato dallo slogan «essere birmano significa essere buddista».
I nord-coreani che fuggono in Cina sono alla mercé dei loro datori di lavoro che possono denunciarli quando vogliono. Condizione che, nello stesso paese, fa delle donne nord-coreane una facile preda per la prostituzione.
In America Latina i cristiani, a parere di un esperto citato nel rapporto, «sono il principale nemico della malavita che cerca di rendere loro la vita difficile».
Il ruolo della variabile fede
L’Iraq è un caso da manuale. Prima di Saddam Hussein, i cristiani erano più di un milione. Oggi sono 166.000. La strategia della terra bruciata per i cristiani da parte dell’Isis si sta compiendo. Il testo sita uno spezzone di intervista: «Tutti se ne vanno lentamente e spesso nessuno sa che se ne sono andati. Succede in silenzio, ma succede ogni giorno. Le persone imballano le loro cose, chiudono le porte della casa e si lasciano alle spalle tutta la vita. Qualche volta incontro qui (in Giordania) persone che conosco e sono sorpreso di vederli. Penso che ci sia in tutti un senso di vergogna, anche se non conosco nessuno di noi che potesse fare un’altra scelta».
La vita da cristiano sfollato interno o emigrato è carica di vulnerabilità in cui la fede è una risorsa ma spesso anche un motivo in più di esclusione.
L’insicurezza fisica e le sfide psicologiche sono le principali forme di pressione. Gravate dal fatto di essere donna o bambino.
I cristiani cercano, ad esempio, di evitare i campi profughi della Libia e dell’Iraq.
In linea di massima, lo studio cerca di fare emergere le sfide specifiche che la fede cristiana sopporta nel contesto degli sfollati interni e dei rifugiati all’estero. E suggerisce di sviluppare specifici programmi di anti-discriminazione per tutelare i diritti dei credenti rifugiati e sfollati, sollecitandoli a partecipare alla progettazione dei programmi di aiuto e coinvolgendo le organizzazioni religiose presenti.
Auspicabile anche una formazione specifica per gli operatori umanitari e la fornitura di mezzi adeguati agli operatori religiosi locali che lavorano con gli sfollati interni.