Referendum: parlamento e rappresentanza

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L’ormai prossimo referendum sul taglio dei parlamentari (cf. SettimanaNews) comincia a suscitare finalmente l’interesse dei mezzi di comunicazione e dell’opinione pubblica; ed era ora, visto che si volta il 20 e il 21 settembre e che la questione appare ben più rilevante, per il futuro del nostro Paese, delle tristi vicende di cronaca nera (come quella, davvero dolorosa, di Caronia) da settimane sulle prime pagine dei giornali.

Vale la pena di ricordare alcuni dati. La riforma prevede che i seggi alla Camera da 630 diminuiscano a 400 e quelli al Senato da 315 diventino 200. È una riduzione di circa un terzo: si passerebbe da un rappresentante per circa 96mila abitanti a uno per circa 151mila.

Qualche confronto può essere utile. Attualmente la Germania, con 82 milioni di abitanti, possiede la Camera più numerosa: i deputati del Bundestag sono 709, uno per circa 117.000 abitanti. L’Assemblea Nazionale francese – che rappresenta una popolazione di 67 milioni di persone – si compone di 577 membri eletti, un deputato per poco più di 116.000 abitanti. Il Regno Unito, con 66 milioni di abitanti, ha 650 deputati, uno per circa 100.000 abitanti.

Storia di una riforma

La riforma era stata definitivamente approvata alla Camera, nell’ottobre del 2019, con il voto favorevole di tutti i partiti (invece, nel luglio dello stesso anno, era passata, ma con i voti contrari dei senatori del Pd e di Leu, allora ancora all’opposizione). Il referendum ha dunque lo scopo di confermare o meno questa legge e perciò, a differenza di quelli abrogativi, non richiede il raggiungimento di un quorum per avere efficacia.

Va detto subito che si tratta di un progetto di riforma costituzionale caldeggiato e più volte ripreso, già a partire dalla Prima Repubblica, sia dalla “destra” che dalla “sinistra”, anche se le varie vicende politiche ne hanno sempre impedito l’approvazione finale. Non è, insomma, una rivoluzione.

È vero, tuttavia, che il contesto in cui ora gli italiani sono chiamati a partecipare al referendum costituzionale presenta alcune specifiche caratteristiche, che possono spiegare l’emergere, in questi giorni, di posizioni contrarie. Come quella, molto netta, che si legge in un documento firmato da più di duecento costituzionalisti, decisamente favorevoli al “no”. Non sono stati i soli: varie personalità della politica e della cultura hanno dichiarato la loro contrarietà.

Anche se i sondaggi indicano una tendenza largamente prevalente a favore della riforma, vale dunque la pena di capire meglio le ragioni che dall’una e dall’altra parte vengono avanzate per sostenere la propria tesi.

Le ragioni del “sì”

Un serio opinionista del «Corriere della Sera», Antonio Polito, ha esposto lucidamente quelle del “sì”, ricordando che da quarant’anni aspettiamo questo ragionevole “alleggerimento” del numero dei rappresentanti e che, se è indubbio che esso non risolve i problemi del nostro Parlamento – sempre più spesso ormai scavalcato dal proliferare di decreti legge del governo e, ultimamente, di DPCM (decreti del presidente del consiglio dei ministri) –, può però almeno renderne più agili i lavori e favorirne così l’efficienza.

Ma i principali sostenitori della riduzione dei parlamentari, da alcuni anni, sono i 5stelle. La loro polemica contro la “casta” li ha portati a sottolineare, in essa, il «taglio delle poltrone» e degli «stipendi d’oro», col conseguente risparmio di mezzo miliardo di euro l’anno.

È l’aspetto che più colpisce la gente ed è comprensibile che sia stato messo tanto in evidenza. Ma ci sono ragioni più profonde. Da sempre i 5stelle hanno criticato la democrazia rappresentativa, che delega un numero ristretto di privilegiati la gestione della politica del Paese. Il richiamo della “democrazia diretta” di Rousseau, che chiama a governare direttamente il popolo nella sua indivisibile unità, è stato una costante nella linea politica dei pentastellati, coniugandosi con la valorizzazione delle nuove tecnologie.

Nel luglio del 2018 Davide Casaleggio in un’intervista affermava «l’inevitabile superamento della democrazia rappresentativa», anche in considerazione del fatto che, grazie al web, «esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci».

