La Toscana è la prima Regione in Italia ad avere una legge sul suicidio assistito. Il «sì» definitivo è arrivato lo scorso 11 febbraio in Consiglio regionale dopo due giorni di dibattito. Nel corso del dibattito la legge è mutata in alcuni dei sui aspetti fondamentali, a cominciare dal titolo, che da «Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito», come recitava la proposta iniziale presentata dall’associazione Luca Coscioni (la stessa già bocciata in altre regioni italiane), è divenuto il più asettico e camaleontico: «Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024».
Una pessima immagine
Nel suo editoriale (13 febbraio), il direttore di Toscana Oggi, Domenico Mugnaini, lamenta la «pessima immagine» offerta dal Consiglio regionale della Toscana. Ne esce – sostiene amareggiato – l’immagine di una politica umiliata, orientata ormai soltanto a garantirsi voti alle prossime elezioni regionali. «Non importa se per farlo, (…) si va contro i propri principi personali, costretti ad arrampicarsi sugli specchi per cercare di giustificare il voto a favore. Da martedì è partita ufficialmente la campagna elettorale del PD, di Italia Viva, del Movimento 5 stelle, e di qualche esponente dell’opposizione che doveva dare un segnale di apertura verso la così detta società civile».
La Toscana, che si vanta di essere il primo Stato ad aver abolito la pena di morte (nel 1786, con il Granduca Pietro Leopoldo), è diventata la prima e per ora unica Regione ad avere una legge sul suicidio medicalmente assistito. Gli elettori – sostiene ancora Mugnaini – si trovano dinnanzi a una scelta non facile. «Ora i cristiani dovranno scegliere tra PD, Italia Viva e non solo, che hanno approvato la legge e altre forze politiche che certo non brillano per vicinanza ad altri principi della Chiesa ma che per lo meno questa volta hanno detto chiara la propria opinione».
Altre ragioni di indignazione vengono ricordate nell’editoriale: il fatto che i soldi per la copertura di questa legge «sembra siano stati cercati nel capitolo sulla disabilità» e il fatto che sia stata approvata proprio l’11 febbraio, giornata del malato per la Chiesa cattolica (nella memoria della prima apparizione di Lourdes). Ammalato, «una parola che qualcuno forse vorrebbe eliminare dal vocabolario della Toscana magari con una prossima legge che tagli ancora la sanità e quindi quelle cure palliative che sulla carta si è detto di voler incrementare».
Sconfitta per tutti
I vescovi della Toscana si sono espressi per voce del loro presidente, il vescovo di Siena e Montepulciano, il card. Paolo Lojudice, il quale ha preso parola dopo l’approvazione della legge lo scorso 11 febbraio, dicendo che «sancire con una legge regionale il diritto alla morte non è un traguardo, ma una sconfitta per tutti».
«Prendiamo atto della scelta fatta dal Consiglio Regionale della Toscana», ha commentato il cardinale, «ma questo non limiterà la nostra azione a favore della vita, sempre e comunque. Ai cappellani negli ospedali, alle religiose, ai religiosi e ai volontari che operano negli hospice e in tutti quei luoghi dove ogni giorno ci si confronta con la malattia, il dolore e la morte dico di non arrendersi e di continuare ad essere portatori di speranza, di vita. Nonostante tutto».
In vista del dibattito in Consiglio regionale, il 28 gennaio i vescovi della Toscana avevano pubblicato una Nota (cf. Toscana Oggi). Vi si esprimeva il timore che il tema potesse provocare una lotta politica perdendo di vista la posta in gioco. «Siamo consapevoli che questa proposta di legge assume per molti un valore simbolico, nel senso che si chiede alla Regione Toscana di “forzare” la lentezza della macchina politica statale chiamata a dare riferimenti legislativi al tema – importantissimo – del fine vita. Vorremmo in primo luogo invitare i consiglieri regionali e i dirigenti dei loro partiti a non fare di questo tema una questione di “schieramento” ma di farne un’occasione per una riflessione profonda sulle basi della propria concezione del progresso e della dignità della persona umana».
