Il 13 febbraio è stato firmato l’accordo fra lo Stato Italiano (Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca) e la Santa Sede (Congregazione per l’Educazione Cattolica) sul riconoscimento dei titoli di studio universitari. Anche se mancano ancora un’Intesa tecnica e una serie di strumenti attuativi, che dovrebbero chiarire anche i termini dell’effettiva spendibilità dei titoli accademici ecclesiastici nel mondo civile del lavoro (si veda l’intervista a mons. Zani), questa firma rappresenta comunque un evento di grande importanza per il mondo italiano dell’istruzione e della cultura.
Dal punto di vista ecclesiale, il documento può sembrare un successo. In effetti, con molta probabilità esso aprirà inedite possibilità professionali a coloro che hanno conseguito un titolo accademico ecclesiastico, e comporterà anche un probabile aumento delle iscrizioni nelle istituzioni abilitate a rilasciarlo, cioè gli Istituti Superiori di Scienze Religiose e le Facoltà teologiche. Pure la collaborazione istituzionale tra queste istituzioni e le università italiane potrebbe finalmente fare un salto di qualità.
Riconoscimento civile, non scientifico
Nello stesso tempo, però, mi sembra che questo accordo porti con sé un’ambiguità strutturale, che esprimerei sinteticamente in questo modo: esso è stato frutto non di meritocrazia, ma di politica. In altri termini, con questo atto il governo non ha valutato in modo oggettivo e quindi dichiarato l’effettivo carattere accademico delle istituzioni teologiche cattoliche italiane, ma si è limitato a riconoscere il valore civile del titolo da esse conferito semplicemente perché attestate come accademiche da parte dello Stato della Città del Vaticano, nel quadro del processo di Bologna.
Se gli Istituti Superiori di Scienze Religiose e le Facoltà teologiche non fossero legate alla Santa Sede, ma fossero semplicemente istituzioni private che devono conquistare un riconoscimento accademico con criteri meritocratici – al pari di quanto ha fatto l’Università Cattolica del Sacro Cuore o la Bocconi –, mi sembra che questo riconoscimento non sarebbe stato neppure concepibile.
A conforto di queste mie impressioni, vorrei tentare di mettere a confronto il modello organizzativo delle Facoltà e degli Istituti Superiori di Scienze Religiose con quello delle università dello Stato italiano, per evidenziare un deficit strutturale delle prime che non è riducibile alla mancanza di fondi.
La necessaria premessa è che il carattere accademico di un’istituzione dipende dal fatto che i docenti che in essa operano non si configurino semplicemente come dei professionisti ben documentati, ma siano fra i tanti protagonisti della loro disciplina per la ricerca originale che hanno alle spalle e che stanno portando avanti attivamente.
Per una teologia professionale
Nelle università civili si viene assunti come ricercatori attraverso un concorso nel quale contano le pubblicazioni fatte e la loro qualità – salvo ingerenza di logiche clientelari –, mentre nelle Facoltà e negli Istituti ecclesiastici si viene cooptati direttamente dal preside o dal direttore in virtù della conoscenza personale e del titolo accademico conseguito.
Nelle università civili, una volta assunti, ci si dedica alla ricerca – si è, appunto, ricercatori –, e si inizia molto lentamente a fare esami e qualche lezione. Solo un po’ alla volta si arrivano ad insegnare corsi completi sotto la supervisione di un docente ordinario. Nelle Facoltà e negli Istituti ecclesiastici si diventa immediatamente titolari di corsi fondamentali, senza nessuna supervisione da parte di alcuno.
Nelle università civili si diventa docenti di seconda o di prima fascia attraverso numerose pubblicazioni specialistiche (parecchie decine o oltre il centinaio). Nelle Facoltà e negli Istituti ecclesiastici l’accesso a questi gradi richiede molte, molte meno pubblicazioni (alcune unità), e l’insegnamento come incaricati non ne esige nessuna.
Fare teologia a tempo pieno
Nelle università civili non si può essere richiesti di svolgere altre attività professionali diverse da quelle per cui si è assunti; ci si può quindi dedicare alla propria crescita senza la preoccupazione di poter essere obbligati a fare altro.
