Fine teologo e filosofo, l’arcivescovo di Chieti-Vasto affronta il tema cruciale del rapporto teologico fra la Chiesa e Israele, la «santa radice». Lo fa raccogliendo vari studi e riflessioni, alcune già apparse in passato. Le domande sono tante: che significato ha la permanenza di Israele? C’è un’unica alleanza o varie che si evolvono nella storia? Si può pensare a una “conversione” di Israele?
Continuità e discontinuità
Ebraismo e cristianesimo testimoniano insieme il monoteismo di un Dio unico ma vivo e operante nella storia. Uscendo dal Silenzio originario, Dio si rivela come Totalmente altro e diventa memoria e attesa per i credenti che camminano nella storia. Il Divino Straniero prende dimora fra gli uomini, ma la sua rivelazione non è piena e abbagliante, intellettuale, ma è «rivelazione/rivelatio/re-velatio»: comunicazione vitale indisponibile che lascia sempre spazio al mistero, a un «velare» che rende Dio sempre ulteriore ai pensieri e alle risposte degli uomini.
C’è spazio per l’ascolto obbediente della parola, il silenzio, la fede operosa e talvolta «notturna». Una fede sospesa nel silenzio, alimentata dalla preghiera. Evagrio (verso il 430), nella sua Altercatio inter Theophilum et Simonem, ma anche san Massimo di Torino (metà del V sec.), nell’Hom. 79, presentano una bella immagine per descrivere i rapporti tra Israele e la Chiesa. Come i due esploratori che tornarono da Canaan (Nm 13,23) portando su una stanga un enorme grappolo d’uva, così Israele rapprenda il portatore che cammina innanzi, guardando solo avanti, quale popolo della speranza e dell’attesa delle cose venienti assicurate dalle promesse di Dio. Il portatore che segue, rappresentante della Chiesa, vede colui che gli sta davanti e l’orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno. Il grappolo rappresenta Cristo e la stanga che lo porta – la croce – unisce e distingue Israele e la Chiesa (cf. pp. 45-48).
Tre elementi connotano la continuità e la discontinuità fra il Primo Testamento e la Chiesa: la rivelazione biblica ha per tutti un carattere escatologico; la salvezza ha un carattere comunitario ed entrambi i popoli hanno un significato messianico, tanto il popolo dell’attesa quanto quello del compimento.
L’Europa, il dialogo, la leadership religiosa
Il capitolo 4 del volume di Forte tratta delle radici ebraico-cristiane dell’Europa e del futuro della memoria. C’è rapporto stretto tra profetismo e l’«invenzione» della storia, così come entrambe validissime sono l’«invenzione» greca della politica e quella cristiana della persona. Il personalismo di stampo biblico ha fornito un grande apporto alle culture dell’Occidente. Su molti aspetti Gesù appare un maestro ebreo che insegna forse con maggior autorità degli altri ma, se si guardano più da vicino le cose, si avverte il fatto che Gesù rompe con la Torah e la porta a compimento tramite la comunione filiale col Padre. Per i cristiani Gesù è il Figlio di Dio dall’eternità.
Nel cammino della riconciliazione nell’attesa dello shalom finale, oltre alla rinuncia a ogni antisemitismo, Forte indica due gesti significativi chiesti ai cristiani: non pronunciare il tetragramma del Nome divino e celebrare la «giornata dell’ebraismo». A Israele si può chiedere un atteggiamento maggiormente critico verso le scelte politiche dei propri governanti quando non fossero rispettose dei diritti di tutti, specialmente dei più deboli.
Prima del capitolo finale circa la leadership religiosa e la società sull’esempio di Mosè, Forte dedica alcune riflessioni a quattro temi tipicamente ebraico-cristiani: il «cuore», il deserto, la libertà e la gioia.
Riflessioni profonde e attuali, quelle di mons. Forte, su un tema teologico-ecclesiale decisivo. Impegnativo ma affascinante in particolare il primo capitolo, che fornisce un quadro di prospettiva ampio in cui inserire i problemi teologici più particolari.
Bruno Forte, La santa radice. Fede cristiana ed ebraismo, collana «Giornale di teologia» 400, Queriniana, Brescia 2017, pp. 144, € 12,00.