Un appello che i vescovi riconoscono radicato nella storia della Regione: «Nella cura delle persone in condizione di fragilità la Toscana è stata esempio per tutti: la nascita dei primi ospedali, dei primi orfanotrofi, delle associazioni dedicate alla cura dei malati e dei moribondi, come le Misericordie, e poi tutto il movimento del volontariato, sono un’eredità che continua viva. Ci sembra che in un momento di crisi del sistema sanitario regionale, più che alla redazione di ‘leggi simbolo’, i legislatori debbano dare la precedenza al progresso possibile anche nel presente quadro legislativo, in un rinnovato impegno riguardo alle cure palliative, alla valorizzazione di ogni sforzo di accompagnamento e di sostegno alla fragilità».
Molto più di un «atto amministrativo»
Sul caso della legge toscana sul fine vita l’Agenzia SIR ha intervistato (12 febbraio) Alberto Gambino, presidente del Centro Studi Scienza&Vita della Conferenza episcopale italiana e professore di diritto privato all’Università europea di Roma. Si tratta a suo giudizio di «un testo che tocca temi di pertinenza del Parlamento; primo fra tutti – e nodo più importante – la prestazione sanitaria di assistenza al suicidio».
Su questo punto, infatti, la Sentenza della Corte costituzionale che la Regione Toscana ha preteso attuare «non ha dato indicazioni. Ha semplicemente stabilito che il Servizio sanitario si occupi di accertare la sussistenza dei requisiti richiesti, ma nulla ha detto circa il luogo della prestazione di assistenza al suicidio. Essendo una sentenza che non riconosce un diritto al suicidio, ma opera come scriminante su un reato, la Corte si è limitata ad affermare che l’aiuto al suicidio non è penalmente perseguibile in presenza delle condizioni indicate, ma non ha definito il luogo dove la procedura possa svolgersi – questo confliggerebbe con la visione del servizio sanitario – invitando il Parlamento a legiferare al riguardo».
Infatti, sottolinea il giurista, l’Ospedale «è il luogo delle cure, non dell’auto-uccisione di un essere umano. La Regione Toscana ha invece dato per scontato che, una volta certificati i requisiti nel soggetto, l’aiuto al suicidio diventi a tutti gli effetti una prestazione sanitaria all’interno degli ospedali. E questo è devastante perché una struttura nata per curare viene stravolta nella sua mission. La Regione si è insomma arrogata delle competenze, indicando una soluzione che neanche la Corte costituzionale aveva prospettato». Per questa ragione, conclude Gambino, «sostenere che sia solo un atto amministrativo è una falsificazione della realtà».
Inoltre, la Sentenza della Corte costituzionale prevede che tra le precondizioni per un eventuale accesso al suicidio assistito vi sia anche un percorso di cure palliative. «Questo invece – sottolinea il giurista – il testo della Regione Toscana non lo dice; invita semplicemente a “informare” il paziente sulle alternative al suicidio assistito, tra cui le cure palliative e la sedazione profonda. La Corte invece usa il sostantivo “coinvolgimento”, diverso e molto più forte che “informazione”», perché implica che il paziente sia già in un percorso di cure palliative. «Anche questa è una falsificazione», tanto che Gambino si conferma nel giudizio: questa legge «ha alterato il dettato della Corte».
Era «prevedibile che una Regione facesse questa fuga in avanti perché il Parlamento è stato colpevolmente e ingiustificabilmente in ritardo». Tanto che tra gli effetti dell’approvazione della legge il presidente di Scienza&Vita si augura vi sia una «accelerazione del Parlamento per produrre finalmente una legge nazionale. Toccando temi di competenza nazionale, il Parlamento dimostrerà che la Regione Toscana è andata oltre le proprie competenze».







Una legge giustissima, finalmente! Si riconosce alle persone sofferenti e senza speranza di guarigione il diritto di mettere fine a una condizione disumana e ingiusta. Spero che l’esempio della Toscana sia seguito anche dalle altre regioni e che finalmente anche l’Italia compia questo grande passo di civiltà.
Amici, chi continua a blaterare che “serve una legge” dovrebbe ricordare che una legge c’è già. Si chiama articolo 579 del Codice Penale: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”.
Manovrata ad arte, la Consulta ha parzialmente sabotato la norma nel 2019: la legge c’era. E proprio perché certuni se ne sono accorti, ne vogliono un’altra