In questi ultimi giorni si è sviluppata una discussione sul rapporto tra la religione cattolica e quella ebraica in seguito alla pubblicazione sulla rivista Communio (4, 2018) di una riflessione di Benedetto XVI intitolata Anmerkungen zum Traktat «De Judeis» (Annotazioni sul trattato «De Judeis»). Era uno studio inizialmente non destinato al pubblico. Se ciò è avvenuto, è stato per l’insistenza del card. Kurt Koch, il quale, dopo aver letto il testo – come egli stesso scrive in una breve nota introduttiva – ha ritenuto che le riflessioni «costituissero un’importante risposta all’invito della Commissione vaticana a un dialogo teologico approfondito tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo (…). Sono convinto che il presente contributo arricchirà il dialogo ebraico-cattolico».
Ma, prima di entrare in merito alla vicenda, è necessario inquadrare il contesto in cui questa riflessione è nata. Bisogna risalire agli anni del Concilio. Il 28 novembre del 1965 era stata emanata la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, conosciuta come Nostra aetate. Al n. 4 il documento conciliare sottolineava: «Il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo, infatti, riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti… Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo… E, se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo».
In occasione dei cinquant’anni di questa Dichiarazione, la Pontificia Commissione vaticana per le relazioni religiose con l’ebraismo pubblicò un documento intitolato: Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29). Il testo, che porta la data del 10 dicembre 2015, era concepito come «punto di partenza per un’ulteriore riflessione che consentisse di arricchire e intensificare la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico».
Benedetto XVI accolse l’invito ad approfondire questo discorso e scrisse appunto le sue Annotazioni sul trattato «De Judeis» sotto il titolo generale Gnade und Berufung ohne Reue (Grazia e vocazione senza pentimento), affidate alla rivista Communio.
Communio è un periodico internazionale di teologia e cultura, fondato nel 1972 e pubblicato in diciassette edizioni. Ideato da Joseph Ratzinger, Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac, Jean-Luc Marion e da altri teologi, è una delle pubblicazioni cattoliche più conosciute, di impianto maggiormente rispettoso della tradizione a confronto con la rivista Concilium.
Le prime reazioni
Appena uscito lo scritto di Ratzinger non sono mancate diverse reazioni negative, come si legge in un articolo di Michael Karger, intitolato Der neue Moses (Il nuovo Mosè) per il periodico Tagespost del 25 luglio scorso.
La prima di esse è di Christian Geyer, il quale sulla Frankfurter Allgemeine (FAZ), si è chiesto perché «rimettere in discussione intenzionalmente una formula diventata il simbolo della comprensione ebraico-cristiana» e ha accusato i redattori in capo della rivista di «grave negligenza» per non avere contestualizzato, «cosa sconcertante», il testo (di Benedetto) con gli ultimi risultati dei lavori del dialogo tra ebrei e cristiani.
Il professore di teologia fondamentale di Salisburgo, Gregor Maria Hoff, ha addirittura affermato che il testo è atto a favorire «l’antiebraismo religioso». E ha aggiunto che Benedetto XVI relativizza il Concilio (Die Zeit).
Anche il Consiglio di coordinamento della Società per la cooperazione ebraico-cristiana ha espresso la sua inquietudine per il futuro del dialogo di fronte a questa «contestazione critica del suo fondamento teologico».
E Walter Homolka, professore di filosofia ebraica della religione, ha dichiarato che – secondo Benedetto – gli ebrei sono effettivamente popolo di Dio, ma che «la verità risiede nel cristianesimo». Chi descrive in questo modo il ruolo dell’ebraismo – ha sottolineato – «crea i presupposti per un nuovo antisemitismo su base cristiana».
David Bollag, rabbino e docente di studi ebraici a Zurigo, definisce il testo non solo «inopportuno e sbagliato», ma anche «altamente problematico e incomprensibile» (NZZ).
Infine, Christian Rutishauser, Provinciale dei gesuiti svizzeri, si è chiesto perché Benedetto ha giudicato positivamente la dispersione degli ebrei e la distruzione del tempio, mentre ritiene il «ritorno sionista» e la fondazione dello Stato di Israele solo come un fatto storicamente profano.
