Nel contesto attuale del quadro normativo e giurisprudenziale italiano e internazionale di ampliamento della tutela dei diritti della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela applicabile al concepito, all’embrione e al nascituro, il criterio distintivo tra interruzione colposa della gravidanza e omicidio colposo va individuato nell’inizio del travaglio del parto in cui prende avvio quel periodo di transizione dalla vita intrauterina e quella extrauterina, identificabile con il momento della rottura del sacco amniotico. Ne consegue che il concepito inizia ad essere considerato persona dall’inizio del travaglio e non già solo dal successivo momento del distacco dall’utero materno. Il personale sanitario che provoca la morte del bimbo durante il travaglio risponde, pertanto, non del reato di aborto colposo ma di quello ben più grave di omicidio colposo.
Lo ha stabilito, affrontando un caso di malasanità, la Corte di Cassazione con una recente sentenza, che ha trovato molto spazio nei mezzi di informazione, confermando un orientamento inaugurato nel 2008.
La vicenda
Nel luglio 2015 il Tribunale di Salerno condanna alla pena ritenuta di giustizia un’ostetrica indagata in relazione al delitto di omicidio colposo, per aver provocato, nel novembre 2008, la morte di un bimbo (“feto”) durante il travaglio.
Il giudizio di responsabilità è emesso alla luce delle sommarie informazioni testimoniali, acquisite col consenso delle parti, delle risultanze della cartella clinica relativa al ricovero della paziente, delle dichiarazioni tecniche dei consulenti del pubblico ministero e delle difese, dei periti nominati dal Tribunale e delle spontanee dichiarazioni di un coimputato, assolto dall’accusa di aver cagionato la morte del feto mediante la manovra di Kristeller, non valutando l’opportunità di un taglio cesareo o la tempestiva applicazione del forcipe e della ventosa.
In considerazione delle risultanze dell’esame autoptico e istopatologico, i consulenti affermano che il bimbo non ha mai respirato e che, quindi, è nato morto per asfissia perinatale.
Secondo i consulenti del pubblico ministero, se la sofferenza fetale fosse stata diagnosticata in tempo utile, il ricorso ad un taglio cesareo o alla ventosa ostetrica, ricorrendone le relative condizioni di utilizzo, ne avrebbero impedito la morte.
Il giudizio di merito
Il Tribunale ravvisa gravi profili di colpa professionale per negligenza e imperizia nella condotta della imputata, addetta all’assistenza della partoriente e al controllo delle fasi di travaglio.
Dalla ricostruzione dei fatti emerge che l’ostetrica, benché presente in sala parto, aveva proseguito nelle stimolazioni manuali per indurre la dilatazione del collo dell’utero, tranquillizzando due volte il ginecologo riguardo all’andamento lento ma regolare del travaglio, senza più rilevare il battito cardiaco del bimbo.
Proprio il mancato rilievo del battito cardiaco aveva impedito di scoprire la sofferenza fetale già in atto; l’omessa comunicazione al ginecologo della complicanza sopravvenuta, aveva, invece, impedito l’adozione delle manovre urgenti e indispensabili per scongiurare la morte in utero del feto.
In appello, nel luglio 2015 la Corte territoriale respinge la richiesta di rinnovazione dibattimentale, confermando la decisione di primo grado. In particolare, evidenzia il nesso causale tra l’errato o non adeguato monitoraggio del benessere fetale, che aveva determinato il tardivo intervento del ginecologo, e il decesso del bambino.
La presenza di altri operatori sanitari in sala parto non dispensava l’ostetrica dalla gestione della paziente, dal momento che, ai sensi di legge, l’ostetrica deve essere in grado di individuare situazioni potenzialmente patologiche che richiedono intervento medico e di praticare, ove occorra, le relative misure di particolare emergenza.
L’ostetrica, perciò, non poteva ritenersi esonerata dalla gestione e dal monitoraggio del travaglio in ragione della presenza del ginecologo e dell’anestesista (c.d. principio dell’affidamento). Ella avrebbe dovuto non limitarsi a praticare stimolazioni manuali, ma monitorare continuamente l’andamento delle contrazioni e la stabilità del benessere del nascituro.
Il ricorso per Cassazione
L’imputata ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello. Dei sei motivi di impugnazione proposti, sono rilevanti, sotto il profilo giuridico ed etico, due (il secondo e il terzo), che la Cassazione esamina congiuntamente per ragioni di ordine logico.
La ricorrente lamenta l’errata qualificazione giuridica della fattispecie delittuosa a lei ascritta quale omicidio colposo ai sensi dell’articolo 589 del codice penale, in luogo del reato di aborto colposo di cui all’articolo 17 della legge n. 194 del 1978 e chiede, in subordine, che sia sollevata la questione di legittimità costituzionale del citato articolo 589 del codice penale per violazione dei principi di tassatività, frammentarietà e sufficiente determinatezza della fattispecie penale, in quanto esso non fornirebbe un’accezione univoca del concetto di “persona”, eventualmente escludendo o includendo in detta accezione anche il “feto umano”.