Anzi, si è lavoratori a tempo pieno, per cui se si svolgono altre attività professionali senza i relativi permessi degli organismi universitari, si è passibili di denuncia, come è avvenuto qualche tempo fa a carico di alcune centinaia di docenti di università italiane. Nell’ambito ecclesiastico, al contrario, i docenti presbiteri possono essere richiesti di svolgere diversi compiti onerosi, come il parroco o il vicario episcopale di importanti settori della pastorale diocesana.
E così in alcuni casi il mondo accademico ecclesiastico arriva ad assomigliare ad un’immaginaria facoltà di medicina in cui i corsi fondamentali sono tenuti da medici di base con una ulteriore specializzazione ed eventualmente un dottorato, che accanto alla loro attività clinica trovano il tempo per andare all’università a fare lezione e per leggere qualche pubblicazione in modo rapsodico, magari producendo un articoletto all’anno.
Nessuno, evidentemente, vorrebbe trovarsi in una sala operatoria sotto le grinfie di un chirurgo formato in un’istituzione del genere…
Accademia come corporazione autonoma
Più ancora, le università civili sono realtà democratiche autogestite dagli organismi eletti dal personale docente e ricercatore. Non esiste in tutto il mondo, che io sappia, una facoltà o un dipartimento che dipenda dall’autorità civile locale (il sindaco) o regionale (il presidente della regione), ma, al di là degli organismi interni, l’unico referente ultimo è il governo in carica. Questo garantisce che il lavoro accademico possa procedere senza risentire delle scelte delle autorità locali. Nell’ambito ecclesiastico, invece, le Facoltà e gli Istituti sono governate dai vescovi della regione, che sono diversamente sensibili alla loro importanza.
La differenza tra il mondo accademico ecclesiastico italiano e quello civile si farà probabilmente sempre più acuta a causa del drastico calo del numero dei presbiteri che avverrà nei prossimi decenni. L’attuale difficoltà ad investire considerevoli somme di denaro per immettere molti docenti laici nell’insegnamento delle scienze religiose farà sì che in futuro l’attività accademica sarà portata avanti da persone sempre più gravate da impegni pastorali.
L’Accordo: comunque un bene
Con queste considerazioni non intendo esprimere alcuna valutazione negativa sull’accordo appena stipulato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede. Anche se non mi hanno mai convinto gli inviti a non dar troppo peso ai problemi indicati («Eh beh, ormai siamo in questa situazione, dobbiamo pur andare avanti…»), capisco che nell’ambito politico non si può valutare la bontà di un evento a prescindere dalle ricadute positive che esso potrà avere. Insomma, non è solo questione di verità, ma anche di bontà.
In questo senso, non posso che ammettere che il riconoscimento civile dei titoli delle istituzioni ecclesiastiche italiane farà indubbiamente del bene al nostro paese.
Forse, però, questo è avvenuto il 13 febbraio potrebbe rivelare un possibile vulnus nei percorsi di riconoscimento dei titoli conferiti da altri stati. Ci si può chiedere se questo atto non possa costituire un precedente per il riconoscimento di titoli di studio, magari in aree molto delicate come quella sanitaria, che sono dichiarati come accademici, ma che in realtà non sono tali in quanto frutto di percorsi formativi che non sono sostanziati dalla ricerca.
In un mondo sempre più complesso e specializzato, è necessario che il livello della formazione universitaria italiana sia sempre più alto, e che sia tutelato anche sul piano giuridico da norme molto precise e inequivocabili volte a garantire la sua inconfondibile identità e qualità.
Io penso che un percorso accademico come la laurea in scienze religiose debba assolutamente prevedere la parificazione con i titoli civili in quanto contiene esami di psicologia, filosofia (almeno 4) pedagogia etc. Quindi percorsi assolutamente formativi a 360°. Sul fatto dei docenti sono concorde con quanto viene detto. Alcuni sono di qualità (perché provengono dal campo della ricerca e hanno fatto pubblicazioni e studi) altri (purtroppo la maggior parte) sono messi li senza alcuna qualifica di ricerca specifica e mille altri incarichi a corollario quindi non sanno assolutamente insegnare la materia. E questo è un gran peccato perché questo tipo di percorso apre gli occhi sulla vita e orienta molto bene dentro al mondo (a prescindere dalla questione fede, credo etc) . Infine aggiungerei in questi corsi qualche esame di tipo laico in più (qualche altra ramificazione tipo quella sociologica) moltissimo utile.