L’analisi del testo di Benedetto XVI
È opportuno analizzare ciò che Benedetto XVI ha realmente voluto dire, esaminando il documento della commissione vaticana. Nel 2015, il card. Koch, nella sua veste di presidente della Pontificia commissione per le relazioni religiose con l’ebraismo, aveva presentato le «Riflessioni su questioni teologiche nelle relazioni ebraico-cattoliche» dal titolo: Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili. Partendo dall’affermazione che «Cristo è il Salvatore di tutti» e che «non ci sono (non possono esserci) due vie di salvezza, poiché Cristo è il Salvatore sia degli ebrei sia dei pagani» si pone la domanda «in che modo la fede cristiana e il significato universale della salvezza devono essere coerentemente congiunti con l’altrettanto chiara affermazione di fede dell’alleanza con Israele mai annullata da parte di Dio».
Un secondo contenuto centrale di quel documento è la tesi secondo cui, dopo il Concilio, negli scritti dottrinali della Chiesa «a una teologia della sostituzione è stato sottratto il terreno». Il superamento della teoria della sostituzione si trova nel testo conciliare stesso. Ci si chiede se «le promesse e i messaggi di Dio hanno cessato di applicarsi al popolo d’Israele, perché non ha riconosciuto Gesù come Messia e Figlio di Dio, ma sarebbero stati trasmessi alla Chiesa di Cristo che ora è il vero “nuovo Israele”, il nuovo popolo eletto di Dio».
Benedetto XVI ha approfondito la plausibilità teologica di questi due punti del documento e ha presentato il suo lavoro nell’autunno del 2017, «ad uso personale», al cardinale di curia Koch nella sua veste di presidente della Pontificia commissione per le relazioni religiose con l’ebraismo.
Le affermazioni centrali
Veniamo alle affermazioni centrali di Benedetto XVI. Dopo la distruzione del tempio e la dispersione di Israele, l’ebraismo e il cristianesimo costituirono due risposte diverse a questi avvenimenti. Ambedue pretendono di garantire «la continuità d’Israele nella loro fede». In questo senso, il significato del Nuovo Testamento consiste nell’«indicare l’interpretazione autentica degli scritti veterotestamentari alla luce degli avvenimenti riguardanti Gesù Cristo».
Da parte dell’ebraismo, la nuova situazione è stata spiegata nella Mishnah e nel Talmud. Per quanto riguarda la Bibbia, le due comunità sono collegate tra di loro, ma sono divise nell’interpretazione.
Per i cristiani il messaggio di Gesù Cristo e la sua morte e risurrezione costituiscono «il punto di svolta dei tempi stabiliti da Dio» e perciò l’interpretazione della sacra Scrittura da parte di Gesù è legittimata da Dio stesso». Nella spiegazione cristiana della Bibbia l’intero Antico Testamento è interpretato come profezia, come movimento verso Cristo. Il significato storico dei singoli scritti non è abolito ma superato. Papa Benedetto, con la spiegazione allegorica della Scrittura, fa sua con Paolo e i padri della Chiesa la spiegazione cristologica dell’Antico Testamento.
Due tesi
Dopo queste osservazioni bibliche preliminari, Benedetto viene a parlare di due tesi con cui il documento del 2015 riassume in «maniera autorevole» lo sviluppo della riflessione teologica sull’ebraismo a partire dal Vaticano II: da una parte, il documento respinge la «teoria della sostituzione», secondo cui, con il rifiuto di Gesù Cristo, Israele «avrebbe cessato di essere il portatore della promessa di Dio». Dall’altra, dopo il Concilio si è approfondito discorso «dell’alleanza mai rinnegata» in relazione alla Lettera ai Romani (cc. 9-11). Anche se, in base a determinati testi neotestamentari (la parabola dei vignaioli affittuari, la parabola del banchetto), il pensiero del «ripudio di Israele ha ampiamente caratterizzato l’idea del rifiuto di Israele e del suo ruolo nella storia attuale della salvezza», nella Chiesa c’è sempre stata la consapevolezza del posto particolare del giudaismo. Israele, inoltre, possiede la sacra Scrittura, anche se, leggendola, il suo cuore è coperto da un velo, che «sarà tolto soltanto volgendosi al Signore Gesù Cristo».