A sostegno di tale affermazione viene richiamato il reato di cui all’articolo 578 del codice penale (Infanticidio in condizioni di abbandono morale o materiale), il quale distingue e non equipara le ipotesi di «morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto» o di «morte del feto durante il parto», ricavando da ciò che la portata punitiva dell’articolo 589 del codice penale non potrebbe essere estesa anche alle ipotesi di morte del nascituro nella fase finale della gravidanza.
In particolare, secondo la difesa dell’imputata, lo status di “persona” si acquisirebbe con la fuoriuscita dall’alveo materno e con il compimento di un atto respiratorio. Il concetto di “persona”, di conseguenza, non potrebbe ricomprendere il feto, la cui morte dovrebbe quindi, essere ricondotta nelle diverse e più lievi fattispecie disciplinate dagli articoli 17 e ss. della legge 22 maggio 1978 n. 194.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di cassazione disattende l’assunto difensivo, rigetta il ricorso e conferma la condanna in via definitiva dell’ostetrica. Nega altresì le circostanze attenuanti generiche a causa del comportamento censurabile dell’imputata che aveva manomesso la cartella clinica e aveva riferito alla sfortunata mamma che il piccolo era nato vivo, avendone lei stessa verificato il battito cardiaco al momento della nascita.
Aderendo ad un indirizzo giurisprudenziale risalente al 2008, la Corte di Cassazione ribadisce, in primo luogo, che, in tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra il reato di interruzione colposa della gravidanza e quello di omicidio discende dall’inizio del travaglio e segnatamente dall’autonomia del feto. Il travaglio di parto, spontaneo o indotto, in qualunque periodo di gestazione, segna la discriminante tra la vita dipendente e la vita autonoma.
I reati di omicidio e di infanticidio-feticidio – affermano i giudici di legittimità – tutelano lo stesso bene giuridico, e cioè la vita umana nella sua interezza. Ciò si desume anche dalla terminologia adoperata dall’articolo 578 del codice penale – “cagiona la morte” – identica a quella adottata per il reato di omicidio. È di tutta evidenza, infatti, che «si può cagionare la morte soltanto di un essere vivo».
Il legislatore, quindi, ha sostanzialmente riconosciuto anche al feto la qualità di essere umano vero e proprio, giacché «la morte è l’opposto della vita».
Con la locuzione «durante il parto», l’articolo 578 del codice penale specifica cosa sia da comprendere nel concetto di “uomo” quale soggetto passivo del reato di omicidio volontario di cui all’articolo 575 del codice penale, in cui deve essere incluso anche il “nascente”.
Includere l’uccisione del “nascente” nell’ambito dell’omicidio – fanno ancora rilevare i giudici – non comporta un’applicazione analogica di una norma a danno dell’imputata (non consentita dalla legge), «ma una mera interpretazione estensiva, legittima in relazione alle norme penali incriminatrici».
Il nascente è persona
Per i supremi giudici, dunque, chi, con l’inizio del travaglio della gestante, sta per nascere è “persona”.
Prima di detto limite la vita del “prodotto del concepimento” è tutelata da altro reato: il procurato aborto disciplinato dagli articoli 17 e ss. della legge 22 maggio 1978 n. 194.
Non deve trarre in inganno – aggiunge la Suprema Corte – l’utilizzo del termine “feto”, nel dettato normativo dell’articolo 578 del codice penale, ivi «usato impropriamente, perché il nascente vivo non è più feto, né in senso biologico, né in senso giuridico, bensì persona» e così, se «in un parto, naturalmente o provocatamente immaturo», il nascente è «un essere vivo, la sua uccisione volontaria costituisce omicidio, qualunque sia stata la durata della gestazione».
Né – prosegue la Corte – «deve fuorviare, nella demarcazione dell’ambito applicativo degli illeciti, il termine aborto ancora solitamente utilizzato dalla giurisprudenza. Se è vero che nella scienza medica si intende per aborto l’interruzione spontanea o artificiale della gravidanza in un periodo in cui il feto non è ancora vitale per l’insufficienza del suo sviluppo (prima del suo 180° giorno), secondo la nozione giuridica penale l’aborto è ogni interruzione del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del feto, tant’è che il legislatore utilizza per il reato in questione la più neutra formula interruzione della gravidanza».
Una simile impostazione, chiarisce la Corte di legittimità, «appare priva di profili di incostituzionalità, innestandosi in un quadro normativo e giurisprudenziale italiano e internazionale di totale ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che comprende il concepito, l’embrione e il nascituro».