La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri rappresenta ormai da anni un tema centrale nel dibattito sulla riforma della giustizia italiana. Tale proposta, sostenuta da una parte dell’opinione pubblica come misura per rafforzare la terzietà del giudice, solleva interrogativi sulla sua effettiva capacità di risolvere i problemi strutturali del sistema giudiziario e sulla sua compatibilità con i principi costituzionali.
È quindi opportuno analizzarne le implicazioni e i rischi con attenzione[1]. Dietro lo slogan della separazione si nascondono criticità che non solo non affrontano i problemi concreti del sistema giudiziario, ma potrebbero introdurre nuove tensioni, minando l’indipendenza della magistratura e la coerenza dell’ordine giudiziario.
La «Repubblica giudiziaria»
La situazione della giustizia in Italia è peculiare. Da un lato, si assiste a una dilatazione del ruolo del giudice, dall’altro, a una crescente inefficacia del sistema giudiziario. Molti osservatori concordano sul fatto che la magistratura sia diventata parte della governance nazionale; che vi sia un’indebita invasione della magistratura nel campo della politica e dell’economia; che in qualche caso la magistratura cerchi persino di prendere il posto della politica, controllando anche i costumi, oltre ai reati, proponendosi finalità palingeniche delle strutture sociali, stabilendo rapporti diretti con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione.
In questo contesto, le procure hanno acquisito un posto particolare, tanto che alcuni esperti parlano di una «Repubblica dei PM», divenuti un potere a parte, con mezzi propri, che si indirizzano direttamente all’opinione pubblica, avvalendosi della favola dell’obbligatorietà dell’azione penale, utilizzando la cronaca giudiziaria come mezzo di lotta politica e trasformando l’Italia in una «Repubblica giudiziaria».
Si registra una giuridicizzazione della vita pubblica, un’esplosione del diritto giurisprudenziale, una dominanza delle decisioni dei magistrati. Questi detengono l’uso della forza legittima, hanno il potere ultimo sulle persone e sulle cose, perché possono limitare la libertà delle prime con il carcere e il possesso delle seconde con il sequestro e la confisca. Dunque, controllano i due beni essenziali della vita e, insieme con questi, anche la reputazione delle persone. Inoltre, godono dell’appoggio di forze politiche che per questo loro ruolo vengono chiamate giustizialiste. Esercitano, quindi, un condizionamento della vita pubblica.
Nondimeno, la magistratura non svolge in maniera soddisfacente la sua funzione principale, quella giudicante, e l’altra funzione, quella requirente (l’accusa), e gode di sempre minore apprezzamento sociale. È sempre in ritardo e ha accumulato un enorme arretrato (quasi sei milioni di procedure), con conseguenze gravi per il rispetto della legalità. L’immagine pubblica del magistrato, quello giudicante e il procuratore, dopo avere raggiunto, dagli anni Novanta in poi, un diffuso prestigio, è oggi, da qualche tempo, nettamente declinante: scarsa fiducia del pubblico nella sua imparzialità e obiettività; imprese in balia delle procure e giudici che soffocano l’economia.
Questa situazione richiede un dibattito ampio e approfondito per individuare soluzioni che bilancino l’esigenza di indipendenza con quella di responsabilità, mantenendo saldo il rispetto dei principi costituzionali e delle garanzie per i cittadini.
Dati e opinioni
La crisi della magistratura italiana è segnalata da molto tempo. Nel 1968, Cesare Castellano ne attribuiva le cause all’incertezza del diritto, alla lentezza delle procedure giudiziarie e al loro alto costo (Aspetti economici e sociali della crisi della giustizia, in Castellano-Pace-Palomba, L’efficienza della giustizia italiana e i suoi effetti economico-sociali, Laterza, 1968, p. 11).
Più tardi, nel 1991, Giuseppe Di Federico indicava la lunghezza dei processi e l’ammontare dell’arretrato come le cause di questa crisi (Strategie per la modernizzazione organizzativa degli uffici giudiziari, in Quaderni del centro di studi e ricerche sull’ordinamento giudiziario, I, 1991, 1, p. 7).