Papa Benedetto esamina in dettaglio fino a che punto può essere sostenuto il «no» radicale alla teoria della sostituzione. Si domanda, ad esempio, riguardo al culto prescritto del tempio: «L’eucaristia sostituisce i sacrifici del culto o questi rimangono in se stessi necessari?».
In Israele si è sempre avuto un culto critico e insieme la fedeltà alle norme, il rifiuto dei sacrifici degli animali ma anche la convinzione che «i semplici sacrifici spirituali» non sono sufficienti. Qui è chiaro che «la visione statica della Legge e della promessa, che sta dietro al «no» indifferenziato alla «teoria della sostituzione» deve essere «necessariamente» interrotta. Considerando la storia della salvezza in modo dinamico, il dono totale di sé di Gesù in croce costituisce l’unica sintesi possibile voluta da Dio. «I sacrifici degli animali sono sostituti dall’eucaristia».
Per quanto riguarda le leggi del culto per gli individui (circoncisione, precetto del sabato, le norme che si riferiscono al cibo e alla purificazione) Benedetto vede, da una parte, il bisogno del giudaismo di proteggere la sua identità, ma anche, dall’altra, la loro abolizione come condizione del sorgere del cristianesimo mondiale tra i popoli pagani. Per quanto concerne il corpus giuridico dell’Antico Testamento, anche nell’ebraismo c’è stato necessariamente uno sviluppo moderno, mentre il Decalogo è stato approfondito, ma ha continuato a rimanere invariato. In nessun modo le beatitudini cristiane hanno sostituito i dieci comandamenti. Anche per Paolo è del tutto evidente che «l’indicazione morale dell’Antico Testamento, riassunta nel duplice comandamento dell’amore, per i cristiani conserva la sua validità, anche se nel nuovo contesto «dell’amore e dell’essere amato da Gesù Cristo».
La messianità di Cristo
Il vero problema controverso secondo Benedetto è la messianità di Gesù. A questo riguardo, occorre osservare che Gesù ha considerato criticamente questo titolo e l’ha collegato più chiaramente con «la figura piena di speranza del Figlio dell’uomo». Nel Vangelo di Giovanni la figura del Promesso di Dio è resa accessibile quale nuovo Mosè. Papa Benedetto ha scelto anch’egli questo approccio a Mosè nella sua trilogia cristologica Gesù di Nazaret.
Per quanto riguarda la promessa di una terra, Benedetto scrive che questa si riferisce al mondo futuro e in questo modo viene relativizzata l’appartenenza a una terra determinata. Per quanto si riferisce allo Stato d’Israele, Benedetto sostiene che «in senso strettamente teologico… lo Stato basato sulla fede fu visto come il compimento politico e teologico delle promesse, ma, secondo la fede cristiana, non è pensabile dentro la nostra storia ed è in contrasto con la concezione cristiana della promessa», ma il popolo ebreo certamente ha «un diritto naturale a una sua terra».
Sul tema sulla promessa di una terra, David Bollag è rimasto particolarmente contrariato da queste dichiarazioni. «Lo Stato moderno ebraico si concepisce e definisce come compimento della promessa biblica di Dio di introdurre il suo popolo nella sua terra». Inoltre, «il fatto che noi abbiamo nuovamente una nostra terra, per tanto tempo sperata e attesa, è per noi molto importante e ne siamo orgogliosi. E ora dobbiamo sentirci dire dal papa emerito che lo Stato basato sulla fede… secondo la fede cristiana… non è pensabile ed è in contrasto con la concezione cristiana delle promesse».
Il gesuita Rutishauser formula così, a mo’ di domanda, la sua critica riguardo alla posizione di Benedetto sullo Stato d’Israele: «Una visione del genere è di aiuto in una situazione in cui molti partecipanti al dialogo si aspettano una teologia cattolica della terra come alternativa al sionismo cristiano degli evangelicali?».
Sostituzione sì o no, non aiuta ad andare avanti. Benedetto indica la via di una spiegazione della Scrittura dinamica e storico-salvifica, come la vede prefigurata nell’evento di Emmaus: «La Chiesa in cammino con Gesù, come i discepoli di Emmaus, impara continuamente a leggere l’Antico Testamento e a comprenderlo in maniera sempre nuova». Nell’analisi dell’«elemento basilare» – il rifiuto della teoria della sostituzione – e del «nuovo consenso circa il problema cristianesimo-ebraismo, così come è esposto dalla Pontificia commissione, Benedetto giunge alla conclusione che «la critica alla teoria della sostruzione indica esattamente la direzione giusta, ma questa deve essere pensata in maniera nuova».