Si capisce così perché le scelte politiche decisive del movimento non siano state affidate in questi anni, anche dopo la sua ascesa al potere, ai deputati e senatori del loro partito – rappresentanti di milioni di italiani – ma agli scritti alla “piattaforma Rousseau” (si noti il nome), circa centomila militanti chiamati a votare via internet.

E si capisce anche lo sforzo più o meno mascherato del movimento per imporre, con clausole che prevedono pesantissime penali pecuniarie, il cosiddetto “mandato imperativo”, esplicitamente vietato dalla nostra Costituzione (art.67), secondo la quale, invece, i rappresentanti del popolo, una volta eletti, devono fare le loro scelte in base alla propria coscienza, e non agli ordini ricevuti dal partito che li ha fatti eleggere.

Le ragioni del “no”

Le ragioni del “no” possono essere ricavate dalla lettera dei duecento costituzionalisti sopra menzionata. Essi mirano soprattutto a smontare gli argomenti a favore. Innanzi tutto, i problemi del Parlamento non derivano, secondo loro, dal numero dei membri, ma dal bicameralismo perfetto che fa del Senato un doppione della Camera, rallentando inutilmente l’iter legislativo. Notiamo di passaggio che proprio questo nodo – unitamente alla riduzione dei parlamentari – voleva risolvere le riforma costituzionale promossa da Renzi e sonoramente bocciata dal referendum costituzionale del 2016, per impulso dei 5stelle, della Lega e dei Fratelli d’Italia, con l’avallo autorevole di intellettuali e di esponenti politici della sinistra…

Quanto al risparmio, si fa notare che esso sarà in realtà minimo (secondo l’autorevole economista Carlo Cottarelli, lo 0,007 della spesa pubblica annuale) e che comunque, fosse anche assai maggiore, non varrebbe una perdita di rappresentatività democratica.

Su quest’ultimo punto si concentrano le critiche maggiori alla riforma. Le regioni più piccole, in seguito ad essa, saranno ben poco rappresentate in Parlamento. Si dice che può compensare questo impoverimento di democrazia il fatto che ci siano altre istituzioni elettive (consigli regionali, consigli comunali) in cui questa rappresentatività potrebbe sussistere parcellizzata, ma ciò, osservano i firmatari del documento, non è vero, perché le funzioni del Parlamento sono ben diverse da quelle di questi altri organi.

Quanto alle accuse di bassa qualità rivolta ai parlamentari – soprattutto dai populisti, che li hanno spesso qualificati come «fannulloni», «parassiti», «affamati di poltrone» –, si fa notare che non è riducendo la quantità che si recupera la qualità.

Riforma parziale o dannosa?

All’argomento di Polito, secondo cui «se una cosa è giusta non smette di esserlo solo perché ce ne sarebbero altre dieci giuste da fare», il documento dei costituzionalisti ribatte che «una cattiva riforma non è meglio di nessuna riforma. Semmai è vero il contrario», perché essa impedisce, a breve termine, di farne altre migliori. Dove, evidentemente, il primo pensa a una riforma non “cattiva”, ma parziale, e comunque preferibile alla stasi, i secondi la ritengono addirittura negativa in se stessa.

Come è evidente, siamo davanti a una questione altamente opinabile, su cui è plausibile che persone intellettualmente oneste e preparate la pensino in modo diverso. Probabilmente in alcuni casi può giocare un ruolo decisivo a favore del “sì” la convinzione, in sé legittima, che il nostro sistema rappresentativo debba cambiare rafforzando l’esecutivo, magari in senso presidenzialista (là il ruolo del Parlamento è fortemente ridimensionato, perché il capo dello Stato è eletto direttamente da popolo). O, reciprocamente, a favore del “no”, il rifiuto di una simile prospettiva.

In altri casi l’orizzonte può essere quello, più immediato e concreto, dell’opportunità che ci si offre di avere un Parlamento meno affollato, o, sul fronte opposto, del timore di una sua perdita di rappresentatività.

Un’esigenza dovrebbe accomunare, però, sostenitori e oppositori della riforma: quella di impegnarsi per futuro a rendere impossibile che qualcuno possa invocare come argomento, in un dibattito istituzionale, il basso livello etico e culturale dei nostri parlamentari. Queste persone sono scelte e purtroppo imposte agli elettori dai partiti. Che almeno, dopo, non se ne debbano vergognare.

  • Ripreso dal sito della pastorale della cultura della diocesi di Palermo Tuttavia.
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