Nel 1997, Carlo Nordio riteneva che la giustizia fosse fallita per poca chiarezza delle leggi, lentezza dei processi civili e abuso delle intercettazioni e segnalava come «la magistratura, principalmente quella requirente, [avesse] assunto, di fatto, un potere esorbitante e tentacolare» (Giustizia, Guerini, Milano 1997, p. 147 e 91)
Franco Coppi nel 2019 lamentava il «degrado» del processo, osservava che «l’attuale codice […] sembra favorire le lungaggini» e concludeva notando il «momento buio che sta attraversando la giustizia in Italia» (Chirico, «Sì, la giustizia è impazzita. Parla Coppi», in Il Foglio, 1 agosto 2019). Giovanni Verde ha sostenuto che la magistratura è diventata «un potere che assume da se stesso la sua legittimazione».
Costituzione e l’unità della magistratura
L’idea di separare le carriere giudicanti e requirenti sembra ignorare le solide basi costituzionali che regolano il funzionamento della magistratura. La Costituzione italiana stabilisce un principio chiaro: giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso ordine. Questo garantisce che entrambi condividano un’unica cultura giuridica, fondata sul rispetto dei diritti fondamentali e sulla tutela della legalità.
Le proposte attualmente in discussione mirano, invece, a creare due ordini distinti, ognuno con un proprio Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Questa separazione istituzionale finirebbe per minare l’equilibrio del sistema, rendendo la magistratura più vulnerabile alle pressioni esterne, soprattutto sul versante requirente.
I principali argomenti a favore della separazione
I sostenitori della separazione delle carriere avanzano alcune argomentazioni ricorrenti:
- Terzietà del giudice: Si sostiene che l’attuale modello non garantisca pienamente l’imparzialità del giudice, che potrebbe subire condizionamenti indiretti derivanti dalla vicinanza culturale con il pubblico ministero.
- Chiarezza dei ruoli: La separazione sarebbe necessaria per evitare ambiguità nella distinzione tra chi accusa e chi giudica.
- Allineamento con i modelli stranieri: Viene spesso citata l’esperienza di altri ordinamenti, come quello francese o statunitense, per giustificare la separazione.
Queste tesi, tuttavia, si dimostrano deboli e insufficienti se analizzate nel dettaglio.
Alcune criticità delle proposte
L’apparente semplicità di questa riforma nasconde una serie di problematiche profonde, che possono essere sintetizzate in punti principali:
- Contrasto con l’impianto costituzionale: l’unità dell’ordine giudiziario, sancita dagli articoli 104 e 107 della Costituzione, non è un dettaglio tecnico, ma una scelta fondamentale per garantire l’indipendenza della magistratura. Separare i giudici dai pubblici ministeri significherebbe violare lo spirito della Carta, introducendo una frattura che potrebbe compromettere l’autonomia dell’intero ordine[2];
- Rischio di subordinazione del pubblico ministero: in un sistema separato, il PM rischia di diventare un organo subordinato all’esecutivo, come accade in altri ordinamenti, per esempio in Francia. Questo indebolirebbe la sua funzione di garante della legalità, rendendolo più esposto alle pressioni politiche;
- Erosione della cultura giuridica comune: l’appartenenza a un unico ordine permette a giudici e PM di condividere una cultura giuridica basata sulla tutela dei diritti. Separare le carriere creerebbe due «tribù» professionali distinte, con visioni potenzialmente divergenti della giustizia;
- Inefficienza organizzativa: la creazione di due CSM autonomi comporterebbe un aumento della burocrazia e delle difficoltà di coordinamento, senza reali benefici per il funzionamento del sistema giudiziario;
- Modelli stranieri inapplicabili: chi sostiene la separazione delle carriere spesso cita modelli come quello statunitense o francese. Tuttavia, questi ordinamenti si basano su tradizioni giuridiche diverse e non sono paragonabili al contesto italiano, dove il PM è parte integrante della giurisdizione;
- Effetti limitati sulla terzietà del giudice: la terzietà non dipende dalla separazione istituzionale, ma dalla qualità della formazione dei magistrati e dalle garanzie procedurali. Una riforma così drastica non è necessaria per rafforzare l’imparzialità del giudice;
- Indebolimento dell’indipendenza della magistratura: la frammentazione del corpo magistratuale potrebbe compromettere l’autonomia del sistema giudiziario, aumentando la vulnerabilità alle influenze esterne;
- Alternative più efficaci già esistenti: la sentenza n. 37 del 2000 della Corte Costituzionale ha chiarito che l’attuale modello consente una distinzione funzionale tra giudici e PM, senza necessità di una separazione rigida delle carriere. Soluzioni meno invasive, come la limitazione dei passaggi tra funzioni, possono già rispondere alle esigenze di terzietà.
