Il prossimo 12 gennaio potrebbe, finalmente, avviarsi a conclusione una vicenda che, da oltre un anno, si trascina fra ombre e depistaggi.
Un improbabile suicidio
Il 12 ottobre 2022, il giovane romano Stefano Dal Corso viene trovato morto nella cella del carcere di Oristano, dove era stato provvisoriamente trasferito da Rebibbia per presenziare ad un processo a suo carico. «Suicidio mediante impiccagione» è la versione sbrigativamente diffusa dalle autorità carcerarie e dalla magistratura di Oristano. Ma la sorella del giovane, Marisa, e la sua avvocata, Armida Decina, non sono convinte dalla versione ufficiale.
Stefano, in carcere per piccoli reati, doveva scontare ancora solo poche settimane. Inoltre, nelle lettere inviate, manifestava la sua felicità per aver potuto rivedere la figlia, che vive in Sardegna con la madre, e la soddisfazione per aver ricevuto una seria proposta di lavoro.
La documentazione relativa al “suicidio” inviata alla sorella e all’avvocata di Stefano appariva assolutamente lacunosa: una scarna relazione, accompagnata da due fotocopie in bianco e nero del corpo del giovane.
L’avvocata Decina invia nuove istanze alla Procura di Oristano, chiedendo anche l’autopsia sul corpo, unico modo per accertare la causa della morte. Arriva una documentazione un po’ più consistente (una relazione più dettagliata e alcune foto a colori del corpo), che non aiuta a dissipare i dubbi. Ci sono discrepanze sugli orari del decesso e del ritrovamento del corpo e le foto lo mostrano completamente vestito, rendendo impossibile verificare se presenti segni di violenza.
La versione ufficiale sostiene che il giovane si sarebbe impiccato all’inferriata della cella dopo aver fatto a strisce con un taglierino il lenzuolo del letto… ma il letto è completamente rifatto, con entrambe le lenzuola al proprio posto, e i detenuti – per ovvi motivi – non dispongono mai di lenzuola di ricambio.
L’altezza dell’inferriata non appare sufficiente per impiccarsi e poi non c’è traccia del taglierino che Stefano avrebbe usato per fare a strisce il lenzuolo e farne una corda.
Infine, la sorella di Stefano non riconosce i vestiti indossati dal corpo ed è sicurissima che le scarpe non siano le sue.
Nonostante queste incongruenze e una perizia effettuata sulle fotografie da eminenti patologi forensi, le richieste di effettuare un esame autoptico vengono tutte respinte.
L’inquietante vicenda irrompe sulla scena pubblica nella primavera del 2023, quando la sorella di Stefano e l’avvocata Decina denunciano l’accaduto in una conferenza stampa insieme alla senatrice Ilaria Cucchi.
Nel quartiere romano dove il giovane è sempre vissuto, il Tufello, scendono in piazza centinaia di persone, insieme al presidente del municipio, Paolo Marchionne, e all’assessore, Luca Blasi.
Nei mesi successivi, si susseguono le richieste di effettuare l’autopsia, ma la magistratura di Oristano risponde sempre negativamente e anche il ministro Nordio, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare, asserisce che non vi siano elementi che possano indurre a mettere in dubbio la versione del suicidio.
A ottobre, però, la testimonianza di un ex detenuto induce la Procura di Oristano a riaprire il caso, ipotizzando contro ignoti il reato di omicidio colposo.
Tuttavia, viene respinta anche la settima richiesta di autopsia.
La svolta avviene a dicembre, a seguito di un episodio degno di una spy story.
La microtelecamera della verità
L’avvocata Armida Decina riceve una mail temporanea, di quelle che si autodistruggono dopo essere state lette. L’anonimo autore della missiva scrive di avere cose importanti da dire sulla morte di Dal Corso e di voler parlare con la sorella, Marisa. Il colloquio avviene telefonicamente e viene registrato. La registrazione integrale viene messa a disposizione della Procura di Oristano, ma alcuni brani vengono diffusi agli organi di informazione: definirli agghiaccianti è un pallido eufemismo.
L’uomo, con voce contraffatta, afferma di essere un agente di polizia penitenziaria, di aver assistito all’assassinio di Stefano Dal Corso, di averlo ripreso con una microtelecamera che aveva addosso e di essere in possesso degli abiti indossati dal giovane quando è stato ucciso, comprese le scarpe.