TANTO FUMO E NIENTE ARROSTO.
Mi scuso per il tono apparentemente dissacratore di questo mio esordio, ma non so trovare sintesi più efficace e adeguata. Le ragioni sono le seguenti e le formulo con due domande:
1) In cosa differisce il riconoscimento di cui si parla oggi rispetto a quello che già almeno venti anni fa si poteva ottenere? Già vent’anni fa, ad esempio, il sottoscritto ha seguito un preciso iter burocratico (complicato e costoso… come oggi temo) per ottenere il formale riconoscimento – con decreto del MIUR – della propria Licenza in Teologia (conseguita alla Gregoriana) quale avente gli stessi diritti di un titolo di Laurea dell’ordinamento didattico italiano. Quali sarebbero le novità di oggi?
2) QUESTIONE ANCORA PIU’ RILEVANTE: Perché ancora oggi non si è giunti a nessuna REALE, SOSTANZIALE EQUIPOLLENZA tale per cui, ad esempio un riconoscimento come quello sopra citato non è spendibile – magari con eventuali integrazioni – per partecipare a concorsi in cui sia richiesta questa o quella determinata laurea? Oggi come vent’anni tale riconoscimento dà diritto a partecipare solo a concorsi in cui sia richiesto un GENERICO titolo di Laurea (confermatomi recentemente dall’ottimo P. Ciro Guida, della Congregazione incaricata, il quale conosce alla perfezione tutta la materia) , e sfido io a trovare prospettive occupazionali per le quali sia abilitante un generico titolo di laurea. Questa mi sembra un’autentica beffa. Quanto poi a potersi “fregiare” del titolo di Dottore, grazie a tale riconoscimento… figuriamoci quanto pane questo porti..?!
A me pare che in questo provvedimento ci sia una larghissima quota di fumo e di ipocrisia. Una presa in giro.
Sarò ingenuo, ma io ho sempre trovato i miei docenti alle Facoltà di Teologia molto preparati scientificamente, tanto da non dover invidiare nessun docente di facoltà civili.
Concordo con lo spirito della riflessione: un bene, ma …
Dalla mia esperienza di 4 membri della famiglia in università italiane e straniere le differenze con il civile sono molte.
Già nei corsi di dottorato si è chiamati a tenere lezioni, è vero, ma tutto è abbastanza ridotto (in USA si viaggia sulle 9h) e soprattutto a livello di esercitazioni (anche correzione di compiti scritti d’esame, collaborazione a esami, preparazione test ecc) poi, una volta entrati negli organici l’attività didattica s’intensifica e si somma sempre alla ricerca e alle pubblicazioni (la cui valutazione è ferrea e determina la carriera).
Ma il tutto deve necessariamente prevedere una collaborazione con altri atenei e centri di ricerca a livello mondiale (partecipazione e interventi a convegni, talk, poster ecc., fino a interi periodi o anni di missione all’estero con incarichi diversi, insegnamento compreso). Ovviamente incarichi a tempo pieno (si resta in università 10-12h/giorno) , salvo richiesta di part time.
Gli scambi con l’estero sono ormai consuetudine anche per i docenti di scuole secondarie in particolare di 2° grado … (da Trento si va a Innsbruck o in Germania, ma anche in altri stati europei dipende dalle competenze linguistiche).
Tutto questo non è affatto scontato per i docenti delle università ecclesiastiche che, come scrive l’articolo, vengono immessi nell’insegnamento appena ottenuto il titolo (spesso qualcuno lamenta il fatto che se preti la strada è tutta in discesa a differenza dei laici, in particolare donne …) e che assommano altri incarichi, tipo parroco, decano, delegato vescovile … ma soprattutto sono perlopiù privi di quella collaborazione con i colleghi all’estero, interventi a convegni, periodi di lezione in altri atenei, aggiornamenti, pubblicazioni ecc. Ovviamente anche qui, salvo lodevoli eccezioni, ma non così frequenti come ci si potrebbe immaginare per un’attività di carattere accademico (perché invece non incentivare gli scambi con l’estero anche per acquisire esperienza di altre culture “sul campo”?).