La seconda tesi, «il fatto che l’alleanza conclusa da Dio con il popolo d’Israele permane e non sarà mai considerata invalida», non si trova nella dichiarazione Nostra aetate, ma fu formulata per la prima volta da papa Giovanni Paolo II nel 1980, a Magonza, e più tardi fu accolta anche nel Catechismo (n. 121) e appartiene «in certo senso all’attuale insegnamento della Chiesa cattolica». Benedetto giudica questa formula «sostanzialmente» corretta, ma «nei particolari bisognosa ancora di molte precisazioni e di approfondimenti.
Anzitutto bisogna distinguere tra le diverse alleanze. Oltre alle diverse forme di alleanza del Nuovo Testamento, ci sono il patto di alleanza con Noè, quello con Abramo e con Davide. Mentre l’alleanza con Abramo è universale e incondizionata, quella con Mosè «è limitata e condizionata all’adempimento della legge». L’alleanza con Mosè può certamente venir meno ma non abolisce quella definitiva e universale con Abramo.
Benedetto argomenta: «Nell’espressione “alleanza mai revocata” (…) è esatto dire che non c’è alcuna disdetta da parte di Dio. Fa parte tuttavia della storia concreta di Dio con Israele la rottura dell’alleanza da parte dell’uomo». Per Benedetto l’alleanza del Sinai è per sua natura una promessa, Essa trova il suo compimento nell’amore “fino alla fine” manifestatosi nel Figlio di Dio. Ecco come papa Benedetto giudica la formula «alleanza mai revocata».
Anzitutto il termine «revocare» non appartiene al «vocabolario dell’agire di Dio»: l’amore di Dio è sempre «indistruttibile». L’evento dell’alleanza tuttavia si è realizzato gradualmente, e alla storia dell’alleanza appartiene anche il venire meno dell’uomo, con le sue conseguenze. Soltanto l’evolversi dell’Alleanza del Sinai «in una nuova alleanza nel sangue di Cristo, ossia nel suo amore che vince la morte, dona al patto una configurazione nuova ed eterna». Perciò, per Benedetto, la formula «alleanza mai revocata» non è adatta ad esprimere «in maniera adeguata la grandezza di una realtà». La sua proposta alternativa suona così: «senza pentimento (irrevocabili) sono i doni e la chiamata di Dio» (Rm 11,29).
È deplorevole – conclude Michael Karger sul Tagespost – che i critici non vogliano riconoscere l’argomentazione teologica di Benedetto e invece combattano il fatto di aver messo in questione formule che non possono essere una base percorribile per un autentico dialogo. Benedetto non ha fatto nessuna osservazione sulle dichiarazioni del documento del 2015 circa una missione presso gli ebrei. Ciò significa «che la Chiesa cattolica non conosce e non sostiene alcuna attività missionaria specifica verso di essi. Anche se, in linea di principio, c’è il rifiuto di una missione istituzionale nei loro riguardi, tuttavia i cristiani sono chiamati a testimoniare anche agli ebrei la loro fede In Gesù Cristo».
Anche lo studioso tedesco del Nuovo Testamento, Thomas Söding, di Bochum, difende il nuovo saggio di Benedetto XVI. Nel numero attuale della rivista Herder Korrespondenz, il coeditore di Communio sottolinea che Ratzinger intende «chiarire, oggettivare e approfondire» il discorso. «Questa distinzione non deve contrastare il dialogo, ma far vedere quanto profondamente il rinnovamento è radicato nella Scrittura e nella Tradizione, senza che le differenze ebraico-cristiane siano cancellate». Söding sottolinea che bisogna leggere il testo a partire dal suo titolo. Tutto il saggio è posto sotto questo il titolo Grazia e vocazione senza pentimenti tratto dalla Lettera ai Romani, e dev’essere letto a partire da esso, non come una provocazione, ma come un contributo utile al dialogo ebraico-cristiano».