Rispondendo alle pressanti domande di Marisa, l’agente afferma che il fratello sarebbe stato ucciso da una squadra di suoi colleghi a manganellate e poi colpito sull’osso del collo con una sbarra di ferro per poi simulare l’impiccagione.
Il motivo del delitto è a sua volta spaventoso: Stefano avrebbe aperto per errore una porta dell’infermeria dove si era recato per ritirare un farmaco, trovandosi di fronte a due agenti impegnati in un rapporto sessuale. In seguito, sarebbe stato portato in una stanza sotterranea e assassinato e poi gli stessi agenti avrebbero inscenato il suicidio.
L’anonimo interlocutore di Marisa afferma di aver indossato la microtelecamera come faceva sempre, per “pararsi il c…” e di aver trattenuto gli abiti e le scarpe del giovane per farli sparire, mentre il corpo – come sospettava Marisa sin dall’inizio – era stato rivestito con altri vestiti e calzature, prelevati da quelli messi a disposizione dei detenuti dalla Caritas.
Di fronte a queste nuove evidenze, la PM Sara Ghiani ha finalmente disposto l’autopsia sul corpo di Stefano Dal Corso, che da più di un anno giace in una cella frigorifera. La magistrata ha anche deciso di mutare il capo di imputazione, ancora contro ignoti, da omicidio colposo ad omicidio volontario.
Una tenacia premiata
Il prossimo 12 gennaio, alle 10, presso il Policlinico Gemelli di Roma sarà prima eseguita una Tac e poi alle 14 inizierà l’esame necroscopico a cura del medico legale Roberto Demontis e dei consulenti nominati dalla famiglia: il medico legale Claudio Buccelli, l’ematologa forense Gelsomina Mansueto e l’esperto tossicologico Ciro Di Nuzio. I risultati si avranno dopo qualche settimana.
La tenacia di Marisa Dal Corso e dell’avvocata Armida Decina, unitamente all’attenzione politica, popolare e mediatica, hanno infine avuto la meglio. Come ha detto più volte Marisa, si avrà finalmente una risposta ai dubbi sulla morte di un cittadino che si trovava in mano allo Stato. Uno Stato che da questa vicenda, qualunque sia il risultato dell’esame autoptico, esce malissimo.
Se non fosse per la determinazione di due donne come Marisa e l’avvocata Armida Decina, per la mobilitazione del quartiere e degli attivisti del centro sociale Astra, per l’attenzione dei media e per l’impegno di alcuni politici, sulla morte di Stefano non sarebbe stata fatta luce. E l’oscurità è nemica della democrazia.
Ho una minima esperienza di carcere per essere un volontario che entra periodicamente per l’animazione liturgica in una casa circondariale. A me sembra che sempre più si dovrebbe incrementare l’impiego di pene alternative previa attenta valutazione dei singoli casi. L’affollamento carcerario è una vera disgrazia e a tal proposito ritengo anche utile una maggiore attenzione all’edilizia carceraria. Soprattutto per dismettere le strutture vecchie e spesso inadeguate ad una vita degna. La pena non può appiattirsi solo sulla sterile finalità afflittiva. Piuttosto deve essere uno strumento di riabilitazione alla vita sociale. Persobslmente ho visto numerosi casi
commoventi di rinascita. Poi ritengo che le carceri debbano essere sempre più aperte alla società, solo così si può prevenire la violenza che a volte vi si annida. Un ultimo pensiero va agli agenti della penitenziaria che, per la mia esperienza, fanno un lavoro lodevole che spesso li mette sotto pressione. Purtroppo al crescere del numero dei suicidi di detenuti si aggiunge anche quello degli agenti. Per i casi di violenza occorre trasparenza e giustizia senza omertà ed insabbiamenti. Lo dobbiamo ai detenuti ed alla stragrande parte degli agenti fedeli alle leggi dello stato.
Bellissimo commento. Evidentemente le stanno su solo i gay. Ma in tutti i casi complimenti per il suo impegno per i carcerati altra classe di ultimi che meritano amore, rispetto e benedizione nonostante efferati crimini contro il prossimo.