Le implicazioni istituzionali
La separazione delle carriere comporterebbe anche conseguenze di natura istituzionale. La creazione di due CSM distinti, per esempio, introdurrebbe un elemento di competizione tra i due organi, con il rischio di accrescere i conflitti interni e di compromettere l’efficienza del sistema.
Inoltre, la maggiore autonomia del PM rispetto al giudice potrebbe portare a un indebolimento della sua indipendenza. In un sistema separato, il PM potrebbe essere percepito come un funzionario legato agli interessi del governo, anziché un garante imparziale della legalità.
Le alternative possibili
Un sistema giudiziario più equilibrato non richiede la separazione delle carriere, ma un rafforzamento dei meccanismi di garanzia già esistenti. Tra le possibili riforme, si possono considerare:
- Una maggiore specializzazione dei magistrati, con percorsi formativi distinti per le funzioni giudicanti e requirenti.
- L’introduzione di criteri più rigorosi per i passaggi tra le due funzioni.
- Un rafforzamento delle sezioni disciplinari del CSM, per garantire una gestione più trasparente e responsabile delle carriere.
Un tema e la propaganda
Il dibattito sulla separazione delle carriere deve essere affrontato con estrema cautela, tenendo conto delle implicazioni costituzionali, istituzionali e pratiche di una riforma così radicale. La giustizia non può essere ridotta a una questione tecnica o organizzativa: è il cuore della democrazia e deve essere governata con equilibrio e lungimiranza.
L’obiettivo di garantire una magistratura più efficiente e imparziale può essere raggiunto senza sacrificare l’unità dell’ordine giudiziario e l’indipendenza del pubblico ministero. La sfida è trovare soluzioni che rispettino i principi fondamentali della Costituzione, salvaguardando i diritti dei cittadini e la credibilità delle istituzioni.
La separazione delle carriere rischia di distrarre l’attenzione dai problemi reali del sistema giudiziario italiano, che riguardano la lentezza dei procedimenti, la carenza di risorse e l’eccessiva burocratizzazione. Investire in una migliore organizzazione, nella formazione dei magistrati e nella digitalizzazione dei processi sarebbe molto più efficace che introdurre una riforma divisiva e poco utile.
In una società complessa, anziché separare le carriere, sarebbe auspicabile promuovere la contaminazione tra i ruoli e i saperi, favorendo percorsi flessibili e una formazione condivisa. I modelli stranieri dimostrano l’importanza dello scambio tra magistratura, avvocatura e accademia per sviluppare una cultura comune delle garanzie. Ad esempio, negli USA e nel Regno Unito, molte figure apicali hanno ricoperto ruoli diversi nel corso della carriera. In quest’ottica, sarebbe utile ampliare la possibilità di accesso ai ruoli giudiziari per avvocati e professori, valorizzando esperienze diversificate e rafforzando la fiducia reciproca tra gli operatori della giustizia.
Il tema rischia di essere abbondantemente enfatizzato per ragioni di propaganda politica.
Bruna Capparelli è docente di Diritto e Procedura penale all’Università Autonoma di Lisbona
[1] In queste settimane, la Commissione Affari Costituzionali della Camera esamina progetti di legge costituzionale volti a separare le magistrature giudicante e requirente. Tra le proposte, quelle dei parlamentari (nn. 23, 434, 806, 824) e il disegno di legge costituzionale del Governo (n. 1917) mirano a una separazione più profonda rispetto alla mera diversificazione delle carriere.
[2] Secondo i proponenti, la separazione sarebbe “consustanziale” al modello accusatorio e prevista dall’art. 111 Cost. Tuttavia, nel sistema italiano, il pubblico ministero e il giudice sono già distinti sul piano funzionale. Il processo accusatorio italiano, sviluppato dagli anni ‘90, è ibrido e diverso dai modelli stranieri, specialmente quello statunitense, spesso richiamato. Negli USA, il trial by jury e il plea bargaining dominano, ma sono difficilmente applicabili al contesto italiano. Inoltre, l’art. 111 non implica una separazione ordinamentale, ma piuttosto la garanzia di imparzialità e terzietà del giudice, che dipendono dalla struttura del processo e non dalla separazione delle magistrature.